La rivoluzione dei farmaci biologici approda in cardiologia
di Maria Rita Montebelli
La nuova classe degli anticorpi monoclonali inibitori della PCSK9 dà risultati eccellenti in termini di riduzione del colesterolo LDL, sia come add-on a statine, sia come unica terapia. Lo dimostrano gli studio di fase 3, LAPLACE-2 e GAUSS-2, presentati al congresso dell’American College of Cardiology. Adesso l’attesa è per lo studio di outcome FOURIER che rivelerà se questi farmaci sono anche in grado di abbattere la mortalità cardiovascolare
31 MAR - La cardiologia è arrivata in ritardo a questo appuntamento, rispetto ad altre specialità quali l’oncologia o la reumatologia. Ma ormai sembra questione di poco. L’arrivo dei biologici in cardiologia comincerà dagli inibitori della PCSK9, farmaci scoperti studiando una malattia rara, l’ipercolesterolemia familiare, ma che presumibilmente troveranno applicazione anche nelle ipercolesterolemie ‘comuni’, soprattutto laddove sia necessario ridurre di molto l’LDL dai valori iniziali o nei soggetti assolutamente intolleranti alle statine. Le statine rimangono per ora il
golden standard del trattamento del colesterolo alto, come mezzo per abbattere la mortalità e la mortalità cardiovascolare, ma almeno il 15% della popolazione è intollerante a questi trattamenti.
Per questo la comunità scientifica internazionale e le aziende farmaceutiche sono alla ricerca di alternative, sicure ed efficaci. Diversi gli studi presentati all’
American College of Cardiology di Washington su questa nuova categoria di farmaci .
LAPLACE-2 (
LDL-C Assessment With PCSK9 Monoclonal Antibody Inhibition Combined With Statin Therapy –2) Questo studio ha valutato l’efficacia di 12 settimane di trattamento con l’anticorpo monoclonale a somministrazione sottocutanea evolocumab, confrontato con placebo e somministrato ogni due settimane o ogni mese in aggiunta ad una statina (atorvastatina, rosuvastatina o simvastatina) o a ezetimibe in pazienti con ipercolesterolema e dislipidemia mista. Gli endpoint erano la riduzione media di LDL a 10 e 12 settimane. L’anticorpo monoclonale ha prodotto un’importantissima riduzione del colesterolo LDL nella terapia di add-on alle statine, in tutti i gruppi di trattamento. “I pazienti ad alto rischio, come quelli con diabete o con malattie cardiovascolari ed elevati livelli di LDL – spiega Jennifer G. Robinson, direttore del Prevention
Intervention Center della University of Iowa College of Public Health e primo autore dello studio -dovrebbero essere trattati con statine in maniera aggressiva per ridurre anche del 50% il loro colesterolo, ma questo non è sempre possibile perché le statine ad elevati dosaggi sono scarsamente tollerate. Per questi pazienti l’evolocumab potrebbe essere di grande utilità”.
Dopo quattro settimane di trattamento in aggiunta alle statine/ezetimibe, l’aggiunta di evolocumab ha prodotto una riduzione dell’LDL del 66-75% (nello schema di somministrazione ogni due settimane) e del 63-75% (nello schema di somministrazione una volta al mese). L’86-94% dei pazienti trattati con evolocumab in aggiunta a statine a moderata intensità hanno raggiunto valori di LDL inferiori a 70 mg/dL; valori raggiunti dal 93-95% dei pazienti nei gruppi di trattamento con statine ad elevata intensità. A fronte di questa grande efficacia, l’anticorpo monoclonale è risultato molto ben tollerato. “Sono risultati importanti – sottolinea la Robinson - perché infarto ed ictus rimangono le principali cause di morte in molti Paesi del mondo; gli inibitori del PCSK9 ci permetteranno di verificare se questa importante riduzione dell’LDL si possa tradurre in ulteriori benefici in termini di riduzione di eventi cardiovascolari nei soggetti già in trattamento con le statine”. Domande queste alle quali risponderà lo studio di
outcome con evolocumab, il FOURIER, che valuterà se il farmaco, aggiunto alle statine, è in grado di ridurre ulteriormente gli eventi cardiovascolari.
