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QS Edizioni - venerdì 22 novembre 2024

Studi e Analisi

Pnrr sanità: “Ecco come andrebbero gestite le risorse”. Le 10 proposte di sei Università italiane

immagine 28 maggio - Obiettivo dichiarato: “Mettere in pratica con successo la Missione Salute del PNRR e sostenere il SSN, duramente colpito dalla pandemia che ne ha messo in evidenza criticità e spazi di miglioramento”. Per farlo 16 ricercatori e docenti di sei atenei italiani hanno elaborato un documento congiunto messo a disposizione del Governo che individua tre fattori abilitanti al successo del piano europeo e dieci proposte operative per portarlo a compimento. IL DOCUMENTO.
Dieci proposte operative e tre fattori abilitanti per mettere in pratica con successo la Missione Salute del PNRR e sostenere il SSN, duramente colpito dalla pandemia che ne ha messo in evidenza criticità e spazi di miglioramento.
 
Questo, in sintesi, il lavoro di un gruppo di 16 studiosi di economia, management e politiche sanitarie, appartenenti a sei università: Università Bocconi, Politecnico di Milano, Università Cattolica, Università di Torino, Università di Roma ‘’Tor Vergata’’ e Scuola Superiore Sant’Anna.
 
“Il PNRR è un documento di alta visione e di allocazione di importanti risorse di investimento per il SSN che devono garantire valore entro cinque anni. La partita attuativa”, sottolinea Francesco Longo dell’Università Bocconi, “è, quindi, appena iniziata e durerà cinque anni: un tempo breve in cui occorre definire la progettazione esecutiva per ogni misura, costruire pianificazioni regionali e attuare le politiche nelle singole aziende sanitarie locali”.
 
“Gli interventi sul SSN oltre a migliorarne l’efficacia e l’efficienza avranno un ruolo determinante nel diminuire le disuguaglianze di accesso al sistema salute”, spiega Giuseppe Costa, Università di Torino. “Il successo del PNRR si misurerà anche sul suo impatto sociale e non solo economico”
 
“Abbiamo elaborato delle proposte attuative sulla governance e sul riparto dei fondi del PNRR”, spiega Federico Spandonaro dell’Università di Roma ‘’Tor Vergata’’, “sull'autonomia e i vincoli per le regioni e le loro aziende, sullo sviluppo dei fattori abilitanti e sulla progettazione organizzativa ed operativa delle diverse linee di intervento del PNRR”.
 
“Attraverso una programmazione mirata e un monitoraggio continuo e puntuale degli outcome”, dice Americo Cicchetti, Università Cattolica, “dobbiamo essere in grado di realizzare l’indispensabile riforma sanitaria delineata dal PNRR”.
 
Questo il gruppo di lavoro che ha redatto il documento: Eugenio Anessi Pessina e Americo Cicchetti (Università Cattolica); Federico Spandonaro, Barbara Polistena e Daniela D’Angela (Università di Tor Vergata); Cristina Masella (Politecnico di Milano); Giuseppe Costa (Università di Torino); Sabina Nuti, Federico Vola e Milena Vainieri (Scuola Superiore Sant’Anna); Amelia Compagni, Giovanni Fattore, Francesco Longo, Michela Bobini, Francesca Meda, Claudio Buongiorno Sottoriva (Università Bocconi).
 
I tre Fattori abilitanti
A. Ricerca e Innovazione per un SSN fonte di sviluppo sociale ed economico
 
La ricerca sanitaria e l’innovazione in ambito medico, sanitario e del comparto life sciences rappresentano un fattore abilitante per l’attuazione degli obiettivi ambiziosi del PNRR. Entrambi sono elementi necessari per garantire un SSN d’avanguardia, responsivo ai bisogni dei pazienti e reattivo rispetto ai cambiamenti tecnologici, scientifici, sociali ed economici in atto. In particolare, ogni ridisegno di servizi sanitari, di soluzioni tecnologiche e terapeutiche al servizio della salute richiede sia un presupposto che una validazione scientifica e, come tale, un programma di ricerca adeguato.
 
La proposta
Ricerca e innovazione, come anche la pandemia ci ha mostrato, non possono essere svolti adeguatamente da singoli enti di ricerca ma devono attuarsi attraverso gruppi di centri di ricerca di eccellenza in rete in grado di sviluppare sinergie e generare un effetto leva. Come tale, la proposta si focalizza su una serie di aree di azione atte a promuovere l’emergere di queste reti, soprattutto tra il mondo pubblico e privato (for profit e non) e il consolidamento di reti di ricerca già preesistenti.
 
Una prima azione si concentra sulla necessità di identificare le aree di ricerca e le tipologie di ricerca (di base, clinica, traslazionale, trasferimento tecnologico) in cui il Paese può e vuole eccellere e che sono potenzialmente foriere di innovazione e di crescita sia sociale che economica. Un esercizio di pianificazione strategica, svolto in modo partecipato dal mondo sanitario pubblico, il mondo delle imprese, e dalla società civile in questo ambito sarebbe un primo passo in questo senso. Questo potrebbe essere svolto grazie a tavoli di confronto permanente fra il settore pubblico e quello privato (for-profit e non-profit) capaci di generare priorità di finanziamento della ricerca, proporre regole per lo sfruttamento economico dei risultati e la suddivisione degli eventuali utili, definire i sistemi di procurement dell’innovazione e le metodologie di valutazione della ricerca stessa.
 
