Pembrolizumab: funziona in monoterapia anche nei pazienti con tumore polmonare a bassa espressione di PD-L1
di Maria Rita Montebelli
Lo studio KEYNOTE-042 ha dimostrato che, nei pazienti con tumore polmonare in fase avanzata, il pembrolizumab in prima linea riduce del 20% la mortalità rispetto alla chemioterapia, anche nei pazienti con scarsa espressione di PD-L1. Al momento il farmaco è approvato per questa indicazione solo nei pazienti con elevata espressione di PD-L1. Si allarga così la platea di quanti potranno beneficiare di questo immunoterapico. Rimborsabilità permettendo.
03 GIU - E’ una bella giornata per le 42 mila persone alle quali ogni anno viene diagnosticato in Italia un tumore del polmone, uno dei grandi
big killer e in assoluto quello che più contribuisce al fardello di mortalità per cancro in generale.
I risultati dello studio KEYNOTE-042, presentati in sessione plenaria al congresso
dell’American Society of Clinical Oncology, dimostrano infatti che il pembrolizumab, un immunoterapico, somministrato in monoterapia, in prima linea di trattamento, in una popolazione di pazienti con tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC), riduce del 20% la mortalità rispetto alla tradizionale chemioterapia. Al prezzo di effetti collaterali decisamente ridotti.
“E’ un doppio punto a favore dei pazienti quello segnato da questo studio – commenta
Gilberto Lopes, oncologo presso il Sylvester Comprehensive Cancer Center, University of Miami Health System, Florida e primo autore del KEYNOTE-042 - Questi risultati dimostrano infatti che i pazienti trattati con pembrolizumab hanno guadagnato in media (nel corso di un
follow up di 12,8 mesi) 4-8 mesi di vita rispetto a quelli trattati con chemioterapia e presentano meno effetti collaterali (18% dei pazienti contro il 41% di quelli trattati con chemio)”.
Che il pembrolizumab fosse efficace come trattamento di prima linea nei NSCLC si sapeva già, ma l’indicazione per ora, anche nel nostro Paese, riguardava solo i pazienti con un’elevata espressione tessutale del PD-L1 (≥ 50%). Il KEYNOTE-042 ha dimostrato invece che il pembrolizumab funziona anche nei pazienti con espressione del PD-L1 uguale o superiore all’1%, allargando così in maniera significativa la ‘platea’ di quanti possono trarre beneficio dal trattamento con questo immunoterapico (circa il 60% di tutti i pazienti con NSCLC in fase avanzata).
Lo studio KEYNOTE-042ha arruolato 1.274 persone con NSCLC localmente avanzato o metastatico, assegnandole in maniera randomizzata al trattamento con chemioterapia (paclitaxel + carboplatino o pemetrexed + carboplatino) o a quello con pembrolizumab; sono stati inclusi sia pazienti con istologia squamosa, che non squamosa. In tutti è stata determinata l’espressione del PD-L1 nel tessuto tumorale, e questo ha consentito una lettura dei risultati di
sopravvivenza globale mediana, stratificati per livello di espressione del PD-L1:
· PD-L1 ≥ 50%: 20 mesi con pembrolizumab vs. 12,2 mesi con la chemioterapia
· PD-L1 ≥ 20%: 17,7 mesi con pembrolizumab vs. 13 mesi con la chemioterapia
· PD-L1 ≥ 1%: 16,7 mesi con pembrolizumab vs. 12,1 mesi con la chemioterapia
E’ evidente che il farmaco funzioni meglio laddove vi sia un’elevata espressione di PD-L1, ma i risultati del KEYNOTE-042 dimostrano che il pembrolizumab, rappresenti comunque una valida opzione terapeutica, in questa categoria di pazienti, a prescindere dall’espressione di PD-L1. Una piccola rivoluzione questa, visto che al momento, per accedere al trattamento con questo farmaco in prima linea è necessario dimostrare un’espressione di PD-L1 ≥ 50% nel tessuto tumorale.
