La Cochrane Collaboration italiana e il “metodo Vannoni”
di Luca De Fiore e Laura Amato
Scegliere per sé una terapia inappropriata o immaginaria rientra fra le scelte possibili di un individuo ma si resta davvero sconcertati di fronte alla possibilità di permettere di trattare pazienti affetti da gravi malattie del sistema nervoso con staminali al di fuori di ogni evidenza scientifica e di ogni regola
10 LUG - Leggendo in questi giorni alcuni sconfortanti articoli sulla necessità o meno di consentire l’implementazione del cosiddetto “metodo Vannoni” che utilizza cellule staminali per il trattamento di malattie neurodegenerative, non abbiamo potuto non ripensare a ciò che Alessandro Liberati scriveva in uno dei suoi ultimi articoli pubblicato nel 2011 su
Epidemiology and Psychiatric Sciences: ”Negli ultimi dieci anni, il messaggio chiave del movimento noto come EBM (Evidence-based Medicine) è stato quello di sottolineare la necessità di sviluppare metodi più efficaci e trasparenti per una ricerca scientifica capace di produrre risultati migliori e più rilevanti volti ad aiutare i pazienti, i consumatori, i politici, i ricercatori e, in ultima analisi, i cittadini tutti, a prendere delle decisioni informate relativamente alla loro salute”. Senza informazioni utili, accessibili e rigorosamente prodotte e quindi riproducibili, la ricerca fallisce nel suo compito di aiutare i pazienti ed i sanitari che di loro devono prendersi cura. I clinici e i decisori sanitari e politici dovrebbero avere disponibilità di prove sempre aggiornate e il più possibile oggettive sulla efficacia dei differenti interventi disponibili”.
Ma quando un intervento può definirsi “efficace”? Un intervento si definisce efficace se è in grado di ottenere il risultato per il quale è stato effettuato; nel contesto dei sistemi sanitari quindi l’efficacia di un intervento si valuta sulla base del beneficio/utilità che un individuo o una popolazione ottiene dall’offerta di un servizio, di un trattamento, di un programma di intervento.
Stabilire con metodi rigorosi e riproducibili l’efficacia di un intervento, pubblicare i propri risultati su riviste scientifiche internazionali, sottoporsi al giudizio di altri ricercatori, dichiarare in modo esplicito la presenza di eventuali conflitti di interesse, non solo rappresenta una garanzia rispetto alla validità dell’intervento in studio ma protegge coloro che a quell’intervento dovranno sottoporsi da false aspettative, evitando di alimentare speranze che, se disilluse, avranno effetti non sempre valutabili ma sicuramente negativi sul benessere psicofisico del paziente e di chi se ne prende, a vario titolo, cura.
Tornando alle cellule staminali, oggi vengono utilizzate per la ricostruzione del midollo osseo, soprattutto nei pazienti oncologici e sono in corso sperimentazioni sul loro utilizzo per la ricostruzione del muscolo cardiaco e per protocolli di terapia genica per trattare rare malattie genetiche. Non esiste invece alcuna prova che confermi la capacità delle cellule staminali di curare processi neurodegenerativi. Ciononostante, la discussione sui media e i social network ha continuato a svilupparsi ignorando del tutto il punto cruciale: ci sono prove sufficienti per sperimentare questo trattamento e poi eventualmente implementarlo nella pratica clinica? E se queste prove non sono ancora state portate all’attenzione della comunità scientifica, perché non vengono prodotte? E, infine, perché i decisori istituzionali, cedono alla pressione dei media non attenendosi ai protocolli definiti per la sperimentazione di nuovi trattamenti?
Scegliere per sé una terapia inappropriata o immaginaria rientra fra le scelte possibili di un individuo ma, come già detto da autorevoli clinici e ricercatori, si resta davvero sconcertati di fronte alla notizia che le autorità sanitarie considerino la possibilità di permettere di trattare pazienti affetti da gravi malattie del sistema nervoso con staminali al di fuori di ogni evidenza scientifica e di ogni regola.
Ancora una volta l’Italia rischia di essere lontana anni luce da altri Paesi quali, ad esempio, il Regno Unito dove il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) insieme con la Collaborazione Cochrane ha sviluppato un progetto, denominato "Disinvestment Initiative"con lo scopo di identificare interventi sanitari "inefficaci" o "dannosi". Questi interventi vengono segnalati dai ricercatori Cochrane in modo sistematico al NICE che, a sua volta, verifica la esistenza di "linee guida negative" già disponibili, o ne avvia l’implementazione, mettendo a disposizione del Sistema Sanitario Nazionale Inglese (NHS) strategie di disincentivazione di questi interventi. Sir Iain Chalmers, uno dei fondatori della Collaborazione Cochrane, in un articolo del 2009 su Lancet evidenziava quelli che lui chiama gli “sprechi evitabili nella produzione e nella comunicazione delle evidenze della ricerca”, e definiva quelli che dovrebbero essere i criteri minimi da seguire per evitare tali sprechi. La ricerca dovrebbe porsi domande rilevanti sia per i clinici sia per i pazienti, gli studi dovrebbero essere disegnati ed eseguiti con metodi rigorosi, i protocolli degli studi dovrebbero essere registrati e resi disponibili ed infine i risultati dovrebbero essere accessibili a tutti.
Come Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane, come medici, ricercatori, giornalisti scientifici e soprattutto come cittadini, ci sentiamo di condividere in pieno questi principi e invitiamo chi, a vario titolo, si occupa di sanità a riflettere con coscienza prima di alimentare discussioni e speranze poco fondate. Le parole, come diceva Carlo Levi, possono essere pietre.
Luca De Fiore e Laura Amato
Per la Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane [www.associali.it]
10 luglio 2013
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