Da questa collaborazione strategica dovrebbero poi discendere anche soluzioni di finanziamento innovative, basate sull’integrazione di fondi pubblici e privati per la ricerca, in particolare per promuovere la ricerca clinica e traslazionale svolte nell’SSN e il trasferimento tecnologico. La collaborazione tra i principali finanziatori della ricerca ed innovazione garantirebbe inoltre di razionalizzare gli investimenti evitando duplicazioni ed eccessive frammentazioni.
 
La seconda azione invece si concentra sull’ottimizzazione e il rafforzamento del sistema di ricerca ed innovazione già esistente. In primis, le reti tra centri di ricerca di eccellenza vanno incentivate anche facilitando il reclutamento congiunto di ricercatori, la promozione del knowledge sharing e lo sviluppo di competenze di gestione e valorizzazione dei risultati della ricerca. Questo comporta alleggerire le rigidità tipiche del settore pubblico, ad esempio nel reclutamento e nella mobilità tra mondo pubblico e privato dei ricercatori, e creare enti che possano muoversi con logiche di ingaggio snelle (ad es. fondazioni miste). Inoltre, è necessario promuovere finanziamenti dimensionalmente adeguati e pluriennali di queste reti, assicurandosi che gli investimenti di ricerca premino logiche di co-finanziamento pubblico e privato e collegandoli a metriche esplicite di valutazione che tengano conto degli impatti della ricerca in termini di salute, di innovazione ma anche di crescita sociale ed economica per il Paese.
 
Le ragioni della proposta
In Italia il settore pubblico investe in ricerca lo 0,5% del suo PIL, a fronte di una media EU dell’1%. Questo a fronte di un mondo della ricerca medica estremamente produttivo in termini di pubblicazione scientifiche e una intensità di ricerca clinica in termini di studi clinici comparabile ad altri paesi europei. Inoltre siamo il terzo produttore farmaceutico in Europa e il quarto di dispositivi medici, con un settore farmaceutico al primo posto, tra i manifatturieri, in termini di crescita di investimenti ed export (+ 17% in tre anni). 
 
Nonostante evidenti sforzi da parte del Ministero della Salute nel rafforzare il sistema della ricerca sanitaria, alcuni aspetti rimangono ancora deboli. In primis emerge la mancanza di una strategia nazionale sulle aree di ricerca e innovazione, che scontano spesso la frammentazione degli investimenti in progetti a volte poco competitivi, l’assenza di esperienze di integrazione di fondi pubblici e privati e reti per la ricerca clinica ancora poco consolidate e strutturate.
 
Secondariamente, appare evidente l’assenza di un raccordo istituzionale fra politiche assistenziali e industriali: nelle politiche del SSN non ci sono metriche efficaci legate agli impatti economici della ricerca ed innovazione in ambito biomedico, i fondi di ricerca disponibili sono legati alle priorità del SSN senza un riferimento esplicito alle potenzialità di generare un indotto economico e sviluppo locale.
 
Infine il sistema attuale di ricerca sanitaria premia principalmente gli IRCCS e tende ad escludere dal finanziamento organizzazioni sanitarie che pur non essendo IRCCS hanno un potenziale rilevante di innovazione. Gli IRCCS, inoltre, conducono ricerca con un riscontro ancora limitato in termini di brevetti, trasferimento tecnologico e creazione di spin-offs e le metriche di assegnazione dei fondi non premiano logiche di co-finanziamento o partnership con il privato (profit e non).
 
B. Trasformazione digitale e utilizzo dei big data
L’esperienza pandemica ha reso evidente che un sistema sanitario sostenibile, resiliente ed equo, non possa prescindere dalla necessità di ripensare il sistema di cure facendo leva sul digitale.  Lo sforzo di digitalizzazione e innovazione, missione 1 del PNRR, assume una valenza particolare in sanità e può essere considerato uno dei tre fattori abilitanti che sottendono alle dieci aree di intervento presentate in questa proposta.
 
La proposta
Trasformazione digitalee valorizzazione dei Big Data devono essere due obiettivi irrinunciabili del PNRR e devono trovare adeguata implementazione in fase attuativa: servono investimenti in competenze, tecnologie e strumenti di change management.
 
È necessario, infatti, che trasformazione digitale non sia una “semplice” informatizzazione dei processi, ma un reale ripensamento di come i servizi sanitari vengono fruiti da cittadini e pazienti ed erogati dai professionisti sanitari. Si tratta quindi di partire dai bisogni degli utenti, investire tempo e competenze nella riprogettazione dei modelli erogativi e soprattutto promuovere una maggior diffusione delle competenze digitali tra gli operatori del SSN.  Una maggior diffusione di strumenti digitali potrebbe, ad esempio, consentire l’attuazione di un modello di presa in carico dei pazienti cronici in cui la sottoscrizione di un PAI annuale diventa il vettore autorizzativo automatico per l’accesso alle prestazioni prescritte, l’uso di procedure digitali di case management consentono di attivare la home delivery del farmaco ordinato digitalmente, l’erogazione di visite specialistiche di controllo avviene in telemedicina e l’utilizzo di piattaforme di collaborazione multimediali favorisce il lavoro dei team multidisciplinari.
 
