La mobilità sanitaria, la Puglia e i cortocircuiti gestionali
di Nicola Rosato
17 OTT -
Gentile Direttore,notizie di cronaca recenti tornano sul tema delle migrazioni sanitarie dalla Puglia in altre regioni. La Puglia spende per curare i suoi cittadini in altre regioni la bella cifra di 337 milioni di euro (mobilità passiva, dati 2023) e pensa di riequilibrare la spesa, sia frenando l’uscita per prestazioni di bassa complessità, sia con maggiori ricavi per curare cittadini provenienti dalle regioni limitrofe negli ospedali pugliesi, pubblici o privati (mobilità attiva). Di primo acchito viene da pensare ad un guizzo di imprenditorialità ma, riflettendoci, si resta perplessi.
Qualunque sia la complessità delle prestazioni e in presenza di liste d’attesa lunghissime è contro uno dei princìpi fondamentali del servizio sanitario nazionale limitare la libertà dell’utente di scegliere il luogo di cura. E comunque si dimentica che quando le liste d’attesa sono molto distanti dai tempi prescritti l’utente può eseguire le prestazioni pagandole e facendosi rimborsare dal servizio sanitario regionale. La decisione di limitare in certi casi la mobilità passiva espone, dunque, la regione ad un duplice rischio: violare il diritto di libera scelta del luogo di cura, fallire l’obiettivo del risparmio se il cittadino si limitasse a cambiare il fornitore con oneri che restano a carico della regione.
Quanto all’incremento della mobilità attiva, l’obiettivo è ambizioso; incrementare di 2,4 volte i ricavi attuali di circa 138 milioni di euro, non si fa dall’oggi al domani, richiede un efficace marketing reputazionale, l’offerta pronta di servizi calibrati sulla domanda degli utenti che si vogliono attrarre, costi che garantiscano la remuneratività di ciò che si vuole vendere. Viene da chiedersi se ciò sia possibile quando già l’offerta di prestazioni è insufficiente quantitativamente e qualitativamente per i residenti, perché questo significano le liste d’attesa anche di anni e l’emigrazione per le patologie di maggiore complessità.
L’obiettivo, quindi, è velleitario. La regione, dovrebbe prima di tutto colmare le carenze di offerta di prestazioni per le quali i suoi cittadini emigrano e poi, semmai, attrarre utenti delle regioni confinanti o vicine per servizi, da rendere prontamente, che queste ultime non possono produrre autonomamente, secondo gli standard vigenti, per la loro minore dimensione demografica.
Se la Puglia ha analizzato e conosce i suoi deficit di offerta, la visione strategica per la soluzione del problema indirizza verso interventi che correggano le cause dell’emigrazione sanitaria (incompletezza dell’offerta disciplinare, reputazione qualitativa e insufficienza quantitativa di ciò che già si fa), da cui derivano principalmente i deficit annuali che affliggono il finanziamento sanitario regionale e addossano alle famiglie pesanti oneri finanziari e disagi sociali per andare a curarsi altrove.
Dalla
Gazzetta del Mezzogiorno del 16 ottobre scorso (
“Paese più longevo, si ricorre alle protesi ogni 2,4 minuti”) apprendiamo anche cosa accade per le miopi e burocratiche politiche sanitarie pugliesi. Spiega una casa di cura accreditata col servizio sanitario regionale: “Ad evitare che le liste d’attesa si prolunghino, siamo costretti a far emigrare alcuni pazienti i quali non rientrerebbero nel previsto budget della nostra regione [la Puglia] e che invece [in casa di cura dello stesso gruppo imprenditoriale in altra regione, n.d.r.], trovandovi uguali garanzie assistenziali-qualitative, potranno essere operati con la copertura finanziaria ed assistenziale del Servizio sanitario nazionale”.
Un vero e proprio cortocircuito gestionale: la regione limita il budget della casa di cura privata con sede in Puglia, costringe i pazienti ad andare altrove per curarsi e paga un’altra casa di cura dello stesso gruppo imprenditoriale con sede in altra regione a causa di fasulle politiche di risparmio verso il privato accreditato che è, invece, una risorsa preziosa.
E, per favore, non si dica che questo dipende dalla legislazione nazionale che ha imposto limitazioni al valore dei contratti con i fornitori privati accreditati. Prima di tutto perché in materia sanitaria le norme sono emanate di concerto tra Stato e Regioni e, quindi, le regioni sono quantomeno corresponsabili delle norme sbagliate. Poi perché la norma, del 2012, legava una riduzione piccola degli acquisti da privati accreditati all’eliminazione di prestazioni inappropriate, quindi non necessarie o erogabili con procedure assistenziali più economiche, e consentiva di non applicare le riduzioni degli importi contrattuali facendo ricorso a misure alternative in altre aree della spesa sanitaria.
Solo ora si vuole astrusamente correre ai ripari. Ma forse è tempo di cambiare registro e persone per governare un sistema complesso come la sanità.
Nicola RosatoAnalista economico della pubblica amministrazione
17 ottobre 2024
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