Pasta italiana a rischio. I cambiamenti climatici spostano la produzione a nord
È l’alimento base della dieta mediterranea e in particolare del nostro paese, ma presto la pasta potrebbe diventare un po’ meno “italiana”: l’area del Mediterraneo è sempre più inospitale per il frumento duro che serve a produrla, tanto che presto il nostro Paese potrebbe diventare del tutto dipendente dall’estero per averlo.
01 GIU - “Il cambiamento climatico sta rendendo l’area del Mediterraneo, dove il frumento duro si è evoluto ed è stato coltivato per 10 mila anni, sempre più inospitale per la sua coltivazione. Il cereale, spinto sempre più a Nord, sperimenterà agenti patogeni e condizioni ambientali differenti”. Parole di
Domenico Pignone, dell’Istituto di genetica vegetale del Cnr di Bari, che nel corso del convegno su ‘Genetics and Breedings of Durum Wheat’ che si è svolto al Cnr a Roma ha lanciato l’allarme: presto il nostro Paese potrebbe diventare del tutto dipendente dall’estero per la produzione di un suo alimento base.
Il convegno è stato organizzato dall’Accademia nazionale delle scienze (detta dei XL) con il Dipartimento di scienze bio-agroalimentari (Disba) del Cnr, Enea, Cra e Cimmyt, Icarda, Fao.
Il frumento duro rappresenta una delle fonti primarie di calorie e proteine per gran parte dell’umanità ma i cambiamenti climatici nella regione mediterranea, area di elezione della specie, pongono problemi per la sua coltivazione, spingendola sempre più a Nord. La produzione della pasta, uno dei componenti fondamentali della dieta italiana, inserita dall’Unesco nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità, rischierebbe così di dipendere sempre più dalle importazioni, con gravi ricadute anche per la nostra economia.
“Nel contempo, la gamma di prodotti che si ricavano dal suo raccolto si amplia e il consumo si estende a nuove regioni”, ha aggiunto Pignone. Secondo Coldiretti, la produzione italiana di frumento duro è di 4,2 tonnellate e, nonostante un incremento del 12% del raccolto destinato alla pasta (2012), l’Italia resta dipendente dall’estero per circa il 40 per cento del proprio fabbisogno. “L’Italia, un po’ come è avvenuto con la seta, da paese produttore potrebbe diventare totalmente importatore, con pesanti ricadute economiche”, ha proseguito. “È necessario mettere a frutto strategie di miglioramento genetico tali da permettere lo sviluppo di un prodotto di qualità, in grado di dare produzioni sostenibili nell’ambito dei nuovi scenari: i prodotti a base di frumento che mangiamo oggi sono infatti frutto del miglioramento genetico cui il cereale è stato sottoposto, prima in maniera non scientifica dagli agricoltori, poi in modo più rigoroso. Ma ciò ha portato alla perdita di alcuni geni e delle associate caratteristiche che oggi la ricerca ritiene importante recuperare, grazie alle tecnologie avanzate della biologia e dell’informatica, per fronteggiare le sfide alimentari del futuro”.
“Il frumento duro, coltivato su più di 500 milioni di ettari in tutto il mondo, è la base della dieta e del reddito agricolo in Europa, America e Australia, ma le malattie e gli stress ambientali continuano a limitare e a degradare la qualità del raccolto”, ha spiegato
Emilia Chiancone, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze. “Questi ostacoli richiedono continua attenzione da parte della comunità scientifica”.
01 giugno 2013
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