La diffusione delle soluzioni digitali consentirà sempre più di generare una grande quantità di dati. La loro valorizzazione rappresenta la sfida principale del nostro sistema sanitario per i prossimi anni e deve essere giocata sia a livello di programmazione del SSN che a livello di singola azienda per migliorare la cura al paziente e renderla il più possibile personalizzata. Per farlo devono essere affrontati e risolti alcuni aspetti  – sul tavolo ormai da tempo – che non garantiscono l’interoperabilità dei sistemi e rendono difficile l’integrazione dei dati e loro valorizzazione: serve definire standard di interoperabilità per integrare dati provenienti da fonti diversificate; è necessario riuscire ad adottare anagrafiche e codifiche comuni in tutto il Paese; devono essere diffusi protocolli che garantiscano la qualità del dato per intercettare alla fonte eventuali errori ed è fondamentale ridurre il tempo che intercorre tra la generazione del dato e la sua trasmissione. 
 
Anche a livello di singola azienda sanitaria questo è un ambito ancora tutto da sviluppare: i dati amministrativi, clinici e gestionali raccolti sono spesso gestiti in logica di silos, poche sono le applicazioni di Avanced Analytics su Data Warehouse aziendali e raramente questi dati vengono resi fruibili alla filiera professionale per l’attività clinica quotidiana o al middle management per la sua azione gestionale.
 
Le ragioni della proposta
La necessità di avviare ora una vera trasformazione digitale trova origine nel particolare periodo storico: nell’ultimo anno l’emergenza sanitaria ha avvicinato molti cittadini all’uso di servizi digitali (ritiro referti on line, prenotazioni in modalità multicanale) creando una aspettativa per il futuro che sarebbe un peccato disattendere.
 
Effetto della pandemia anche l’aver portato la Telemedicina nella agenda del decisore politico e accelerato la sua diffusione nella pratica clinica indebolendo molto le resistenze che da sempre ne limitavano la diffusione. Se prima dell’emergenza il livello di utilizzo da parte dei medici si attestava a poco più del 10%, durante l’emergenza ha spesso superato il 30%.
 
Il 73% dei medici specialisti intervistati ha affermato che le soluzioni di Telemedicina sono utili per lo svolgimento della professione (73%). Ma più interessante ancora la quota di clinici che si dichiara contraria all’uso delle Telemedicina: scesa dal 30% dello scorso anno all’8% nel 2021 (Fonte Osservatorio Innovazione Digitale in sanità 2021).
 
Unica nota dolente che richiede grande attenzione è il livello di presidio delle competenze digitali. I dati dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità ci dicono che circa il 60% dei medici possiede un livello competenze sufficiente nell’utilizzo di strumenti digitali di base, ma ancora molti medici non utilizzano strumenti digitali “tradizionali” quali ad esempio la cartella clinica elettronica e pochi (4%) hanno un presidio a 360° delle competenze legate all’eHealth. Perché gli interventi di trasformazione digitale possano avere successo serve investire su questo fronte senza esitazioni.
 
C. Ridefinire i percorsi di formazione e istituire un processo di valutazione delle competenze
Il processo di sviluppo del SSN programmato e finanziato dal PNRR richiedenumerose nuove competenze professionali e gestionali. Si attivano nuovi setting assistenziali (Case della Comunità, Ospedali di Comunità, ecc.), nuovi processi erogativi (medicina di iniziativa, centrali di transitional care, case management), un sistematico processo di digitalizzazione dei servizi e quindi di trasformazione delle loro caratteristiche a cui si aggiunge un uso sistematico dei big data per scopi clinici, gestionali e di programmazione.
 
La proposta
Il SSN deve istituire un processo sistematico e permanente di definizione delle competenze professionali necessarie per realizzare i propri progetti, alla luce del quale condurre periodicamente un assessment dei gap di professionalità presenti, che rappresenta quindi l’orizzonte di reclutamento e programmazione della formazione. Questo processo di analisi e progettazione deve avere come unità di analisi le aziende del SSN, essere aggregato a livello regionale e gestito con indirizzi nazionali.
 
La formazione deve essere mirata a sviluppare conoscenze solide in campi oggi non presidiati, in modo che diventino patrimonio comune per i professionisti e il management. Le aree oggi da sviluppare sono: gestione del personale, change management, operation management, service design, data analysis, competenze digitali & AI, HTA, people engagement & stakeholder management (per un migliore e più efficace coinvolgimento del paziente/cittadino) e logiche di co-production.
 
Inoltre, riteniamo che i percorsi di formazione vadano differenziati per ruolo e stadio della carriera. Il top management necessita di forme di tutorship e coaching personale, il middle management forme di benchmarking e sperimentazioni in rete, ai primari servono contenuti di micro management e soft skills. Ma soprattutto occorre lanciare programmi sistematici di reclutamento e formazione con master specifici per le leve future del SSN.
 
Il combinato disposto di queste scelte genererebbe un meccanismo sistematico di programmazione e formazione delle competenze necessarie per il SSN.
 
Le ragioni della proposta
Il top management (DG, DA, DS), così come il middle management (direttori di dipartimento ospedaliero o di distretto) ha una età media molto elevata (60 e più anni) e scarsa mobilità inter-regionale, denotando ancora un insufficiente processo di creazione di una classe dirigente gestionale nazionale per il SSN. Le 191 aziende del SSN sono molto grandi (in media 500.000 abitanti, 3500 dipendenti e budget di 600 mil annui) e richiedono un middle management dedicato con preparazione specifica. Fino oggi, quello ospedaliero, è stato prevalentemente selezionato in base a criteri clinici, considerandolo soprattutto un premio alla carriera professionale. Questo ha permesso di selezionare donne e uomini molto qualificate e autorevoli ma prevalentemente orientate alla clinica e non alla gestione.
 
