Uno spettro si aggira per l’Europa e da qualche tempo anche in Italia: è la figura del “paziente esperto”. “Una nuova figura professionale nel mondo della salute”, così lo definisce l’Accademia dei Pazienti EUPATI che organizza dal 2019 appositi corsi di formazione con il supporto di AIFA, il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità e Farmindustria, con il contributo non condizionato di importanti aziende farmaceutiche.
Di pazienti esperti si parla nel nuovo codice deontologico di Farmindustria, approvato nell’aprile di quest’anno, che al punto 4.6 disciplina i rapporti tra le Aziende farmaceutiche e questi soggetti, definendo le modalità attraverso cui gestire ogni forma di supporto economico diretto o in diretto nei loro confronti.
È di questi giorni la notizia dell’approvazione da parte della Giunta Regionale della Toscana di un progetto sperimentale che prevede il coinvolgimento della figura del paziente esperto nella progettazione di alcune gare per l’acquisto di farmaci e di dispositivi medici. Come specificano le linee di indirizzo allegate alla delibera che approva il progetto, tale soggetto deve essere una "persona con patologia cronica oppure oncologica oppure rara (o caregiver) che oltre all’esperienza di malattia abbia acquisito una formazione tecnica riguardo ad argomenti inerenti allo sviluppo dei farmaci o dei dispositivi medici erogata da un ente formatore riconosciuto”. Per la Regione Toscana, a quanto pare, eventuali esperienze pregresse in associazioni di pazienti non sono requisiti indispensabili per poter svolgere il ruolo di paziente esperto. Di certo non ve n’è alcuna menzione.
Come pezzi di un puzzle, tutte queste informazioni sembrano ricomporre un quadro che – oltre gli slogan della sanità partecipata e della patient centricity – evoca scenari niente affatto rassicuranti.
La mia impressione, infatti, è che ci troviamo di fronte a un lento, ma costante, lavorio sottotraccia finalizzato destituire di importanza – e pian piano sostituire nelle dinamiche decisionali nella sanità – le associazioni dei pazienti, cioè quel corpo intermedio tra cittadini affetti da patologie, clinici e istituzioni, che oltre ad avere una fondamentale funzione di aggregazione e di rappresentanza, è altresì in grado di erogare servizi ai propri affiliati. Non soltanto una persona adeguatamente formata, dunque, ma organizzazioni fatte di persone con la stessa patologia che si aiutano tra loro e allo stesso tempo aiutano le istituzioni ad elaborare policy che siano il più possibile vicine ai bisogni e coerenti con le necessità di chi vive quotidianamente sulla sua pelle gli effetti di quella specifica patologia.
È sufficiente essere un’associazione di pazienti per poter sedere ai tavoli istituzionali?
Prima della pandemia sì, era sufficiente. Ora, con tutte le riforme che il Paese ha davanti a sé sulla sanità, forse non lo è più, ma questo non giustifica di certo la volontà di relegare tali realtà a una semplice fornitura di servizi.
È infatti proprio questo il mio timore: se un corso di formazione – pur se autorevole – può garantire a singoli individui il privilegio di partecipare alla formulazione di politiche pubbliche in diversi settori, le associazioni dei pazienti avranno un compito ancora più arduo e composito da svolgere. Continueranno a supportare i cittadini, dovranno rappresentare le loro istanze alla politica e, in aggiunta, dovranno anche preoccuparsi di convincere quel “paziente esperto” che siede ai tavoli istituzionali che, ad esempio, quel particolare device non è esattamente adatto a un paziente con il diabete. Perché, questo è certo, il “paziente esperto” su alcuni temi non sarà mai abbastanza esperto. Chi rappresenterà dunque? Se stesso? Da chi sarà scelto e con che criterio?
L’impressione è che si stiano creando figure rappresentative dei pazienti – che giustamente l’Europa ci obbliga a coinvolgere – che rispondano più ai criteri di non belligeranza nei confronti delle aziende farmaceutiche o di questo o quello specifico interesse. Inoltre, mi pare che in questo modo si cerchi di professionalizzare una figura che può far molto comodo alle istituzioni, le quali potranno evitare di sprecare quelle risorse ed energie che sono indispensabili se si vuole garantire percorsi realmente partecipati che permettano, ad esempio, di far scegliere alle associazioni di pazienti i propri rappresentati ai tavoli di elaborazione delle policy sanitarie.
Tutto ciò richiama alla mente l’immagine di una catena di montaggio che, con un unico stampo, produce una figura da posizionare nei tavoli dove si decide sulla pelle di altri, eliminando tutte quelle specificità che ogni patologia rappresenta, la molteplicità dei punti di vista e delle esperienze, la ricchezza e il contributo di associazioni che da anni operano per e con i cittadini malati.
Mi auguro che questo straordinario corpo intermedio comprenda il pericolo che sta correndo e reagisca rivendicando un ruolo che gli appartiene. È vero che la formazione è necessaria, ma è fondamentale che tale formazione riguardi persone che siano attive nelle associazioni, che abbiano esperienza e che siano in grado di rappresentare quella comunità nella quale hanno operato per anni, condividendone obiettivi, fatica e speranze.
Rosaria Iardino