Introduzione
In un recente contributo sulle modalità per affrontare l’emergenza salute mentale abbiamo concentrato l’attenzione sulla necessità di un intervento straordinario per arginare il “cedimento strutturale” che il sistema di cura per la salute mentale presenta ormai da anni.
L’auspicato rifinanziamento straordinario della Salute Mentale (e degli altri macro-livelli di assistenza palesemente sottofinanziati) dovrà tuttavia accompagnarsi a misure idonee ad evitare di “fare il pieno di benzina a un’auto col motore in panne”. In altri termini, se la rinnovata sensibilità di opinione pubblica e politica alla salute mentale determinerà un deciso rafforzamento del sistema pubblico di cura - oggi nel pieno di una crisi di mezzi che rischia di divenire rapidamente crisi dei suoi princìpi fondanti, della sua identità storica - è necessario contemporaneamente intervenire sui dispositivi che hanno contribuito a indebolirne la resilienza e rischiano di vanificare la ripresa.
Consapevoli che nessuna reingegnerizzazione dell’architettura organizzativa dei servizi per la salute mentale potrà avere successo senza prima ricostituire il capitale umano e professionale che in questi servizi opera.
La “tecnologia umana” dei servizi per la Salute Mentale
Applicando questo rapporto alla popolazione residente di età > 18 a. (49.885.100 al 1° gennaio 2021) si ottiene il numero complessivo di professionisti che dovrebbero operare nei DSM: 33.423.
L’attuale dotazione di personale dei DSM italiani viene riportata negli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Salute: sono in servizio 28.807 operatori (ossia 57,4 per 100.000 abitanti adulti residenti), di cui 25.754 dipendenti a tempo pieno, 1789 dipendenti part-time e 1264 convenzionati. La carenza, calcolata conservativamente rispetto allo standard fissato oltre 20 anni fa, è pari a circa 4.600 operatori.
Il lento, graduale processo di depauperamento dei servizi per la salute mentale del quale oggi verifichiamo le drammatiche conseguenze si realizza principalmente negli ultimi 10 anni. Ancora nel 2001, infatti, un’indagine condotta dal Ministero della Salute riportava la presenza nei Dipartimenti di Salute Mentale di 34.446 unità di personale, un numero addirittura più alto di quello previsto dal DPR del ’99.
Cosa ha prodotto questo stillicidio? Due provvedimenti importanti per la sanità pubblica hanno segnato gli ultimi lustri: l’adozione di un tetto di spesa per il personale e la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi, relativi all’assistenza ospedaliera.
Il tetto di spesa per il personale, il DM 70/2015 e il Decreto Calabria
Le Regioni sono tenute a rispettare un tetto di spesa per il personale del SSN: questa prescrizione, introdotta dal ministro Tremonti nella finanziaria 2010[2] con l’obiettivo dichiarato di contenere la spesa sanitaria, fuori controllo in molte aree del Paese, ancorava l’ammontare complessivo della spesa per il personale al consuntivo 2004 diminuito dell’1,4%. La norma, inizialmente limitata al triennio 2010-2012, venne successivamente estesa a tutto il 2020[3] passando immodificata attraverso i successivi Governi Monti, Letta, Renzi.
Gli effetti di questo dispositivo sono stati così commentati dal Forum per il Diritto alla Salute: “… il blocco delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione, più stringente per le Regioni in piano di rientro e commissariate, è stato regolarmente aggirato da un vero e proprio “falso in bilancio” tramutando le “spese per il personale” in “spese per l’acquisizione di beni e servizi” (che nascondono comunque l’acquisizione di manodopera) …”. In Salute Mentale, questo ha corrisposto a un incremento notevole dell’offerta residenziale e semi-residenziale acquistata dal privato imprenditoriale e dalla cooperazione sociale. L’applicazione di meccanismi contrattuali che pongono scarsa attenzione alla qualità dei processi abilitativi e di inclusione, a vantaggio di economie di scala, e l’assoluta carenza di valutazioni d’esito, hanno contribuito ad alimentare derive neo-istituzionalizzanti.
Non vanno inoltre sottovalutati gli effetti indiretti del DM 70/2015: l’esigenza di asseverare l’assistenza ospedaliera a precisi standard di personale e di attività (pena la chiusura di reparti o di interi presìdi ospedalieri) a bilancio invariato, si è scaricata in molti casi sui servizi territoriali e di prevenzione, che sono stati gradualmente definanziati nella loro componente di spesa più rilevante, quella per le risorse umane. Per i servizi di salute mentale questo ha significato la necessità di concentrare il personale nei presidi ospedalieri, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, indebolendo ulteriormente la capacità di offerta dei servizi territoriali.
Ma torniamo al tetto di spesa per il personale: nel 2019, con un emendamento al c.d. Decreto Calabria[4] la Ministra Grillo introduceva un progressivo innalzamento del tetto, pari al 5% dell'incremento del Fondo Sanitario Regionale rispetto all'esercizio precedente. Dopo le deroghe al tetto di spesa operate dalla legislazione d’urgenza in periodo pandemico, la finanziaria 2022 (L. 234/2021) all’Art.1, c. 269a, ha innalzato ulteriormente il tetto al 10% dell’incremento del FSR.
