Perché semplificare l’assunzione di una terapia? Quali sono gli outcome clinici che maggiormente possono beneficiare di una semplificazione dello schema terapeutico? E, ancora, in che modo tale strategia può influenzare positivamente la qualità di vita dei pazienti? A tutte queste domande hanno dato risposta alcuni degli esperti riunitisi a Firenze in occasione del 41° Congresso di Cardiologia Conoscere e Curare il Cuore 2024 .
Molteplici i vantaggi di questo approccio terapeutico e tanti i particolari emersi per una migliore gestione del paziente.
Quello della semplificazione è un argomento che riguarda molti aspetti della vita e ha risvolti in campo economico come nel sociale, ha ricordato Francesco Maria Bovenzi, direttore Cardiologia ed Emodinamica Ospedale San Luca di Lucca. Non può dunque sfuggire al medico il tema della semplificazione che, nell’ambito delle terapie, diventa irrinunciabile. La medicina evolve e con essa evolvono anche le possibilità di intervento con farmaci pensati proprio per agevolare la vita dei pazienti, oltre che, ovviamente, per migliorare gli outcome clinici. Quando parliamo di un paziente ad alto rischio cardiovascolare, gli obiettivi da raggiungere, in prevenzione primaria o secondaria, sono irrinunciabili e avere a disposizione le terapie a combinazione fissa è un enorme vantaggio.
Nell'ambito della patologia cardiovascolare tre sono i campi che riguardano principalmente il paziente: l'ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco e le dislipidemie, ha detto Ferdinando Varbella, direttore Cardiologia Ospedale di Rivoli, Direttore del Dipartimento medico ASL Torino 3. Questi tre temi richiedono molte terapie farmacologiche per cui è necessario semplificare.
La semplificazione riguarda sia la prevenzione primaria, quando ci si trova di fronte non ad un paziente quanto piuttosto ad un soggetto ad alto rischio di sviluppare eventi cardiovascolari e una eccessiva medicalizzazione potrebbe influire negativamente sull’approccio stesso alla terapia. Sia la prevenzione secondaria quando invece il paziente è già politrattato e comorbido, ha concluso Varbella.
Se guardiamo ai numeri la semplificazione acquista un valore aggiunto. Un paziente che ha una patologia cronica in Italia ne ha almeno altre tre certificate e altre cosiddette minori, ha spiegato Claudio Ferri, Professore Ordinario in Medicina Interna, Università degli Studi dell’Aquila. Assume quindi ogni giorno almeno 9 diverse compresse, nove diversi principi attivi. È evidente quindi che semplificare significa migliorare la possibilità che quel paziente segua correttamente la sua terapia nel caso specifico ad esempio per la dislipidemia, ma lo stesso vale per l’ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco, o di tutte le altre patologie, ha precisato ancora Ferri.
Semplificare significa migliorare non solo l'outcome clinico, ma anche la qualità di vita del paziente e dei suoi familiari. Il paziente ha certezza e contezza, cercando di snellire il più possibile la terapia, di essere da un lato ben seguito e dall'altro di fare correttamente il proprio lavoro di prevenzione. Senza contare il fatto che vede raggiunto più facilmente l'obiettivo e si sente quindi più tutelato dalla terapia che sta facendo, ha concluso Ferri.
La semplificazione terapeutica del paziente è dunque fondamentale proprio perché sono proprio le molteplici terapie a complicare la vita del paziente a rischio cardiovascolare che, per sua natura, necessita di un approccio che si basa sulla combinazione di farmaci, ha ricordato Giovanbattista Desideri, Professore Ordinario di Geriatria all’Università Sapienza di Roma. Grazie all'attuale disponibilità di associazioni precostituite di farmaci della stessa classe, o anche di farmaci di classe diversa, è possibile ridurre in maniera considerevole il numero di pillole per il paziente a tutto vantaggio evidentemente della qualità di vita e dell'aderenza, ha specificato.
