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Davide Petruzzelli (La Lampada di Aladino Onlus): “Innovazione terapeutica fondamentale ma non basta”


22 NOV - I dati dimostrano che l’introduzione di terapie innovative, brevi, come quella sottocute, possono migliorare la qualità di vita del paziente e l’outcome clinico. Spesso però a livello regionale si creano disparità di accesso alle innovazioni. In che modo si possono superare le inerzie del Sistema e far valere il principio di andare oltre la cura della malattia per approdare a quella della persona con i suoi bisogni, la sua vita e i suoi affetti?
Conosciamo bene lo slogan ripetuto a ogni congresso, “curare la persona e non solo la malattia”. Uno slogan, appunto, perché in realtà sappiamo bene quanto sia arduo metterlo in pratica, a volte non per buona o cattiva volontà, ma semplicemente perché ci sono logiche organizzative che ci condizionano tutti i giorni e anche se volessimo fare qualcosa di diverso non ci riusciremmo.

A monte di tutto vi è la questione del federalismo sanitario, che sta dimostrando da un lato i suoi punti di forza, ma sta anche evidenziando tutti i suoi limiti. Nel nostro Paese coesistono 21 Sistemi sanitari, ma nella realtà sono molti di più perché all’interno di una stessa Regione, e addirittura tra ospedali diversi, si creano dinamiche che generano ulteriori differenze e disparità, particolarmente per l’accesso alle terapie innovative e alle nuove tecnologie. Quindi, la questione chiave è riuscire ad avere una possibilità di cura, nel senso più ampio del concetto, che sia uguale per tutti e che non dipenda dall’area geografica in cui si risiede o dal Sistema sanitario di riferimento.

Affermare la centralità del paziente è necessario ma non ancora sufficiente se tutte le sue esigenze -familiari, lavorative e relazionali- non entrano organicamente nella gestione della malattia. A questo tema, oggetto anche di una interrogazione parlamentare, mirano anche i progetti di ottimizzazione dei percorsi organizzativi come il progetto “Going Lean”. In che modo si può accelerare questo percorso?
Ottimizzare i percorsi sulla carta sembra semplice ma quando si passa alla gestione quotidiana le cose cambiano. Riferendoci nello specifico a farmaci a formulazione sottocutanea rispetto alla somministrazione per endovena, appare evidente come non basta semplicemente introdurre un’innovazione ma è necessario un profilo organizzativo studiato ad hoc, per due motivi: il primo, perché ci si può imbattere in resistenze da parte di clinici abituati a metodi tradizionali; il secondo motivo è che si possono incontrare difficoltà nel mettere a regime nuove modalità organizzative che possano valorizzare al meglio i vantaggi della nuova modalità di somministrazione.

Se un paziente che deve ricevere un farmaco sottocute con un impegno di pochi minuti, resta in attesa per ore insieme agli altri pazienti, che invece devono ricevere farmaci per infusione, di fatto vengono inficiati gran parte dei vantaggi che derivano da una terapia sottocutanea. Questo significa che il cambiamento deve avvenire anche all’interno del sistema organizzativo della struttura, e a volte tale cambiamento non è disponibile o realizzabile per vari motivi. Purtroppo modificare un sistema assistenziale e di cura non è sempre facile. Dobbiamo impegnarci tutti per affinare i percorsi e ottenere dei risultati che in questo caso significano qualità di vita per i pazienti e non solo.

Le Associazioni dei pazienti, attraverso programmi di formazione multidimensionali, come l’approccio HTA, già radicato in sistemi universalistici come quello del Regno Unito, si candidano a diventare interlocutori competenti del Sistema sanitario, per essere parte della soluzione piuttosto che il problema. Come possono le Associazioni avere un ruolo sempre più significativo nelle decisioni ed essere coinvolte e ascoltate da parte del Ministero della Salute e dell’AIFA?
A volte le Associazioni dei pazienti sono ancora viste come quelle organizzazioni di volontari che portano il caffè o una rivista al letto del paziente o agevolano in altri modi la sua quotidianità. Naturalmente le Associazioni fanno anche questo, ma le cose negli ultimi 10-15 anni sono davvero cambiate molto. Vi è stato un incontestabile processo di crescita, grazie a percorsi formativi di alto profilo, che hanno portato gruppi di pazienti ed ex pazienti ad acquisire competenze importanti.

Non è stato facile, per chi non aveva una preparazione medico-scientifica, e spesso non più in giovanissima età, mettersi a studiare seriamente. Ma le nozioni apprese in questi anni hanno un valore aggiunto, quello di chi ha sperimentato la malattia sulla propria pelle e ne conosce a fondo tutti gli aspetti. Un valore aggiunto che non può essere studiato su alcun libro di testo, perché deriva dalla propria esperienza di malattia e di cura. Nonostante questo si fa ancora fatica a considerare le Associazioni dei pazienti come interlocutori competenti, in grado di sedersi attorno a un tavolo per discutere di HTA, di atti programmatori, di studi clinici, di delibere su farmaci, e di molto altro.

La parola chiave è coinvolgimento. Se le Istituzioni credono davvero che nelle organizzazioni di pazienti ci siano persone competenti e preparate, è necessario (e credo giusto) che le coinvolgano in tutti i vari passaggi decisionali. Ci si potrebbe accorgere che queste persone possono portare un punto di vista nuovo e diverso da quello degli altri attori finora coinvolti, incentrato su bisogni reali e vissuti in prima persona, il punto di vista di una nuova “scienza laica”, come mi piace definirla, che tanto di buono potrebbe offrirealla sostenibilità del Sistema, particolarmente in questo momento storico.

In che misura il vincolo di bilancio potrebbe diventare un primario criterio decisionale per l’accesso di nuove tecnologie innovative a discapito dell’attenzione al bisogno di salute dei pazienti? In che modo si possono coniugare sostenibilità e necessità di cura del paziente?
L’esperienza ormai ci insegna che tagliare “a prescindere“ e in modo trasversale un determinato farmaco o procedura serve a poco. Il vero risparmio può essere valutato tenendo conto non solo del contenimento dei costi diretti ma anche dell’impatto di quelli indiretti (sociali, produttività, caregiver, etc.), soprattutto se vogliamo davvero curare la persona e non solo la malattia.

Il nostro Servizio sanitario universalistico, che comunque ci cura tutti e spesso con buona qualità, ogni anno che passa ha crescenti problemi di sostenibilità. La vera innovazione potrebbe derivare da un nuovo approccio che non si limiti solo all’analisi e alla valutazione della parte medico-sanitaria nel senso stretto, ma che tenga anche in considerazione le altre importanti dimensioni della vita della persona.

22 novembre 2017
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