È stato tuttavia già notato che il meccanismo introdotto dal c.d. Decreto Calabria ha acuito anziché ridurre le già forti disuguaglianze inter-regionali. Le Regioni “virtuose” - quelle che hanno alimentato i bilanci d’esercizio anche con risorse proprie – hanno infatti maggiori possibilità di investimenti in personale in quanto maggiore risulterà l’incremento del FSR rispetto all’anno precedente.
Le strategie adottate nell’emergenza pandemica
Nel 2020 - primo anno della pandemia - nonostante le deroghe al blocco delle assunzioni e l’allocazione di risorse aggiuntive per assunzioni a tempo determinato, la dotazione di personale dei servizi di Salute Mentale rimaneva sottodimensionata, vuoi per la penuria di personale medico determinata dall’”imbuto formativo” di accesso alle scuole di specializzazione, vuoi per la scarsa attrattività di un impiego “a termine”.
Le modalità adottate dalle Aziende sanitarie per far fronte alle carenze di personale hanno spesso prodotto criticità aggiuntive: dall’accentramento del personale sulle funzioni di emergenza-urgenza, alla chiusura di Servizi Psichiatri di Diagnosi e Cura (SPDC), specie quelli presenti in aree periferiche, al reclutamento con contratti libero-professionali di specialisti “ad ore” per la copertura dei turni di guardia, all’affidamento di funzioni cruciali dell’assistenza a cooperative di servizi. Lo squilibrio tra domanda (concorsi banditi) e offerta (numero limitato di professionisti) ha determinato ulteriori effetti perversi: i candidati idonei – disponendo di più frequenti opportunità di collocazione – hanno dato luogo a rapidissimi turnover da un’azienda all’altra, a tutto discapito della continuità assistenziale. La conseguenza è stata una minore capacità di dare risposta alla domanda di assistenza che nel frattempo è notevolmente cresciuta. Peraltro, già in periodo pre-pandemico avevamo documentato come i Servizi fossero in grado di dare risposte appropriate a poco più del 50% dell’utenza in contatto.
A sua volta, il personale che opera in equipes cronicamente sotto organico è esposto a carichi di lavoro insostenibili, con maggior rischio di burnout, incompatibili con la complessità dei percorsi terapeutici da condurre. Si è stabilito così un circolo vizioso: sono sempre più numerosi i professionisti che decidono di uscire dai ruoli del SSN a favore di più remunerative prospettive private o anticipando la pensione, mentre l’accresciuta domanda di assistenza si ripartisce sui colleghi rimasti in servizio, aumentando ulteriormente - in assenza di turnover - i carichi di lavoro individuale.
Il danno più grave prodotto dalla mancata attenzione alla “tecnologia umana” dei servizi per la salute mentale, ossia di personale in numero adeguato al fabbisogno, adeguatamente formato sul piano professionale, relazionale e del lavoro d’equipe, è costituito dal ripresentarsi di una psichiatria che si connota come una branca della specialistica ambulatoriale, che usa lo psicofarmaco come principale (o unico) strumento terapeutico e che invia al ricovero ospedaliero o residenziale i casi che non (cor)rispondono alla semplificazione dell’offerta terapeutica. Questa deriva culturale ha un’altra caratteristica: una volta consolidata nelle prassi operative essa diviene assai difficilmente modificabile, anche con la (tardiva) iniezione di risorse fresche.
Imparare dagli errori: rafforzare e valorizzare la “variabile umana” in Salute Mentale
Come si è detto, la carenza di personale nei servizi di salute mentale è attualmente molto rilevante e peggiorerà nei prossimi 2-3 anni, ad esito di una programmazione che è eufemistico definire poco accorta. Fare fronte alla crisi attuale può consentire, tuttavia, riforme strutturali da tempo attese.
La prima riguarda la definizione di standard organizzativi, quantitativi e qualitativi per la salute mentale. Purtroppo, né il PNRR né il DM 77/2022 hanno dedicato attenzione a quest’area dell’assistenza territoriale, rinviando ad un atto successivo l’integrazione del DM 77. Questo provvedimento dovrà tener conto dell’incremento della domanda registrato negli ultimi 20 anni, prevedendo un corrispondente incremento del rapporto operatori / popolazione residente, ed avere una cogenza tale da superare le differenti capacità attuative regionali.