Il modello di aggiornamento formativo obbligatorio per tutti i dirigenti del SSN è basato su un format standard, a prescindere del ruolo esercitato e dello stadio anagrafico del percorso di carriera. Primari, direttori di dipartimento, direttori generali sono esposti a corsi di formazione frontali, di tipo tradizionale, sostanzialmente identici. Non esiste un programma per reclutare e formare giovani ad alto potenziale (la “cantera”).
 
Le dieci aree di intervento
1. Prevenire i rischi e promuovere comportamenti salubri, per tutti
La prevenzione insieme alle nuove tecnologie di diagnosi e cura è la protagonista dei principali miglioramenti della speranza di vita e dei funzionamenti delle persone degli ultimi decenni.
 
La responsabilità della prevenzione primaria sugli ambienti di vita e di lavoro e sugli alimenti è passata direttamente in carico alle imprese e alle loro capacità di innovazione delle tecniche e degli ambienti, promossa anche dalla ricerca e stimolata dalla vigilanza e dalla ricerca dei rischi da parte del servizio pubblico. Alle stesse imprese oltre che a tutti i settori non sanitari che organizzano la vita quotidiana e i suoi luoghi è passata anche la responsabilità di rendere facile l’adozione di comportamenti che promuovono salute umana e dell’ambiente: urbanistica, trasporti, sicurezza, commercio, vie di comunicazione. La strategia dell’OMS “Salute in tutte le politiche” racconta in modo conciso questa transizione e l’espressione “One health” ci ricorda che la salute non è solo quella umana ma di tutto l’ecosistema in cui siamo immersi. Sfortunatamente il sistema di prevenzione si attarda ancora in schemi organizzativi monopolizzati da logiche corporative separate per discipline, condizionate dal ruolo di vigilanza sull’aderenza a normative attente alle procedure invece che ai risultati e impoverite della capacità di consulenza, ricerca e investigazione che invece servirebbe per rispondere alle sfide tecniche che l’innovazione nelle imprese e nella società propone continuamente.
 
Il PNRR e i suoi correlati di riforma della giustizia e della pubblica amministrazione dovrebbero permettere alla prevenzione primaria di tornare ad investire su competenze e laboratori capaci di investigare, ricercare e valutare rischi e efficacia delle soluzioni, alla pari con le imprese, in una governance della prevenzione primaria e con metriche di valutazione che permettano alle imprese, ai soggetti sociali e alle istituzioni di trovare il miglior bilanciamento tra rischi, benefici e co-benefici che serve alla nostra società.
 
Alla prevenzione primaria concorrono anche i comportamenti delle persone, alimentazione sana, esercizio fisico, controllo del peso, libertà da dipendenze da sostanze, fumo, alcool, gioco d’azzardo, esercizio protetto del sesso, controllo preventivo e adeguato di fattori di rischio biologici come ipertensione, iperglicemia e iperlipidemia.
 
Da questi fattori di rischio dipende la quota maggiore dell’attuale carico di malattia degli adulti, eppure solo recentemente la regolamentazione dei LEA ha reso la promozione di stili di vita salubri un livello di assistenza esigibile, senza che però a questo corrisponda la creazione di una struttura di scopo con competenze e risorse adeguate per rendere esigibile questo nuovo LEA, quello da cui potrebbe dipendere il maggior guadagno di salute e di riduzione della morbosità cronica e dei suoi costi sanitari nel futuro.
 
Il nuovo Piano Nazionale di Prevenzione ha indicato chiaramente traguardi, metodi e programmi per raggiungere questo scopo, ma l’impresa rimane senza risorse idonee e i Dipartimenti di Prevenzione non sembrano all’altezza, impoveriti come sono di energie competenze e prestigio, e condizionati da sempre dai compiti di vigilanza che non possono esercitare in modo proporzionale ai rischi ma sempre condizionati dalle priorità dell’attività giudiziaria. Il PNRR con la sua attenzione alle innovazioni dell’assistenza territoriale per la presa in carico della morbosità cronica e la prossimità alle fragilità, dovrebbe includere anche un investimento rifondativo della promozione della salute per la prevenzione delle malattie croniche.
 
Infine la prevenzione sanitaria individuale è quella che ha meno bisogno di manutenzione, dato che esce da due decenni di investimenti importanti che hanno fatto dell’Italia uno dei paesi più attrezzati nel campo dei piani vaccinali e dei piani di screening, con modelli organizzativi che, anche alla luce delle lezioni tratte dalla lotta alla pandemia da Covid-19, possono ancora integrarsi e migliorare per diventare una vera piattaforma sanitaria di medicina di iniziativa per affrontare tutti i problemi di salute prevenibili, anche quelli del Piano Nazionale Cronicità. In questo caso abbiamo risorse, competenze, modelli consolidati, ma manca ancora una adeguata copertura territoriale, con un divario Nord-Sud che si sta colmando ma che ha ancora bisogno di rinnovato impegno.
 
Il PNRR con la priorità alle innovazioni di una assistenza territoriale capace di prendere in carico proattivamente i problemi di salute, in particolare tra i gruppi più vulnerabili, potrebbe solo imparare dal patrimonio della prevenzione sanitaria valorizzandone le soluzioni e l’esperienza e al tempo stesso essere l’occasione per raggiungere traguardi di copertura nazionale che sono ancora lontani.
 