GAUSS-2 (Goal Achievement after Utilizing an anti-PCSK9 antibody in Statin Intolerant Subjects) Questo studio di fase 3, condotto in 14 Paesi e durato 12 settimane, ha arruolato 307 soggetti classificati ad alto rischio secondo i criteri NCEP e intolleranti alle statine. Almeno il 15% della popolazione generale sarebbe intollerante alle statine, principalmente per la comparsa di effetti indesiderati a livello muscolare, è dunque importante avere a disposizione delle alternative terapeutiche innovative e con un buon profilo di
safety. I pazienti sono stati randomizzati in doppio cieco al trattamento con evolocumab s.c. (una volta ogni due settimane o una volta al mese) versus ezetimibe. Lo studio ha centrato l’
endpoint primario di riduzione dell’LDL dai valori basali: è stata registrata una riduzione del 53-56% a 12 settimane nei soggetti trattati con evolocumab, contro il 37-39% di quelli trattati con ezetimibe. Gli effetti indesiderati a livello muscolo-scheletrico sono stati registrati nel 12% dei soggetti in trattamento con l’anticorpo monoclonale, contro il 23% di quelli trattati con ezetimibe. “Sono sempre più numerosi i pazienti in trattamento con statine che presentano effetti indesiderati di intensità tale da voler sospendere la terapia – ricorda Erik Stroes, Dipartimento di Medicina Vascolare, Amsterdam’s
Medical Center e autore dello studio – per questo i risultati ottenuti con questo nuovo farmaco sono così interessanti. Certo il farmaco deve essere somministrato per via sottocutanea, perché è un anticorpo monoclonale, ma molti pazienti sono ormai abituati ad esempio alla somministrazione sottocutanea dell’eparina a basso peso molecolare e inoltre questo inibitore del PCSK9 si somministra solo una volta ogni due o 4 settimane, dunque non dovrebbe rappresentare un problema per i pazienti. Anzi, magari assicurerà una migliore
compliance al trattamento anti-colesterolo”.
Non solo successi. Alcuni trial segnano una battuta d’arresto per alcuni farmaci high-tech che avevano dati ottimi risultati negli studi di fase 2. E’ il caso del darapladib.
STABILITY(
STabilisation of Atherosclerotic plaque By Initiation of darapLadIb TherapY): questo trial ha utilizzato il Darapladib, un inibitore selettivo della Lp-PLA2 (
Lipoprotein-Associated Phospholipase A2), nel tentativo di ridurre gli eventi ischemici nei pazienti coronaropatici cronici. La Lp-PLA2 è un biomarcatore di infiammazione dei vasi; in circolo si trova in genere legata all’LDL colesterolo. Elevati valori di questo
biomarker sono considerati un fattore di rischio per malattia coronarica e negli studi animali sono correlati alla presenza di placche vulnerabili, quelle responsabili di ictus e infarti. L’ipotesi alla base di questo studio internazionale di fase 3, condotto su 15.828 pazienti, era che riducendo infiammazione con questo farmaco, si riuscisse a stabilizzare le placche aterosclerotiche e quindi a ridurre futuri eventi coronarici. I pazienti, di età media 65 anni, sono stati randomizzati al trattamento con darapladib (1 compressa da 160 mg al giorno) o placebo. I risultati sono stati deludenti, nell’
endpoint primario (tempo al primo infarto,
stroke e mortalità per cause cardiovascolari). In un
endpoint secondario pre-specificato di riduzione di eventi coronarici maggiori (infarto, mortalità, necessità di rivascolarizzazione urgente o di
bypass), il darapladib ha invece mostrato una riduzione del rischio relativo del 10%. Gli autori dello studio hanno commentato che parte di questo ‘insuccesso’ è sicuramente legato al fatto che i pazienti ad alto rischio arruolati nello STABILITY, assumevano in elevata percentuale le terapie raccomandate in prevenzione secondaria (il 93% era in terapia con aspirina, il 97% con statine, il 79 % con beta bloccanti e il 77% con ACE inibitori o sartani), cioè erano già ottimamente trattati. E’ possibile anche che gli effetti anti-infiammatori di questo farmaco emergano nel più lungo periodo (il
follow up medio di questo studio è stato di 3,7 anni). Ma intanto si attendono i risultati del SOLD-TIMI 52, uno studio di fase 3 sul darapladib nei pazienti con sindrome coronarica acuta recente.
Maria Rita Montebelli
31 marzo 2014
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