La seconda interessa la programmazione dei percorsi formativi. Osservando la situazione che si è delineata negli anni passati, si ha l’impressione che la programmazione sia stata dettata più dalle caratteristiche e dai “desiderata” delle scuole di specializzazione che dal reale fabbisogno di professionisti necessari al funzionamento del SSN. Eppure non sono mancate le analisi che hanno segnalato, per singola specializzazione e per ciascuna Regione, le carenze attese. Varrà la pena ricordare che la spesa per i contratti di formazione specialistica dei medici è sostenuta da uno stanziamento annuo di € 173.010.000 del Fondo Sanitario Nazionale. Per far fronte all’emergenza il Ministero della Salute ha incrementato i contratti di formazione specialistica da 8mila nel 2019 a 13.400 nel 2020 e 17.400 nel 2021. In proporzione, sono significativamente aumentati anche quelli in psichiatria: dai 280 contratti coperti con fondi statali del 2018-19 a 717 nel 2020-21. Di questi, 217 sono finanziati con fondi PNRR (DM Salute del 9.7.21, art. 2, c. 2). In breve, tra 3-4 anni potrà partecipare ai concorsi un numero di medici significativamente maggiore rispetto agli anni scorsi, ma per gli anni a venire la programmazione del fabbisogno di specialisti per il SSN dovrà essere adeguatamente presidiata dalle amministrazioni regionali, cui compete la responsabilità organizzativa e gestionale dei servizi sanitari.
La terza attiene alla riforma della formazione medica. Il tema ha valenza generale, ma in psichiatria assume importanza specifica. In termini generali, l’attuale sistema formativo post lauream, quando lo si confronta con altri paesi occidentali è stato giudicato “obsoleto ed espressione di un arroccamento dell’Università che, pur di non perderne l’egemonia, è disposta a barattare la qualità formativa e la performance dell’intera programmazione di medici specialisti”. La formazione specialistica in psichiatria presenta peculiari elementi di criticità, facilmente evidenziabili da chiunque abbia incarichi di responsabilità all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale e debba verificare le competenze del personale neo-assunto. L’elaborazione di progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati volti a perseguire obiettivi di capacitazione e di inclusione sociale e non solo di contenimento farmacologico dei sintomi, la gestione di casi complessi multiproblematici, l’integrazione sociosanitaria, il rapporto di collaborazione con il privato sociale e l’associazionismo, la stessa capacità di lavoro in equipe multiprofessionali, sono solo alcune delle aree in cui la formazione accademica non sembra sufficiente. I limitati tempi di presenza presso le reti formative dei servizi territoriali, inoltre, non consentono ai giovani specializzandi di vicariare a questi limiti. L’incremento degli accessi alle scuole di specializzazione, con un numero di medici più che raddoppiato a fronte di spazi e docenti rimasti identici ha acuito queste criticità. È il momento insomma di mettere mano a una riforma del DLgs 368/2019, individuando Ospedali, Distretti Sanitari, Dipartimenti di Salute Mentale in grado di svolgere, per ricchezza della casistica e competenza dei professionisti, attività formativa equamente condivisa tra Università e SSN, inquadrando sin dal primo anno i professionisti nel SSN con veri contratti di lavoro commisurati al livello di autonomia conseguita.
La quarta riguarda le modalità di svolgimento dei concorsi pubblici. L’attuale modalità prevede che ciascuna Azienda Sanitaria bandisca, sulla base del proprio fabbisogno, una selezione ad hoc. Il singolo candidato che aspira a conseguire il ruolo di dirigente del SSN può legittimamente presentare una domanda per ciascuna selezione. Non è infrequente osservare gli stessi nominativi presenti in due, tre o più procedure concorsuali nella stessa Regione. Ne risulta un sovraccarico procedurale per più amministrazioni, il coinvolgimento di un numero elevato di commissari e l’imprevedibilità di una stabile copertura dei posti vacanti, per la possibile scelta in successione di Aziende Sanitarie diverse da parte degli idonei. Diverso sarebbe se, a cadenza determinata, fosse bandita un’unica procedura di selezione valevole per l’intero territorio regionale, con espressione da parte del professionista di un numero ristretto di sedi preferenziali, proporzionale al numero di Aziende Sanitarie. Una modalità del genere, peraltro già applicata in alcuni contesti regionali, avrebbe anche il vantaggio di azzerare i tempi intercorrenti tra la materiale disponibilità del posto vacante e la sua copertura.
Vanno infine citati gli interventi che potrebbero interessare gli incentivi economici per il personale, dalla regolamentazione (e defiscalizzazione) del lavoro aggiuntivo, all’integrazione da corrispondere al personale che presta servizio in aree interne o disagiate, o per le quali vadano ripetutamente deserte le procedure di selezione.
In conclusione, prima di ricorrere a personale di altri Paesi molto può essere fatto per impegnare al meglio e sostenere le risorse umane e professionali disponibili e – attraverso un’azione riformatrice – costruire presìdi di resilienza che rafforzino la struttura e la capacità di risposta del nostro SSN.
Fabrizio Starace
Direttore DSMDP AUSL di Modena
Presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica
Presidente Sezione IIIa Consiglio Superiore di Sanità
Note:
[1] Gazzetta Ufficiale n. 274 del 22.11.1999
[2] Art.2, c.71 della L.191/2009
[3] Art.17, c.3 della L.111/2011
[4] Art.11, DL 30.4.19 n.35