L’economista Elena Granaglia in un recente articolo dal titolo “Ma di chi è il merito”, di cui consigliamo attenta lettura, solleva la questione della frequente sovrapposizione tra competenze e merito nel dibattito pubblico. Più specificamente l’economista afferma: - Nella discussione pubblica, meritocrazia e competenze sono spesso sovrapposti come se fosse impossibile difendere le competenze senza difendere anche la meritocrazia. Certo, le parole sono convenzioni. A prescindere dalle affinità, meritocrazia, merito e competenze ci dicono, tuttavia, qualcosa di diverso e, alla luce di questa diversità, penso che dovremmo abbandonare la meritocrazia e forse anche il merito per difendere, con forza, le competenze.
Orbene, in una prima superficiale analisi, la discussione potrebbe sembrare leziosa, se non fosse che troppo spesso il sistema premiante aziendale (e quindi anche nelle aziende sanitarie del SSN!) si basa prevalentemente sul merito tralasciando le competenze. Siamo tutti protesi a sostenere e favorire un sistema meritocratico – almeno sulla carta - perché in una sana competizione dovrebbe vincere, a parità di competenze necessarie, chi si impegna di più e dovrebbe anche essere premiato adeguatamente e proporzionalmente agli sforzi profusi.
Nell’articolo su citato si legge ancora: - Potremmo almeno salvare il criterio del merito? Che la selezione debba basarsi su una gara competitiva a seguito della quale vince chi è considerato il più competente, mi sembra ovvio. Vogliamo il migliore chirurgo o il migliore pilota di aereo. Ciò nonostante, mi sembra preferibile fare leva direttamente sul valore delle competenze anziché sul merito. Da un lato, sottolineare il valore delle competenze permette di evitare la confusione che potrebbe ingenerarsi qualora si intenda difendere il merito, ma non la meritocrazia (che … ha un secondo tratto critico). Dall’altro lato, la nozione stessa di merito presenta alcune ambiguità. Torniamo alla definizione [di merito] come insieme di abilità e di sforzo. Quando selezioniamo per una data posizione ci interessa davvero quanto la persona si sia sforzata e quali siano le sue abilità naturali? Mi sembra di no. Certo, lo sforzo potrebbe segnalare la disponibilità a cooperare e la cooperazione è una social skill che potrebbe essere apprezzata da un’organizzazione. Quello che è dirimente non è, tuttavia, lo sforzo in sé e neppure un’abilità che poi non si usa. È la prestazione complessiva che si è in grado di offrire. Sforzo e abilità, in altri termini, contano solo in quanto sfociano in una prestazione che è apprezzata…
Veniamo quindi alle competenze. Le competenze individuali rappresentano i mattoni della competenza distintiva che somma le conoscenze alle capacità. La competenza individuale è stata studiata (erroneamente) come un blocco unico e impenetrabile, quindi difficile da comprendere e descrivere. In realtà le competenze non sono altro che il frutto della combinazione di conoscenze teoriche, abilità, attitudini e motivazioni che si traducono in comportamenti facilmente osservabili e sistematicamente ripetibili.
Per ognuno di noi, tuttavia, le competenze vanno ben distinte tra competenze di base, specifiche e trasversali. Le prime riguardano la cosiddetta conoscenza teorica ovvero la formazione di base utile per muoversi nel mondo (linguaggio, lettura, matematica, ecc.). Le competenze specifiche consentono di operare nel contesto di riferimento ovvero si tratta di competenze pratiche del ruolo o della funzione. Infine le competenze trasversali sono utili in più ambiti (comunicare, parlare in pubblico, lavorare in gruppo, negoziare, ecc.) e spesso possono fare la differenza (es. management). Le competenze dunque sono il nostro patrimonio complessivo di qualità personali e conoscenze che ognuno utilizza in ogni momento della propria vita, al lavoro, in famiglia, nello sport. Rappresentano un capitale valutabile, osservabile e migliorabile attraverso processi di apprendimento e sviluppo personale. Ma per migliorare le competenze serve l’impegno costante, così come serve impegno costante nel quotidiano per raggiungere risultati qualitativamente elevati o almeno accettabili.
