Rene policistico. Ricerca italiana scova nella proteina PKD1 un buon bersaglio terapeutico
Evitare dialisi e trapianto di rene per i pazienti affetti da rene policistico, patologia cronica e progressiva, potrebbe diventare realtà: alcuni scienziati italiani del San Raffaele e dell’Istituto Telethon Dulbecco hanno infatti scovato una molecola alla base della malattia, che potrebbe funzionare da target.
26 MAR - L’ADPKD o rene policistico è una malattia genetica autosomica dominante, una delle patologie genetiche più comuni nell’uomo: si stima infatti che siano circa 12 milioni i pazienti affetti nel mondo, di cui 60.000 solo in Italia. La malattia, cronica e progressiva, si caratterizza per la formazione di cisti in entrambi i reni che si espandono per numero e dimensione durante tutta la vita dell’individuo. Uno studio italiano oggi apre prospettive interessanti in chiave terapeutica: la ricerca, pubblicata su Nature Medicine dai ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e dell’Istituto Telethon Dulbecco, rivelerebbe il meccanismo biologico fondamentale alla base della sindrome del rene policistico, e in particolare gli scienziati avrebbero dimostrato che il difetto genetico in uno dei due geni associati alla malattia, PKD1, si traduce in un’alterazione del metabolismo degli zuccheri e che questo meccanismo difettoso potrebbe rappresentare un interessante bersaglio terapeutico.
La scoperta potrebbe essere fondamentale per aiutare i pazienti, che vedono il tessuto normale del rene compresso e infine sostituito dalle cisti causate dalla malattia. La perdita di funzionalità dell’organo derivante da questo meccanismo ad oggi non può essere infatti corretta, e attualmente la dialisi e il trapianto d’organo rappresentano gli unici interventi terapeutici mirati a ritardare o fermare la malattia.
Da precedenti studi era già stato dimostrato che la sindrome del rene policistico era causata dalla perdita di funzione di uno dei due geni PKD1 o PKD2. Osservando il terreno di coltura su cui erano state poste le cellule murine private del gene PKD1 e utilizzando una tecnica innovativa detta metabolomica, in grado di determinare tutti i metaboliti presenti in un dato campione in modo quantitativo, il team di Alessandra Boletta ha scoperto che le cellule producevano un elevata quantità di lattato e utilizzavano una elevata quantità di glucosio. Inoltre, le cellule avevano un contenuto molto più elevato di ATP (adenosina trifosfato), suggerendo una maggiore produzione e utilizzo di energia a partire dal glucosio.
La chiave è stata quindi identificata su una via metabolica cellulare essenziale per la nutrizione, la glicolisi, un processo chimico in base al quale la cellula, per soddisfare il proprio bisogno energetico, utilizza il glucosio e ne ricava due molecole di acido piruvico. La glicolisi ha la particolarità di potere avvenire sia in presenza di ossigeno (glicolisi aerobica), ovvero le molecole di acido piruvico possono entrare nel ciclo di Krebs e subire una serie di reazioni che ne determinano la completa degradazione ad anidride carbonica e acqua; oppure in assenza di ossigeno (glicolisi anaerobica), in questo caso le molecole di acido piruvico vengono degradate in altri composti organici, come l'acido lattico o l'acido acetico, mediante il processo di fermentazione, con la liberazione di energia sottoforma di ATP.
Gli scienziati hanno quindi verificato che la glicolisi anaerobica (detta aerobica in questo caso perché avveniva anche in presenza di ossigeno) nelle cellule mutate era alterata e maggiormente attiva: le cellule nonostante crescessero in presenza di ossigeno, producevano lattato anziché generare energia a partire dal glucosio. Questo avveniva perché le cellule prive del gene PKD1 utilizzavano una grande quantità di glucosio ed erano dipendenti da questa sostanza, tanto che quando il glucosio veniva sottratto dal terreno di coltura, le cellule cessavano di proliferare e morivano, non attuando la normale strategia di sopravvivenza chiamata autofagia.
Tutti questi dati nel loro insieme hanno suggerito che il gene PKD1 regola la glicolisi anaerobica e che molecole in grado di bloccarne il funzionamento potrebbero essere utilizzate per bloccare la crescita o la sopravvivenza delle cellule che formano la cisti nel paziente con ADPKD.
Per testare la potenziale efficacia di molecole in grado di interferire con la glicolisi, il team ha somministrato in un modello murino un composto analogo al glucosio, Il 2-deossi-glucosio (2DG) che viene riconosciuto come glucosio dalle cellule, ma queste non sono in grado di metabolizzarlo e pertanto interferisce con la glicolisi, ingannando le cellule mutate. Si è evidenziato che questa sostanza non solo è in grado di diminuire in modo significativo il peso totale del rene, ma anche l’espansione delle cisti e la crescita delle singole cellule che fiancheggiano le cisti stesse. Inoltre è stato osservato che utilizzando questo composto si ha un aumento del parenchima renale che si mantiene normale e quindi funzionante. Questa scoperta suggerisce che il 2DG, già ben tollerato dall’uomo e in fase di test clinico per altre patologie, potrebbe essere utilizzato a scopo terapeutico.
Afferma
Alessandra Boletta, coordinatrice dello studio: “La scoperta ci ha permesso di identificare la glicolisi anaerobica nel gene mutato PKD1, quale possibile concausa della malattia dell’ADPKD. Potremmo aver intrapreso la strada giusta per trovare, in futuro, una terapia poco invasiva, con effetti collaterali ridotti per questa malattia debilitante, cronica, a progresso lento e che obbliga i pazienti a terapie molto lunghe con un impatto importante sulla qualità della vita”.
Questi risultati frutto della ricerca di
Isaline Rowe,
Marco Chiaravalli e
Alessandra Boletta sono stati anche brevettati da Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele, con l’obiettivo di attrarre partner industriali con cui sviluppare eventuali terapie a beneficio dei pazienti affetti da ADPKD.
26 marzo 2013
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