Una ricerca anche italiana ha identificato il virus dell’epatite B nella mummia di un bambino di 450 anni fa
Imbalsamato e conservato all'interno di una Basilica napoletana, la mummia di un bambino di due anni è stata creduta deceduta per vaiolo per circa cinque secoli. Oggi, un team internazionale di ricercatori, tra i quali Gino Fornaciari e Valentina Giuffra dell'Università di Pisa, scopre che il piccolo era affetto da epatite B, lo studio pubblicato su Plos Pathogens
11 GEN - Un bambino vissuto al termine del Rinascimento, al tempo della Controriforma, circa 500 anni fa, imbalsamato e conservato all'interno della Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, nelle arche sepolcrali. Per anni si è creduto che la causa della morte del piccolo fosse il vaiolo; ma adesso, un team internazionale di ricercatori della McMaster University di Hamilton in Canada, diretto da
Hendrik Poinar, e della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, costituito da
Gino Fornaciari e
Valentina Giuffra, ha appurato che il bambino era portatore del virus dell’epatite B, potendo così gettare nuova luce su un agente patogeno complesso e mortale, che uccide quasi un milione di persone ogni anno. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista online
Plos Pathogens.
Il ritrovamento
Nel corso delle missioni esplorative dell’Università di Pisa nella Basilica di San Domenico Maggiore a Napoli, dirette da Gino Fornaciari negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, fu ritrovata la mummia intatta di un bambino di due anni indossante ancora la veste monastica dell’Ordine Domenicano, grazie alla quale i ricercatori hanno adesso ottenuto il sequenziamento completo del genoma di un antico ceppo del virus dell'epatite B (Hbv).
“Mentre in genere i virus si evolvono molto rapidamente, è stato visto che questo antico ceppo di Hbv è mutato poco negli ultimi 450 anni – spiega Fornaciari – È stata infatti rilevata una stretta relazione tra i ceppi antichi e moderni di epatite B: entrambi mancano di quella che è nota come “struttura temporale”. In altre parole, non vi è alcun tasso misurabile di evoluzione per tutto il periodo di 450 anni, che separa il campione prelevato dalla piccola mummia da quelli moderni. La spiegazione potrebbe consistere nel fatto che essendo l’epatite B una malattia sessualmente trasmessa, e non tramite animali o insetti vettori, il virus non ha avuto la necessità di mutare almeno negli ultimi cinque secoli”.
L’eruzione vescicolo-pustolosa del bambino e le analisi immunologiche di trenta anni fa (va sottolineato come allora gli studi sul Dna antico non fossero ancora disponibili) avevano suggerito che il bambino fosse stato affetto da vaiolo. Utilizzando tecniche avanzate di mappatura genetica, i ricercatori hanno dimostrato chiaramente che il bambino era stato infettato dall'Hbv. È interessante notare che i bimbi con infezione da epatite B possono sviluppare un'eruzione facciale, nota come sindrome di “Gianotti-Crosti”, che potrebbe essere stata identificata come vaiolo. Non può essere però esclusa anche una co-infezione.
Secondo alcune stime, oltre 350 milioni di persone oggi hanno infezioni croniche da epatite B, mentre circa un terzo della popolazione mondiale risulta essere stata infettata a un certo punto della vita. Ecco perché, secondo i ricercatori, è importante studiare i virus antichi: “Più comprendiamo meglio - afferma
Hendrik Poinar, genetista evolutivo del McMaster Ancient Dna Center e investigatore principale all'Istituto Michael G. DeGroote per la ricerca sulle malattie infettive - il comportamento delle pandemie e delle epidemie passate, maggiore è la nostra comprensione di come i moderni agenti patogeni potrebbero diffondersi. E queste informazioni alla fine contribuiranno agli sforzi per controllare questi minuscoli killer”.
11 gennaio 2018
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