Un problema questo del test per l’espressione tessutale del PD-L1 non solo di protocollo, ma anche molto pratico. “Il pembrolizumab in prima linea nelle forme NSCLC in fase avanzata – ricorda il professor
Filippo De Marinis, direttore della Divisione di Oncologia Toracica presso l’Istituto Europeo dei Tumori (IEO) di Milano - è approvato in Italia dal marzo dello scorso anno, ma solo nei pazienti con elevata espressione di PD-L1. Questo studio dimostra invece che anche i pazienti con bassa espressione del PD-L1 possono avere un guadagno di sopravvivenza del 20% con il pembrolizumab, rispetto alla chemioterapia. Nel nostro Paese purtroppo il test si fa ancora molto poco e anche dove viene effettuato, spesso i risultati non sono del tutto confrontabili con quelli ottenuti presso altri laboratori. Una realtà che crea un
bias importante e che preclude questa terapia a tanti pazienti che potrebbero trarne beneficio.
Tanti sono i problemi che andrebbero affrontati – prosegue De Marinis - per ottimizzare il test e arrivare ad effettuarlo a tappeto. Innanzitutto è fondamentale che tutta la ‘filiera’ di chi è implicato nella diagnosi e nella terapia di questi pazienti comprenda appieno l’importanza di fare questo test.
Poi è urgente un adeguamento del DRG che al momento, a livello di rimborso, non fa distinzioni tra diagnosi istologica, molecolare e test per espressione del PD-L1. I nuovi test comportano un aggravio dei costi, che non viene coperto dall’attuale DRG.
Ci sono poi i problemi tecnici – prosegue De Marinis - Per la determinazione dell’espressione di PD-L1 è necessario disporre di una discreta quantità di tessuto tumorale; non sempre quello ottenuto con una biopsia è sufficiente per diagnosi istologica, molecolare e espressione di PD-L1. E ovviamente non è facile sottoporre il paziente ad una seconda indagine bioptica. Gli studi sulla cosiddetta biopsia liquida, che permetterà di fare questi diagnosi sul sangue, sono di certo molto promettenti. Ma è necessario restare con i piedi per terra. Per ora l’unica diagnosi possibile è quella sul pezzo operatorio o sulla biopsia tessutale”.
La chemioterapia andrà in soffitta?
È ancora presto per archiviare la chemioterapia. Su questo gli esperti sono tutti concordi, nonostante le straordinarie
performance dell’immunoterapia. E questo perché non è chiaro ad esempio se associare il pembrolizumab alla chemioterapia rappresenti un’opzione terapeutica migliore della sola immunoterapia, visto che finora non sono stati effettuati dei
trial testa-a-testa (pembro+chemioterapia o pembro da solo) per rispondere a questa domanda. “Comunque, stiamo vedendo da alcuni risultati preliminari con il pembrolizumab e altri immunoterapici– afferma il professor De Marinis – che c’è una quota di pazienti che va meglio con l’associazione chemioterapia - immunoterapia”.
Lo studio KEYNOTE-407. Sempre all’ASCO sono stati presentati i risultati dello studio KEYNOTE-407 su 559 pazienti; la ricerca ha dimostrato per la prima volta l’efficacia del pembrolizumab in associazione alla chemioterapia nei pazienti con NSCLC metastatico a istologia squamosa (è la forma più resistente alla terapia). Un’analisi ad interim dello studio dimostra che l’associazione pemrbolizumab-chemioterapia migliora in maniera significativa sopravvivenza globale (OS) e sopravvivenza libera da progressione (PFS). In particolare, l’associazione in questo studio ha ridotto il rischio di mortalità del 37%, rispetto alla sola chemioterapia.
Insomma, comunque la si guardi, l’aggiunta dell’immunoterapia a tutte le altre terapie tradizionali, aggiunge una marcia in più ai risultati. E alla vita dei pazienti.
Maria Rita Montebelli
03 giugno 2018
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