Nello tsunami mediatico provocato dalla guerra tra Russia e Ucraina, poco si è detto su una questione solo apparentemente marginale: le sanzioni comminate alla Russia riguardano anche gli scienziati russi?
Se ne tratta in un documentato articolo di Silvia Annovi sul “Punto”, rivista dell’Ordine dei Medici di Torino, che riporta la notizia che alcune riviste americane non pubblicheranno contributi di ricercatori russi sostenuti da Enti pubblici di quel paese, accettando solo quelli finanziati altrimenti, e che alcune collaborazioni tra Università americane e russe e tra paesi occidentali e Russia sono state sospese.
Sulla stessa rivista è comparso anche un articolo di Sandro Galea, Presidente della Public Health School di Boston, che sostiene che “rifiutarsi di lavorare con collaboratori accademici russi che non hanno legami con l’establishment politico o militare del Paese è un’azione controproducente e un tradimento dei nostri valori come società e come comunità”. L’autore sottolinea come “i conflitti d’interesse non di ordine economico pongano sfide particolari per la sanità pubblica. Esplicitare questi “conflitti” migliorerebbe la ricerca?”
In un documento dell’International Scienze Council, apparso nella stessa rivista, si afferma che “il diritto di partecipare e di beneficiare dei progressi della scienza e della tecnologia è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così come il diritto di impegnarsi in indagini scientifiche, di perseguire e comunicare la conoscenza e di associarsi liberamente a tali attività. I diritti vanno di pari passo con le responsabilità nella pratica responsabile della scienza e nella responsabilità degli scienziati di contribuire con le loro conoscenze nello spazio pubblico per la visione della scienza come bene pubblico globale”.
Questo è il problema in sintesi. Ma leggo questa notizia in modo sinergico con un articolo di Ivan Cavicci apparso pochi giorni fa su QS nel quale si lamenta il silenzio della bioetica dopo l’episodio pandemico che, invece, ci costringe a riflettere su acquisizioni apparentemente consolidate.
Al di là del merito dell’articolo, che qui non discuto, concordo sul silenzio della bioetica sulla pandemia, fatti salvi i primi documento del CNB, ma aggiungo anche quello della deontologia che si estende, mentre si combatte la guerra in Ucraina, non solo al tema trattato nella rivista dell’Ordine di Torino ma anche ad altri, resi urgenti dalla tragedia cui assistiamo quotidianamente.
Oltre alla questione delle ricerche finanziate da enti pubblici, spesso militari, che in ogni parte del mondo hanno portato a rilevantissime scoperte, esiste il problema della partecipazione dei medici ad azioni di guerra.
L’art. 78 del Codice Deontologico disciplina la materia, ma non basta: la norma sembra disegnata più per le cosiddette “missioni di pace”, che ci hanno illusi per decenni quando pensavamo di vivere in tempo di “guerra fredda”, finita la quale non è scoppiata la pace ma la guerra vera, lunga e sanguinosissima.
Allora anche il concetto di guerra giusta appare scivoloso. Se non vi sono dubbi quando si combatte contro il nazifascismo, non sempre i confini sono così nitidi. Il Codice Deontologico si oppone alla tortura e ad ogni violenza e colloca l’agire del medico all’interno della Costituzione per la quale l’Italia ripudia la guerra.
Ma c’è chi non accetta di risolvere ogni controversia pacificamente. Il nostro Codice non prevede alcuna obiezione di coscienza del medico né può contraddire l’articolo 52 della Costituzione: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. Vi è o no una deontologia del medico civile “in tempore belli”? Peste, guerra e carestia hanno per alternativa la pace che si avvale anche della medicina.
I problemi non mancano e chi scrive può solo tentare una prima sommessa elencazione. Tuttavia due idee vorrei esprimere.
La prima è che buona parte della ricerca è sostenuta dallo Stato, spesso da enti militari per scopi non sempre volti a cause giuste e sacrosante. Senza scomodare Tuskagee o Norimberga la ricerca non è sempre finanziata dalla Fata Turchina ma dal Pentagono o da multinazionali finanziarie.
Credo che il problema sia già stato autorevolmente risolto quando è stato detto che chi è senza peccato scagli la prima pietra. Quanto poi gli scienziati siano responsabili degli usi delle loro scoperte è una antica ma concretissima questione. E non credo che i medici possano chiedere moratorie come i fisici perché i risultati delle loro ricerche sono sottoposti alla pressione dei pazienti e lo constatiamo ogni giorno in oncologia.
L’altra nasce dalla frase di Hegel che la filosofia, come la nottola di Minerva, si alza in volo al tramonto quando la giornata è finita e i fatti sono accaduti; così accade per il diritto e la deontologia. Purtroppo siamo ben oltre il tramonto: il futuro era ieri e si è assai in ritardo nell’avviare la riflessione non solo sulle valutazioni etiche delle conseguenze sulla medicina della pandemia e della guerra Ucraina ma su come queste terribili vicende accadano quando la tecnologia sconvolge drasticamente la prassi medica.
Antonio Panti