Federalismo. Del Favero (Federsanità): " La chiave è il benchmarking tra Regioni"
Intervista aI presidente di Federsanità Anci, Lino Del Favero, alla vigilia dell'incontro tra Governo e Regioni sul federalismo fiscale e i costi standard sanitari. "Bisogna domandarsi: se certe cose son riusciti a farle gli altri, perché non riusciamo a farle anche noi?”. Ma per il manager, che è anche consulente del ministro Sacconi, per affrontare il welfare del futuro bisognerà sviluppare i fondi integrativi.
16 DIC - Dal luglio dello scorso anno Angelo Lino Del Favero è presidente di Federsanità Anci, l’associazione che riunisce 182 Aziende sanitarie italiane. Direttore Generale dell’Azienda Ulss 7 del Veneto, Del Favero è anche docente alla Luiss e consulente esperto del ministro Maurizio Sacconi. Conosce bene, dunque, il processo federalista che ha investito la sanità in questi anni e anche il decreto legislativo varato dal Governo su fiscalità regionale e costi standard in sanità, da settimane al centro del confronto tra Governo e Regioni.
Uno dei nodi centrali del dibattito in sanità è senza dubbio il federalismo, con una situazione di stallo in Conferenza Stato Regioni. A suo parere, dottor Del Favero, cosa ci si deve aspettare?
Credo che si sia imboccata una strada irreversibile. Il Governo ha approvato il decreto legislativo e da parte delle Regioni c’è la richiesta di alcuni “aggiustamenti”, che non toccano però i princìpi cardine.
E il tema dei costi standard, all’interno dell’impianto federalista, non è solo una questione economicista o ragionieristica, ma rappresenta un nuovo modello di governance, fondato sul benchmarking, ovvero sulla comparazione tra Regioni, tra Aziende, tra diverse realtà per imparare da chi sa fare meglio le cose e cioè dalle best practice.
Sono convinto che il benchmark sia uno strumento efficace, anche perché non ci sono solo i costi da comparare, ma una batteria di indicatori che disegnano il modello di riferimento.
Tuttavia ci sono state molte critiche sulla formulazione dei costi standard inserita nel decreto del Governo.
È naturale che sia così, perché è difficile trovare un equilibrio che riesca a soddisfare le diverse esigenze. Ma il decreto sui costi standard è, di fatto, la continuazione di un percorso già iniziato con i diversi Patti per la salute. Rovesciando i termini, i piani di rientro, che oggi sono in atto in diverse Regioni, sono l’anticipazione di quello che sarà un modello di federalismo sanitario basato sui costi standard.
La base di questo modello è che, da Bolzano fino a Palermo, dovranno essere garantiti i macrolivelli di assistenza: 5% per la prevenzione, 44% per l’assistenza ospedaliera e 51% per la distrettuale. Questo, per alcune Regioni, comporterà una rivoluzione copernicana, in quanto si dovrà disinvestire da ospedali, spesso piccoli inefficaci e scarsamente sicuri, investendo invece per servizi sul territorio e dunque rivolgendosi alla disabilità e alla cronicità, sviluppando la medicina di base e la medicina “attiva”, quella che va verso il paziente. Questo sarà il primo effetto.
Poi, attraverso le regioni che faranno da benchmark, da punto di riferimento, si innesteranno dei processi per capire come hanno fatto a raggiungere certi risultati, attraverso quali metodiche. Perché bisogna domandarsi: se certe cose son riusciti a farle gli altri, perché non riusciamo a farle anche noi? Detto questo, è chiaro che nel confronto si terrà conto anche di altri fattori a partire dalla composizione demografica delle varie Regioni e da alcuni indicatori ambientali, epidemiologici, di contesto economico e sociale.
Il timore è che i costi standard portino, di fatto, ad una riduzione del finanziamento in sanità.
Questo non è vero, perché non è la somma dei costi standard che determina il finanziamento. Il finanziamento nazionale dedicato alla sanità è determinato dallo Stato e quindi è lo Stato a decidere quanto assegnare alla sanità. I costi standard serviranno invece per definire come distribuire tra le Regioni questo finanziamento, in modo da evitare sprechi e far sì che le Regioni più arretrate dal punto di vista dei modelli possano adottare delle metodiche, dei modelli erogativi e assistenziali che gli consentano di coniugare efficienza ed efficacia.
Proprio pochi giorni fa Federsanità ha dedicato un incontro al tema della non autosufficienza. Qual è il vostro orientamento per affrontare questo problema?
Oggi la risposta è data prevalentemente dalle famiglie, anche attraverso le cosiddette badanti, ma in futuro aumenterà esponenzialmente il fabbisogno di assistenza per la non autosufficienza. Occorrerà quindi rivedere il sistema, che attualmente si fonda in gran parte su trasferimenti economici realizzati attraverso l’indennità di accompagnamento. C’è bisogno di affinare i modelli di concessione dell’indennità di accompagnamento, con una maggiore capacità selettiva dei soggetti che ne debbono beneficiare, e soprattutto di ridurre il ricorso ai trasferimenti economici per favorire invece un modello che risponda al bisogno attraverso l’erogazione di servizi.
Questo garantirà la sostenibilità del nostro sistema di welfare?
Da una parte sarà necessario rafforzare il primo pilastro che è quello pubblico, anche realizzando quello spostamento di spesa dall’ospedale al territorio di cui parlavamo all’inizio, ma dall’altra occorrerà potenziare i fondi integrativi, cioè il secondo pilastro, fino a renderli quasi obbligatori. Ogni persona deve essere fortemente stimolata e fortemente incentivata a investire fin da giovane per la propria vecchiaia.
Tra i nodi del federalismo, c’è la necessità di definire i Lep e rinnovare i Lea, per stabilire di conseguenza il necessario finanziamento. Pensa che si arriverà ad una conclusione positiva, in particolare per i Lep?
Definire i Lep in modo tecnicamente compiuto sarà un lavoro molto lungo e complesso. Si possono però predisporre una serie di primi standard rudimentali su cui lavorare, fissando alcuni punti fermi da cui partire.
L’iter parlamentare del ddl sul governo clinico sembra essersi arenato. Resta però la richiesta dei professionisti, a cominciare dai medici , perché sia riconosciuta loro una maggiore forza decisionale. Lei, che rappresenta i vertici aziendali, cosa pensa?
Da un lato è una richiesta giusta, perché la clinical governance porta ad una maggiore collaborazione tra la componente manageriale, la componente clinica e la componente amministrativa: in sanità si vince solo con un lavoro di squadra e pesando accuratamente l’apporto che può dare ogni componente professionale. E in prima fila ci sono certo i medici, quelli che, potremmo dire, “realizzano il prodotto”.
Eva Antoniotti
16 dicembre 2010
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