Mangiacavalli (Fnopi): “Serve una nuova cultura per la multiprofessionalità”
11 LUG - Nei prossimi dieci anni 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave. E nel 2030, potrebbero arrivare a 4 milioni e mezzo gli ultra 65enni che vivranno da soli, e di questi, 1 milione e 200mila avrà più di 85 anni. Il potenziamento dell’assistenza domiciliare e della residenzialità fondata sulla rete territoriale di presidi sociosanitari e socioassistenziali, a oggi ancora un privilegio per pochi, con forti disomogeneità a livello regionale, non è più procrastinabile anche in funzione di equilibri sociali destinati a scomparire, con la progressiva riduzione di persone giovani all’interno dei nuclei familiari. Se oggi ci sono 35 anziani ogni 100 persone in età lavorativa, nel 2050 ce ne saranno quasi il doppio: 63.
“Parla chiaro l’indagine che Istat ha condotto per Italia Longeva – afferma
Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) – e il suo presidente, Roberto Bernabei, aggiunge anche che la disabilità nel 2030 interesserà 5 milioni di anziani, e diventerà la vera emergenza del futuro e il principale problema di sostenibilità economica nel nostro Paese. Essere disabile vuol dire avere bisogno di cure a lungo termine che, solo nel 2016, hanno assorbito 15 miliardi di euro, dei quali ben tre miliardi e mezzo pagati di tasca propria dalle famiglie.
Questa fotografia – commenta sempre Bernabei - conferma il dato di fondo rilevato lo scorso anno: mentre la cronicità dilaga e la disabilità diventerà la vera emergenza del futuro l’Adi continua ad avere un ruolo marginale e ad essere fortemente sottodimensionata rispetto ai bisogni dei cittadini con il risultato che gli anziani continuano ad affollare i Pronto Soccorso”.
Ma l’indagine parla ancora più chiaro quando afferma che non si possono trasformare le maggiori città in reparti “a cielo aperto” e per questo fa un esempio “che per la nostra professione – aggiunge Mangiacavalli - è un modello ormai affermato e che abbiamo chiesto a tutte le Regioni, non solo quelle benchmark, di seguire: l’infermiere di famiglia e di comunità”.
I modelli che l’indagine riporta sono molti e di molte Regioni benchmark, ma la sostanza di tutti è che l’intervento dell’Infermiere di famiglia e di comunità si esplica a più livelli e comprende azioni che si rivolgono alla persona, al nucleo familiare e comunitario per le interconnessioni che si determinano nelle relazioni ed influenze reciproche, il sostegno al care-giver, l’educazione terapeutica, le attività di sostegno al self-management, lo sviluppo del capitale sociale, la costruzione della rete di sostegno, ecc.
L'assistenza territoriale integrata ha bisogno di competenze forti da parte di tutti i professionisti, che debbono essere messi in condizioni di esprimere e di far evolvere al massimo le proprie potenzialità per offrire risposte sempre più valide, modulabili, veloci, personalizzate.
“L’obiettivo, come afferma la ricerca – prosegue la presidente Fnopi - è quello di sviluppare un modello di assistenza che metta gli anziani al centro dell’assistenza sanitaria e sociale consentendo loro di rimanere a casa il più a lungo possibile, modelli in cui si dichiara nelle conclusioni quanto la dimensione assistenziale risulti strategica”.
“Una necessità ormai indifferibile che non può essere fermata da posizioni vetero-culturali di chi non ha capito come si è evoluta la figura e la professionalità dell’infermiere sia nel senso delle capacità clinico-assistenziali, sia per quanto riguarda la responsabilità professionale e tenta, facendo ombra alla sua professionalità, di compiere manovre che con l’assistenza non hanno nulla a che fare e soprattutto non sono lo specchio della multiprofessionalità di cui ha bisogno il nostro sistema sanitario nei prossimi anni proprio alla luce di questi dati e che già caratterizza le Regioni più evolute proprio nell’assistenza domiciliare”.
“Respingiamo con forza ogni tentativo di lasciare le cose così come sono oggi, anche perché – dichiara Mangiacavalli – è come aprire la strada a ulteriori disuguaglianze che già penalizzano le fasce più fragili dei cittadini. Si vuole far rimanere immutato l'attuale paradigma a svantaggio del cittadino per logiche occupazionali che ormai non si mantengono nemmeno più velate, guardando con diffidenza ad ogni forma di task shifting in una immutabile e pericolosa cristallizzazione professionale, impedendo lo sviluppo di professioni e di interconnessioni multi professionali di pari livello che possono fare la differenza in questo preoccupante quadro epidemiologico e sociale, invocando posizioni e ruoli inalienabili come fossero un diritto intoccabile, bloccando modelli organizzativi internazionali e nazionali virtuosi con proclami che instillano dubbi su sicurezza e qualità delle cure”.
“È ora di dire basta – conclude Mangiacavalli - a chi si oppone ad una rivoluzione culturale in ambito socio sanitario, dobbiamo tutti collaborare ad un nuovo modello di salute, dobbiamo trovare modelli di dialogo per l'interesse del cittadino, dobbiamo far esplodere e formalizzare il tema delle competenze avanzate maturate e quindi esigibili dai professionisti, ma sia chiaro: chi continua ad opporsi oggi con puro approccio autoreferenziale dovrà assumersi la responsabilità delle conseguenze di questo atteggiamento davanti a tutti i nostri cittadini”.
11 luglio 2018
© Riproduzione riservata