2&3. La rete ospedaliera: promuovere la competenza clinica nei piccoli ospedali e rinnovare le infrastrutture nei grandi ospedali
L’ospedale rappresenta tradizionalmente il baricentro del Servizio sanitario nazionale, per lo meno in termini di assorbimento di risorse economiche e di concentrazione tecnologica. La rete ospedaliera nazionale si caratterizza per un numero ancora troppo elevato di piccoli ospedali a vocazione “generalista” che, in un caso su tre, non garantiscono volumi ed esiti in linea con gli standard previsti nel DM 70/2015. La rete italiana dei “piccoli ospedali” (i c.d. ospedali di base) – quelli al di sotto della soglia degli 80 posti letto - nel 2017 contava 170 strutture di natura poli-specialistica con un bacino di utenza minore di 80.000 abitanti e meno di 20.000 accessi annui appropriati al Pronto Soccorso.
 
Questi ospedali, per la maggior parte pubblici (circa il 90%), sono privi di legami funzionali con altri presidi della rete e localizzati in aree suburbane, hanno in media 79 PL per 7 reparti e, per le prestazioni monitorate dal DM 70/2015 (fatta eccezione per gli interventi di frattura del femore), in meno di un caso su tre rispettano sia gli standard di esito che di casistica  Sotto il profilo delle dimensioni operative solo i reparti di medicina generale e chirurgia generale rispettano la soglia di 17,5 PL prevista dagli standard ministeriali.
Per quanto riguarda i grandi ospedali, quelli di secondo livello con più di 450 posti letto, invece, le problematiche sono di natura infrastrutturale, logistica, tecnologica ed organizzativa.
 
L’indice di obsolescenza dei fabbricati nel 2017 era pari all’83%. La maggior parte dei grandi ospedali sono strutturati secondo il modello funzionale del “monoblocco” o – quelli più antichi - “a padiglioni” che non si addicono a percorsi integrati di cura (inpatient e outpatient) e alla concentrazione delle tecnologie in ampie piastre tecnologiche (es. per i laboratori, i blocchi operatori o la diagnostica per immagini).
In termini di adeguatezza delle dotazioni di posti letto, esiste già un allineamento sulla soglia di 3 PL ogni 1000 abitanti per acuti ma permane una certa divergenza sulla soglia di 0,7 PL per non acuti soprattutto nelle strutture del centro sud.
 
La proposta
L’investimento nella rete ospedaliera implica una ridefinizione della vocazione dei piccoli ospedali così come dei grandi ospedali garantendo in entrambi standard di volume sufficienti per garantire sicurezza ed efficacia grazie al raggiungimento di una competence clinica appropriata.
I piccoli ospedali possono rappresentare piattaforme logistiche in cui concentrare competenze e procedure (logica del “focused hospital”) da realizzare anche attraverso la creazione di équipe professionali itineranti. È quindi desiderabile mettere in rete i piccoli ospedali promuovendo logiche di specializzazione su determinate vocazioni, o, infine, logiche di accorpamento o riconversione in strutture territoriali, riducendo quindi anche i costi fissi e concentrando le dotazioni tecnologiche.
 
È imperativo seguire un nuovo paradigma nell’ammodernamento di queste strutture, specialmente quelle più grandi, accorciando il ciclo di vita economico degli ospedali, per poterle adeguare rapidamente ai nuovi modelli organizzativi, con l’obiettivo di una vita utile delle infrastrutture inferiore ai 30 anni. L’obiettivo è di aumentare la flessibilità delle strutture, anziché investire in capacità di riserva, di concentrare la casistica, di aumentare la produttività, di ridurre i costi a parità di interventi.
 
Le direttrici del cambiamento trasformativo, con cui realizzare questi obiettivi sono:
• l’adozione di logiche di piattaforma e condivisione dei fattori produttivi;
• l’aumento della rilevanza dell’attività ambulatoriale;
• l’accorciamento dei percorsi di cura, con la logica del paziente al centro;
• l’adozione di un modello di ospedale che sia funzionale per il territorio (orizzontale) ma anche di alta specialità (verticale);
• l’aumento della sostenibilità e la riduzione degli impatti ambientali.
 
Le ragioni della proposta
Gli assetti infrastrutturali e tecnologici dell’attuale rete ospedaliera non si conciliano con l’adozione di modelli di organizzazione dell’assistenza sanitaria basati sulla logica della patient centred care e della progressive patient care (c.d. intensità delle cure) necessaria per gestire bisogni assistenziali che nel frattempo sono evoluti sia per le acuzie che nel post-acuto.
 
Questo ha delle conseguenze sia in termini di efficacia delle cure che di economicità. La vetustà impone crescenti costi di manutenzione ed adattamento. Modelli distributivi e funzionali come il monoblocco o il modello a padiglioni, impongono dotazioni di personale superiori rispetto al necessario proprio per bilanciare le rigidità strutturali. Appare quindi necessario superare la logica tradizionale adottata dal DM 70/2015 che definiva tre modelli di ospedale (di base, di primo livello e di secondo livello) differenziati per bacino d’utenza, livello delle specialità e delle dotazioni. Occorre seguire i percorsi del paziente fornendo la soluzione logistica più adeguata in relazione alla complessità della condizione clinica, il livello di “acuzie”, il fabbisogno di competenze e tecnologia.
 