Nelle selezioni pubbliche di personale si valutano solitamente le competenze di base e le competenze specifiche, e questo trova la necessaria conferma nel sistema concorsuale di accesso al SSN. Ma una volta “dentro” al SSN, la valutazione, o meglio la valorizzazione, dell’operatore fa riferimento esclusivo a un sistema meritocratico solitamente definito a livello aziendale attraverso un regolamento interno (con tanto di indicatori spesso predefiniti).
Il SSN sembrerebbe quindi un sistema teoricamente perfetto, orientato a selezionare e valorizzare i “migliori”. Non a caso il CCNL della dirigenza sanitaria prevede che i criteri di attribuzione del risultato devono essere definiti “secondo principi di chiarezza, trasparenza e reale valorizzazione del merito”.
A titolo esemplificativo si potrebbero richiamare gli indicatori ed i criteri individuati nell’allegato 1 del CCNL 6 maggio 2010:
Dov’è allora il problema? Qual è il vulnus del sistema premiante attualmente in uso? Qui Elena Gramaglia ancora una volta ci aiuta nel fare chiarezza: - “Fare leva sulle abilità e sullo sforzo … rischia di farci sottovalutare il peso delle lotterie naturale e sociale nonché la dimensione sociale del merito, ossia, il fatto che sono gli altri a definire quest’ultimo. Riconoscere la dimensione sociale ci spinge, invece, ad affrontare la questione di chi ha il potere di definire i meriti e a ricercare un disegno istituzionale che permetta di dare voce alle diverse accezioni di prestazioni desiderabili e, con esse, al pluralismo delle valutazioni. In questa prospettiva, l’illusione di potere ottenere ordinamenti completi andrebbe abbandonata, visto che sarebbero incapaci di tenere conto della multidimensionalità di ciò che ricerchiamo”.
La gestione del SSN è in gran parte modulata sulla formulazione/affidamento degli obiettivi (singoli o di equipe) e sulla consequenziale valutazione del personale, dirigenziale e non, basata essenzialmente sul merito (e non sulle competenze). Questi obiettivi sono affidati dai singoli dirigenti responsabili di struttura, appartenenti alle fasce di top o middle management, che portano con sé un inevitabile, connaturato orientamento ad interpretazioni soggettive che hanno, come effetto, l’impossibilità di sostanziare la valutazione con indicatori oggettivi, misurabili ed inequivocabili. In sintesi non riusciamo a costruire un sistema premiante che sia assolutamente oggettivo ed imparziale poiché c’è sempre di mezzo il rapporto umano tra valutatore e valutato che, per definizione, non può essere oggettivo (simpatie-antipatie, divergenze politiche, differenze caratteriali, ecc.).
Assistiamo frequentemente, quindi, a valutazioni disincentivanti nell’ambito delle diverse equipe che rasentano il ridicolo (tutti uguali e tutti bravissimi) o, nella migliore delle ipotesi, totalmente inique (premiato il più servizievole o il meno polemico o quello più vicino al “sole”)…
La riflessione ovviamente può andare avanti all’infinito ma crediamo valga la pena riflettere sul possibile miglioramento degli articoli contrattuali dedicati alla delicata questione della valutazione e relativo sistema premiante puntando alla definizione di nuovi e rivoluzionari criteri (e indicatori) incentivanti che valorizzino opportunamente i diversi contributi (frutto di competenze crescenti e di impegno costante) e che possano il più possibile tenere a freno appetiti autoreferenziali e atteggiamenti pericolosamente autoritari decisamente lontani da etiche logiche di squadra!
Per sviluppare il lavoro di squadra si deve meglio valorizzare iI senso di appartenenza che si può radicare attraverso un virtuoso miglioramento dei processi di comunicazione, anche tra attori diversi e con esigenze diverse, con l’intento di trasformare le criticità e le divergenze in vere e proprie opportunità.
Proprio il lavoro di squadra è quello auspicato da Glenn Laverack che nel suo libro “Salute pubblica. Potere, empowerment e pratica professionale” confida in una sanità pubblica che abbia un approccio comunitario e non prevalentemente biomedico. Il libro di Laverack trasmette il messaggio che “per promuovere interventi di partecipazione comunitaria non sia sufficiente chiamare quello che si è sempre fatto (e si continua a fare) con parole nuove, perché nuove invece devono essere le pratiche e i comportamenti messi in campo, a partire dagli operatori stessi”.