Partecipo volentieri anche io al Forum di Quotidiano Sanità, dopo aver letto con interesse l’ultimo libro di Ivan Cavicchi, “Sanità pubblica addio”. Un’analisi accorta della parabola discendente disegnata dalla nostra sanità, colpita da controriforme che hanno costantemente ridimensionato il diritto alla salute, con critiche affilate che non risparmiano nessuno, sindacati compresi.
Avremmo potuto fare di più per difendere l’albatros dai colpi di balestra che lo hanno ucciso? Può darsi. Non vorrei ritrovarmi, presto, tra gli ex incapaci di fare autocritica. Ma ritengo che guardarsi indietro, come fa Cavicchi, sia essenziale per analizzare con sguardo grandangolare il tragitto complessivo che è stato percorso negli ultimi 45 anni, in modo da poter improntare con lungimiranza il tracciato della sanità futura.
Il messaggio principale di Cavicchi arriva forte e chiaro, ed è più che condivisibile: l’unico modo per salvare il Servizio sanitario nazionale è una riforma complessiva del sistema, che coniughi le complessità e le sfide del nostro tempo al sogno dei padri dell’art. 32 e della legge 833, con l’obiettivo di rendere il diritto alla salute nuovamente pieno, garantito a tutti, e non più minimo e diseguale.
Per farlo, a mio modo di vedere, occorrerebbe intervenire simultaneamente su tre direttrici diverse: la sostenibilità economica del SSN, l’organizzazione strutturale e il ruolo della professione medica.
In merito al primo punto, si dovrebbe introdurre una nuova visione del ruolo della sanità all’interno della società, che consentirebbe di valutare in modo diverso anche il tema della sua sostenibilità economica. Andrebbe ripensata ex novo la struttura del Fondo sanitario nazionale, che indistinto com’è oggi impedisce di esercitare un controllo efficace sul modo in cui i fondi sono spesi dalle Regioni e dalle Aziende. Andrebbero rivisti i criteri con cui le risorse sono suddivise tra le Regioni, magari introducendo quell’ “indice di occorrenza ponderata” proposto da Cavicchi nel libro che tiene in considerazione anche la stima del rischio sanitario plausibile.
Andrebbe impedito quel progetto di federalismo fiscale che si cela malamente dietro l’obiettivo dell’autonomia differenziata, che rafforzerebbe in modo inaccettabile le già ampie distanze tra Nord e Sud, alimentate dalla riforma del Titolo V. Bisognerebbe, anzi, percorrere la strada in direzione opposta, rivedendo la divisione delle competenze in materia di sanità tra Stato e Regioni a favore di una maggiore centralità del Ministero della Salute. Andrebbe anche rivisto il rapporto tra sanità pubblica e privata, ridimensionando quest’ultima ad un ruolo esclusivamente integrativo e regolamentandola in modo più rigoroso, in modo da impedire il drenaggio di risorse statali che potrebbero essere utilizzate per rafforzare la sanità pubblica.
Per quanto riguarda l’organizzazione del SSN, occorrerebbe la volontà di metter mano interamente al sistema, superando il concetto di silos e di compartimenti stagni a favore di una filiera della salute centrata sui bisogni, e non sul concetto economicistico di azienda, che metta in rete le competenze dei professionisti e le strutture per poter offrire un percorso di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione lineare ma al contempo flessibile per potersi adattare alle necessità di ciascun paziente.
Ma insieme alla struttura, come suggerito da Cavicchi, andrebbe riformata anche la sovrastruttura, introducendo una nuova medicina, una nuova organizzazione del lavoro e un nuovo ruolo del medico, che dovrebbe poter lavorare autonomamente per il bene dei pazienti, ripristinando il rapporto fiduciario, liberandosi dei lacci procedimentali, economici e burocratici che ne limitano l’attività e democratizzando i processi, per poter superare l’attuale monocrazia dei direttori generali.
Obiettivi e sfide che è semplice elencare in poche righe, ma non altrettanto semplice realizzare. Soprattutto considerando i muri costruiti negli anni e divenuti nel tempo invalicabili, con cui necessariamente dobbiamo fare i conti se intendiamo improntare il nostro pensiero sul realismo: dal potere della finanza nel settore agli strettissimi intrecci tra sanità privata e politica; dalla forza assunta dal MEF ai vincoli di spesa europei; dal progetto di governo dell’autonomia differenziata alla maggiore libertà ottenuta dalle Regioni, cui difficilmente rinunceranno; dai tagli indiscriminati a strutture, posti letto e personale all’involuzione dell’offerta sanitaria a cui assistiamo da decenni, riscontrabile anche solo nei cambiamenti introdotti nel lessico, che ci ha portati dai “Livelli UNIFORMI di Assistenza” ai “Livelli ESSENZIALI di Assistenza”, fino ai “Livelli Essenziali delle PRESTAZIONI” e ai possibili “Livelli Essenziali INTEGRATIVI”.
Difficilmente, allora, nell’epoca del rifiuto della complessità, qualcuno deciderà di farsi carico di tale sfida. Ed è per questo motivo che non possiamo aspettare che sia una persona, o un piccolo gruppo, ad assumersi questa responsabilità. Dobbiamo essere noi tutti, insieme, a lavorare con il grande obiettivo di tirare su dal baratro in cui è finita la sanità pubblica.
La parabola del Servizio sanitario nazionale, prossimo all’addio, ha raggiunto il suo punto più basso. È dovere della sanità, allora, lavorare affinché avvenga quel rimbalzo che la riporti a crescere, a migliorare, ad evolvere. È dovere di tutti noi incontrarci, riunirci, lavorare insieme, perché è finito il tempo degli egoismi, dei personalismi, degli interessi di parte, delle bandierine e delle medagliette; e deve iniziare il tempo della mediazione e del compromesso, nell’interesse supremo del paziente. È tempo di pensare ad una controriforma delle controriforme affinché la tutela della salute torni ad essere un diritto fondamentale dell’individuo. E il tempo sta per scadere.
Guido Quici
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