E’ necessario infine prendere atto di un chiaro squilibrio tra le dotazioni infrastrutturali tra le diverse Regioni italiane, laddove si osserva una concentrazione in strutture hub nel Centro-Nord del paese con un numero insufficiente di grandi ospedali con attività di alta specializzazione ed adeguati volumi al Sud. Il PNRR non dimentica l’investimento nelle infrastrutture ospedaliere ma si limita supportare l’adeguamento antisismico (certamente indispensabile) e la “sostenibilità ambientale”, senza concentrare l’attenzione sull’esigenza di revisionare la rete ospedaliera in una prospettiva di adeguamento distributivo e funzionale per l’efficacia e la tempestività delle cure.
 
4. Potenziare la presa in carico della cronicità
La Missione 6 del PNRR divide gli interventi in due macro-categorie: reti di prossimità e innovazione e ricerca.  La prima macro-categoria ha come obiettivo quello di rafforzare l’assistenza territoriale attraverso il potenziamento e la creazione di strutture e presidi territoriali (come le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare e una più efficace
integrazione con tutti i servizi socio-sanitari. In particolare, che riguarda individua nella casa della comunità uno dei luoghi in cui coordinare i servizi offerti ai cronici attraverso team multidisciplinari.
 
La proposta
È necessario pensare ad una definizione del modello di servizio e messa in rete dei nodi attraverso la classificazione dei nodi di servizio e delle relative missioni, ruoli e funzioni; dei programmi di dimensionamento ed investimento in infrastrutture tecnologiche che permettano il monitoraggio dei parametri clinici e di performance così come di piattaforme per il teleconsulto, la televisita ed il telemonitoraggio. Inoltre, è importante identificare il livello di coordinamento delle figure più spesso coinvolte in questi percorsi: MMG, infermiere e specialista in relazione al livello di cronicità.
 
Le ragioni della proposta
Nelle regioni italiane la percentuale di persone che presentano almeno una condizione di cronicità varia dal 30 al 47%.
 
A fronte della crescente domanda di presa in carico della cronicità e multi-cronicità, e dei principi presenti nel piano nazionale delle cronicità, attualmente non vi è un modello di assistenza di riferimento.
 
Manca l’infrastruttura digitale di comunicazione tra livelli, è per lo più il paziente che deve farsi carico di far circolare le informazioni che lo riguardano fra i vari setting assistenziali ed il FSE non è ancora pienamente utilizzato come strumento informativo.
Mancano meccanismi e strumenti che promuovano la collaborazione fra professionisti tanto che spesso la collaborazione viene percepita come un onere non riconosciuto.
Ancora poco chiara è l’evoluzione dei ruoli e delle funzioni dei MMG, degli ambulatori specialistici e ospedalieri.
 
5. Garantire assistenza domiciliare per mantenere autosufficienza e relazioni sociali
I cambiamenti demografici e le conseguenti variazioni del quadro delle cronicità determinano che l’assistenza domiciliare surroghi sempre più spesso problemi sociali ed economici, che impediscono il mantenimento della autosufficienza delle persone. L’adeguamento strutturale del domicilio del paziente, la professionalità dei caregiver, sono elementi critici per la salvaguardia dei rapporti sociali e della autosufficienza, come anche per l’esecuzione di prestazioni terapeutiche al domicilio.
 
Sarebbe un errore, ed anche insostenibile da un punto di vista economico, pensare di risolvere i problemi di non autosufficienza aumentando senza limiti l’erogazione di servizi sanitari, ed in particolare inviando personale al domicilio dei pazienti. Per questo risulta essenziale promuovere le condizioni per lasciare le persone nella propria abitazione, o in contesti abitativi strutturati per facilitare il mantenimento di adeguati livelli di autosufficienza. In seconda istanza è necessario garantire che l’assistenza domiciliare sia supportata dall’utilizzo da strumenti di sanità digitale, riducendo il numero di accessi fisici.
 
La proposta
La nostra proposta è che, per potenziare l’assistenza domiciliare, l’investimento in personale debba essere integrato da alcune riforme, che costituiscono condizione necessaria per lo sviluppo di una vera assistenza di prossimità. In primo luogo deve essere perseguita una piena integrazione della gestione dei servizi sociali con il SSN; auspichiamo che il Welfare sia riorganizzato in due rami: uno dedicato all’erogazione delle prestazioni in denaro (risparmio previdenziale, indennità di disoccupazione,…) e un altro alla erogazione dei servizi in natura per la persona, trasformando il SSN in un SSSN – Servizio Socio-Sanitario Nazionale; ne segue che va superata la divisione di competenze fra SSN, Comuni e INPS che erogano, a vario titolo, prestazioni sociali e socio-sanitarie, garantendo che la gestione di tutti i servizi alla persona sia in capo ad unico centro di responsabilità.
 
In secondo luogo, proponiamo che venga creato un Fondo Nazionale unico per la LTC, accorpando le risorse pubbliche destinate agli anziani non autosufficienti (INPS, SSN, EELL) in unico fondo per le non autosufficienze; a tal fine prevediamo la trasformazione in voucher di servizi delle indennità legate ai programmi di tutela alla persona (quali ad es. le indennità di accompagnamento).
 
In terzo luogo, è necessario prevedere azioni per permettere ai nuclei familiari di rimanere autosufficienti con adattamenti delle loro condizioni abitative (domotica, condomini con servizi condivisi, etc.) ed anche creando le condizioni affinché il mercato possa investire in progetti di co-housing e housing sociale.
 