E anche in questo caso ci vengono a supporto i dati. Nei pazienti a rischio cardiovascolare molto elevato o estremo dobbiamo cercare di ridurre al massimo il rischio residuo, ha ricordato Claudio Bilato, Direttore UOC Cardiologia, Ospedali dell’Ovest Vicentino. Per far questo dobbiamo utilizzare una strategia che ci garantisce un calo molto precoce e robusto dei livelli di colesterolo LDL di partenza. E per far questo ci possiamo affidare ai farmaci ipolipemizzanti in combinazione fissa che ci garantiscono cali fino al 65-70% dei livelli di colesterolo LDL di partenza, ha precisato Bilato.
Se entriamo più nel dettaglio, oggi sappiamo che l’ipercolesterolemia non è più considerabile come fattore di rischio, ma va trattata come una vera e propria malattia, ha specificato Marino Scherillo, Direttore UTIC Azienda Ospedaliera San Pio di Benevento. Abbiamo però dei farmaci in grado di contrastarla riducendo la costruzione endogena del colesterolo e il suo assorbimento. La cosiddetta fixed dose combination, la dose fissa combinata di due farmaci in una unica compressa, aiuta significativamente a mantenere alta l’aderenza con un conseguente riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori associati all’ipercolesterolemia appunto.
Quello della persistenza al trattamento è sicuramente uno degli aspetti che maggiormente va tenuto in considerazione quando siamo di fronte ad un paziente ad alto rischio cardiovascolare. Come ricordato da Fabrizio Oliva, Direttore Cardiologia 1 Ospedale Niguarda di Milano e Presidente ANMCO. A parlare sono proprio i dati di real life che certificano un abbandono dei trattamenti dopo dimissioni ospedaliere molto elevato, con un conseguente peggioramento di tutte le condizioni del paziente, ha proseguito Oliva. Come ricordato da Roberto Pescatori, Medico di medicina generale, specialista in Cardiochirurgia, ad esempio i dati ci dicono che dopo un infarto, a 40 giorni i pazienti sospendono la terapia per il colesterolo e questo per molteplici motivi, tra cui la grande quantità di farmaci da assumere. Ridurre quindi questo numero con una polipillola è sicuramente un vantaggio.
È dunque evidente che per questi pazienti la semplificazione dello schema terapeutico è una delle chiavi di successo per il trattamento e non solo, ha detto Andrea Di Lenarda, Direttore del Dipartimento Specialistico Territoriale, Trieste. Questo approccio terapeutico ha anche il vantaggio di favorire un percorso di cura personalizzato proprio perché consente di unire quanto più possibile farmaci diversi, ha proseguito l’esperto. Associare terapie ipolipemizzanti tra loro, terapie ipolipemizzanti con terapie antiaggreganti, o ancora terapie antipertensive può ridurre il numero delle pillole, migliorare l'aderenza e far arrivare più facilmente al target terapeutico, ha concluso Di Lenarda.
Le terapie a combinazione fissa, o single pill, hanno dimostrato non solo di migliorare la qualità di vita dei pazienti, gli outcome clinici e la persistenza terapeutica, ha aggiunto Leonardo De Luca, Direttore Cardiologia Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. Gli studi ci dicono che questo approccio terapeutico ha importanti ricadute anche in termini di costo-efficacia proprio grazie alla riduzione dei ricoveri improvvisi e degli eventi fatali.
Chiaramente l’impatto sulla qualità di vita del paziente non si riduce solamente all’atto pratico di assumere meno compresse, nonostante abbia la sua importanza. Ciò che appare evidente è il grande impatto psicologico delle associazioni precostituite. A ricordarlo è stato Francesco Prati, Presidente Centro per la Lotta contro l’Infarto, Fondazione Onlus. Assumere una compressa sola e non due fa sentire il paziente più libero e meno vincolato a molteplici trattamenti perché consapevole del fatto che può raggiungere i suoi obbiettivi con meno sforzo.
Serve però un rapporto consolidato e di fiducia con il proprio medico. Ne è fermamente convinto Roberto Pescatori. Medico di medicina generale e cardiologo devono spiegare al paziente l’importanza della persistenza terapeutica e devono responsabilizzarlo nelle scelte che fa, ha precisato. Il paziente deve comprendere quali sono i benefici del trattamento per la propria qualità di vita e per il miglioramento degli outcome clinici. In questo contesto la terapia a combinazione fissa può rappresentare quel tassello in più per dare valore sia all’attività del clinico sia al lavoro del paziente su sé stesso.