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Le violenze del partner danneggiano il cervello delle femmine. I risultati dello studio dell’Università di Padova sugli animali

di Endrius Salvalaggio 

Pubblicato su iSCIENCE, lo studio preclinico coordinato dall’ateneo di Padova ha analizzato l’impatto delle violenze di cavie animali maschili nei confronti di cavie animali femminili. Jacopo Agrimi: “Abbiamo dimostrato come la violenza reiterata provochi l’effettiva esistenza di un nesso causale tra la riduzione di uno dei sottotipi dei recettori e lo sviluppo di anomalie del comportamento”. LO STUDIO

18 OTT - Da uno studio preclinico coordinato dall’Ateneo di Padova, in collaborazione con la Johns Hopkins University di Baltimora ed altre istituzioni nazionali ed internazionali nell’ambito del progetto europeo PINK (Marie Skłodowska - Curie Actions), pubblicato sulla rivista iSCIENCE, ha evidenziato come in un contesto di un modello animale sperimentale, a seguito di violenze psicologiche e fisiche di un intimate partner violence (IPV), sottoforma di violenza fisica/sessuale, lo stalking o il danno psicologico perpetrato da un partner/coniuge attuale o precedente sul corpo femminile, provocano un’alterazione della funzionalità in alcune regioni del cervello.

In particolare, provocano un deterioramento dell’ippocampo, un’area coinvolta in modo cruciale nei processi cognitivi come la memoria, l’apprendimento di nuove informazioni e nei meccanismi della navigazione, oltre che nella regolazione dell’umore e delle emozioni.

Lo studio evidenzia come la violenza del partner intimo (IPV) sia un problema di salute pubblica le cui conseguenze neurologiche/comportamentali devono ancora essere spiegate in modo meccanicistico. Utilizzando un modello di topo che ricapitola uno scenario di IPV, è stato valutato come le alterazioni neuroendocrine del cervello femminile prodotte da reiterated male-to-female violent interaction (RMFVI).

I ricercatori di Padova evidenziano che soggetti sperimentali sottoposti a violenza psicologica e fisica sviluppano nel tempo comportamenti di tipo ansioso-depressivo, a cui è associata una drastica riduzione di uno dei sottotipi dei recettori degli estrogeni, ovvero i cosiddetti recettori beta.

“Attraverso studi preclinici, abbiamo dimostrato l’effettiva esistenza di un nesso causale tra la riduzione di questo tipo di recettori per gli estrogeni e lo sviluppo di anomalie del comportamento – spiega Jacopo Agrimi, del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova – ed esaminando lo stato di una proteina chiamata brain-derived neurotrophic factor (BDNF), fondamentale per la crescita, lo sviluppo e il mantenimento della struttura e funzionalità delle cellule nervose adulte nell’essere umano, i livelli normali di BDNF che sono essenziali per il controllo dell’umore, per mantenere le capacità cognitive, e per reagire a diverse forme di stress”.

“Abbiamo riscontrato che mimare la violenza - continua Agrimi - tra partners in modelli sperimentali animali porta ad una riduzione nell’ippocampo anche di questo fattore, il BDNF. Questa eventualità potrebbe spiegare ancor meglio perché donne vittime di violenza domestica possano sviluppare nel tempo gravi patologie psichiatriche e neurologiche”.

“Restano ancora da validare le evidenze ottenute nel modello sperimentale sull’essere umano e valutare le conseguenze “strutturali” a lungo termine della violenza domestica. Restano da spiegare da un punto di vista meccanistico come questa forma di violenza reiterata aumenti nelle donne, tra molte altre condizioni di malattia, il rischio di contrarre varie forme di tumore, malattie cardiovascolari e neurodegenerative”, concludono i prof. Marco Dal Maschio e Nazareno Paolocci, tra gli autori dello studio.

Endrius Salvalaggio

18 ottobre 2024
© Riproduzione riservata

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