Il quarto elemento “abilitante” è rappresentato dalla istituzionalizzazione dell’assistenza erogata dalle badanti (e dai caregiver), prevedendo una adeguata e qualificata formazione e l’istituzione di una specifica procedura di accreditamento; la professionalizzazione delle badanti va incentivata promuovendo il loro inserimento in cooperative o società di servizi. Infine, l’assistenza domiciliare va potenziata mediante un utilizzo più diffuso degli strumenti di digital health, ripensando i servizi nell’ottica dell’assistenza al nucleo familiare, più che del solo paziente.
 
Le ragioni della proposta
La popolazione italiana è caratterizzata da una età media fra le più elevate nel mondo e un processo di rapido invecchiamento, che ci porterà ad avere il +56,6% della popolazione over 75 nei prossimi 50 anni. Ne deriva l’attesa in un elevato tasso di cronicità e multi-morbidità, da cui consegue la previsione che una ampia fascia di popolazione richiederà assistenza continua e un frequente ricorso alle cure.
 
Allo stesso tempo registriamo che oltre un terzo delle famiglie italiane sono ormai unipersonali, come la crescita costante della quota di famiglie composte da soli anziani. Dato il contesto socio-demografico, l’umanizzazione della risposta del SSN richiede che il domicilio sia eletto come luogo di cura preferenziale, anche perché solo con il mantenimento delle persone nel loro luogo di vita abituale è possibile salvaguardare le loro relazioni, rapporti sociali e qualità della vita. Quanto descritto ci permette di affermare come l’assistenza domiciliare sia, in Italia, del tutto insufficiente (solo il 2,7% degli over 65 accede all’ADI ed anche distribuita in modo diseguale sul territorio, con valori regionali che vanno dal 5,1% degli over 65 assistiti allo 0,6%.
 
Di fatto, gran parte della carenza di assistenza domiciliare è attualmente surrogata dalle badanti: figure che, in larga misura, risultano prive di una adeguata qualificazione.
 
Inoltre, l’assistenza domiciliare rischia di essere inefficace se non si realizza una completa integrazione con l’assistenza sociale: il confine fra assistenza sanitaria e sociale è sempre più labile e i tentativi di disegnarlo risultano in larga misura arbitrari (vd. la definizione di integrazione socio-sanitaria); di contro, queste forme di assistenza non presentano soluzioni di continuità, risultando unite dalla loro comune caratteristica di essere prestazioni di servizi in natura.
 
Ripristinare l’unitarietà del sistema di prossimità richiede che vengano razionalizzate le risorse esistenti (attualmente si erogano a vario titolo circa € 25 mld per la LTC, disperse fra diversi Enti) trasformando le prestazioni in denaro in voucher e riunificandone la gestione in un unico centro di responsabilità.
 
6. Razionalizzare la rete ambulatoriale territoriale
L’attuale prevalere delle condizioni patologiche croniche comportano la necessità di aumentare i volumi e il portafoglio di attività ambulatoriali. La rete ambulatoriale soffre di una frammentazione elevatissima tra i contesti regionali, che ne condiziona fortemente l’efficacia assistenziale e la capacità di dare risposta ai bisogni della popolazione.
 
La proposta
Il SSN deve concentrare le strutture ambulatoriali territoriali, riducendone il numero, ma rafforzandole in termini di spazi, di volumi e tipologie di servizi, di tecnologie, di professionalità, di accessibilità al pubblico (per esempio estendendo giorni e orari di apertura). A questo modello dovrebbe ispirarsi “la definizione di standard strutturali, organizzativi e tecnologici omogenei per l’assistenza territoriale” delineata nel PNRR.
 
Le attività ambulatoriali devono essere differenziate in funzione delle patologie, degli stadi di patologie, della literacy dei pazienti ed offerte in logica di presa in carico, il che richiede un aumento delle prestazioni erogate in prossimità, soprattutto se di follow up e condizioni di salute stabili e compensate. Per costruire processi sistematici di presa in carico dei pazienti cronici serve una strutturata messa in rete di tutte le attività territoriali: ambulatori specialistici, Case della Comunità, nodi delle cure intermedie.
 
Il PNRR pone infatti al centro del disegno la “Casa della Comunità”, dichiarando l’obiettivo di attivare “1288 Case della Comunità entro la metà del 2026, che potranno utilizzare sia strutture già esistenti sia nuove”. Sarà fondamentale stabilire se le Case della Comunità rappresenteranno il luogo fisico in cui concentrare le strutture ambulatoriali territoriali; in caso contrario, andranno esplicitate le rispettive funzioni e definite le modalità e responsabilità di coordinamento.
 
Ripartizione delle funzioni e modalità di coordinamentoandranno inoltre definite con i Medici di Medicina Generale e le loro forme associative, con la specialistica di secondo livello, nonché con gli obiettivi di sviluppo delle strutture intermedie e dell’assistenza domiciliare delineati dal PNRR. In merito si potrà lasciare spazio all’autonomia regionale, cui dovrà però essere associata una forte responsabilizzazione sull’utilizzo dei finanziamenti e soprattutto sui risultati conseguiti.
 
La gamma di servizi offerti dalle strutture ambulatoriali, nonché la sottostante dotazione quali-quantitativa di spazi, tecnologie e professionalità, andranno definite in base alla citata ripartizione delle funzioni, nonché delle patologie prevalenti nella comunità di riferimento.
 
