Quando il migrante malato smette di essere un’eccezione
di Gemma Brandi
31 GEN -
Gentile direttore,
il carcere concentra e distilla i problemi in divenire di una società, mostrandoli in anticipo, così fornendo le indicazioni chiave per i disegni preventivi da mettere in campo. A metà degli anni ’70 i reclusori italiani si trovarono ad ospitare le avanguardie dell’esercito di tossicodipendenti, che oggi impegna gli organi della sicurezza e della salute in una guerra nella quale non si registrano significative vittorie.
Dovette, il carcere, inventare strategie di approccio a un problema che non aveva ancora risposte sanitarie, né poteva contare su quelle fornite, in precedenza, ad altri problemi di abuso, quale era stato l’Ospedale Psichiatrico. Soprattutto le prigioni segnalarono alla zitta - con la timidezza che discende da una inconsapevolezza relativa - che la tossicodipendenza sarebbe stato a breve un problema per la società libera. Lo stesso fecero nel decennio successivo per le infezioni da HIV; quindi, negli anni ’90, per l’aumento di presenze straniere.
Avrebbero annunciato, di lì a poco, anche il diffondersi della anestesia sociale che ha contagiato le comunità western del Terzo Millennio. Oggi le prigioni parlano di un nuovo problema emergente, rappresentato dalla percentuale di migranti ospiti delle patrie galere - dalla media nazionale del 30% si passa a medie locali che raggiungono vette di poco meno del 70% nelle case circondariali di Padova e Firenze -, ma soprattutto della cospicua incidenza, tra costoro, di problemi di salute gravi e gravissimi, con la palma d’oro assegnata alle malattie mentali severe.
Queste non possono essere viste come conseguenza del pur doloroso trauma di viaggi atroci verso una “vita migliore” -che per taluni individui malati è coinciso con il passaggio a “miglior vita”, una volta baciato il suolo italiano -, ma hanno radici da collocare a monte della migrazione. Si tratta di una sofferenza destinata ad aumentare, non solo dietro le sbarre, bensì sulle strade del Belpaese.
E’ un problema che va affrontato lungo le tappe del percorso di fuga, nella consapevolezza che, sradicare il portatore di una sofferenza psichica maggiore dal contesto di provenienza, cui ha stentato ad adattarsi, non sortirà per magia l’effetto di guarirne la fragilità; lo esporrà piuttosto a una sfida titanica: integrarsi in un sistema guidato da una diversa mentalità, di cui ignora le coordinate. La sua ridotta competenza sociale non lo aiuterà a riempire l’obiettivo scarto culturologico che rappresenta un ostacolo spesso impervio anche per i soggetti in buon equilibrio, capaci di lanciare nel futuro un progetto esistenziale sostenibile.
Guardare realisticamente in faccia tale problema del domani, che è anche dell’oggi e ormai di ieri, contribuirà ad affrontarlo. L’idea che ha avuto il
Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Tutela Salute di Cagliari va in questa direzione: utilizzare un finanziamento FAMI per creare una unità mobile plurispecialistica - ginecologo, pediatra, psichiatra - che intervenga laddove i problemi di salute dei migranti si presentino sul territorio, prima che questi vadano incontro a epiloghi infelici o si trasformino in una questione di sicurezza. I soggetti portatori di turbe psichiche maggiori, in quanto non residenti, privi di rete sociale e ipercomplessi, non trovano spesso risposte che garantiscano una presa in carico preventiva, con il rischio che commettano reati e si ammassino poi nelle carceri, dove la psicopatologia ha assunto un profilo quantitativo e qualitativo tale da allarmare l’intera Europa, stando ai dati che riportano la stampa e le riviste scientifiche.
Servirà anche una azione internazionale che eviti di vedere ammassati nei barconi i soggetti che mostrano, a causa di turbe psichiche disabilitanti, una compliance sociale minima.
Un filo rosso occorre tenga insieme le azioni che a molteplici livelli e in maniera coordinata dovranno essere avviate a partire da una stima realistica, un pensiero dunque, con la immaginazione e la convinzione che sono indispensabili per affrontare ogni problema.
Suggerisco di prendere Cagliari ad esempio: una idea forte, gentile, luminosa e insieme concreta, come la Sardegna sa essere, almeno nella mia esperienza. Un primo passo coraggioso verso la fine di un abbandono e, magari, verso l’avvenire di una risoluzione.
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
31 gennaio 2018
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