Le ragioni della proposta
L’attuale rete ambulatoriale territoriale presenta forti variabilità interregionali. Mediamente è estremamente frammentata (15 strutture ogni 100.000 abitanti) ed ha una capacità produttiva ridotta (80 prestazioni al giorno). Dal grafico tabellare dell’Annuario Statistico del SSN (2018) si può infatti vedere come la grande maggioranza delle strutture ambulatoriali (ca. il 49% del totale) eroga prestazioni riconducibili ad un massimo di 5 branche, per un volume annuo inferiore alle 12.500 prestazioni per struttura. Solo 41 strutture ambulatoriali (0,6% del totale) erogano volumi di prestazioni significativi, superando 500.000 prestazioni l’anno.
 
La frammentazione delle strutture e il portafoglio di servizi estremamente contenuto si collegano inoltre ad una dotazione tecnologica spesso insufficiente e obsoleta. Le dotazioni infrastrutturali spesso sono vetuste e di scarso pregio funzionale ed estetico.
 
L’integrazione con la specialistica di secondo livello è spesso debole, favorendo il ricorso diretto all’ospedale. Mancano standard strutturali, organizzativi e tecnologici, nonché indicatori per valutare appropriatezza ed esiti.
 
7. Rafforzare la Medicina Generale
Elemento cardine dell’assistenza territoriale è rappresentato dalla Medicina Generale la cui rilevanza strategica è stata oltremodo messa in evidenza dalla pandemia da Covid19. È necessario promuovere un’assistenza primaria continuativa, evoluta dal punto di vista tecnologico e infrastrutturale e dotata di modelli organizzativi riconoscibili e omogenei su tutto il territorio nazionale.
 
La proposta
Per promuovere la continuità della cura è necessario innanzitutto stabilire a livello uniforme, su tutto il territorio nazionale, degli standard minimi in termini infrastrutturali e di apparecchiature tecnologiche. È fondamentale investire nella riprogettazione strategica degli spazi, in modo che siano: a) dotati della tecnologia “minima” necessaria; b) funzionali alla creazione di interdipendenze tra MMG, MMG e altri professionisti (PLS e MCA in primis); c) adeguati alla condivisione non solo di strumentazione tecnologica, ma anche di personale infermieristico, sociosanitario e di supporto amministrativo.
 
Accanto alla maggiore intensità tecnologica, è necessario ampliare la disponibilità degli spazi di MG prevedendo orari di apertura al pubblico più estesi (almeno 8 ore/giorno, 6 giorni alla settimana).
 
Risulta infine necessario per il SSN nel suo complesso produrre un sistema di conoscenza che classifichi a livello nazionale i centri di cure primarie secondo diverse variabili: la gamma dei servizi offerti, le tecnologie disponibili nei centri, gli orari di apertura al pubblico, etc. In questo modo, sarà possibile conoscerne l’entità, la distribuzione sul territorio e conseguentemente calcolarne il tasso di copertura rispetto al bisogno espresso dalla popolazione di riferimento.
 
Le ragioni della proposta
Dai dati nazionali risulta un’elevatissima eterogeneità in termini di modelli organizzativi e assistenziali adottati per l’erogazione dell’attività di Medicina Generale: a parte le regioni centrali, l’attività dei MMG continua ad essere erogata singolarmente o in forma di associazione semplice. Queste formule di servizio non riescono pertanto a garantire sufficienti interdipendenze tra gli MMG e tra MMG e altri professionisti.
 
Gli spazi fisici in cui generalmente operano gli MMG risultano non adeguati all’apparecchiatura tecnologica che sarebbe necessario prevedere (per la diagnostica ad esempio) e sono spesso caratterizzati da scarsa disponibilità in termini di orari e giorni di apertura per i pazienti. Questi fattori incidono negativamente sulla percezione dei pazienti in termini di qualità dell’assistenza e in extremis possono essere anche causa dell’aumento di accessi inappropriati al PS.
 
8. Riequilibrare e riqualificare la rete delle cure intermedie
Il PNRR prevede un investimento di un miliardo di Euro, specificamente rivolto al “Rafforzamento dell’assistenza sanitaria intermedia e delle sue strutture (Ospedali di Comunità)”. Il Piano mira quindi al potenziamento dell’offerta dell’assistenza intermedia puntando sull’attivazione entro il 2026 di 381 Ospedali di Comunità, ovvero di strutture sanitarie della rete territoriale a ricovero breve, destinate a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata.
 
La proposta
La nostra proposta rilancia ulteriormente rispetto alla previsione del PNRR di investimento sugli ospedali di comunità, ritenendo necessario uno sforzo ulteriore per far convergere l’offerta regionale e riqualificare la rete complessiva delle cure intermedie.
 
Si articola in tre punti principali. Innanzitutto pensiamo ad un "Decreto 70" per le strutture di cura intermedie: è necessario prevedere un riequilibrio tra le Regioni della dotazione delle strutture di cura intermedie (ospedali di comunità, RSA, RSD, hospice, riabilitazione, etc.). Gli investimenti vanno orientati sulla base delle necessità di ribilanciamento territoriale.
 
Vanno congiuntamente definiti gli standard non solo infrastrutturali e di organico, ma anche quelli di processo e di esito. In secondo luogo è fondamentale la messa in rete con gli altri setting assistenziali: le strutture intermedie devono essere collegate funzionalmente con gli ospedali (onde evitare ricoveri ospedalieri evitabili) e con i servizi territoriali. Il collegamento deve garantire il consulto con le equipe specialistiche ospedaliere.
 
Deve essere criterio di accreditamento la disponibilità di teleconsulto e tele-monitoraggio. In terzo e ultimo luogo, pensiamo sia necessaria una ridefinizione delle responsabilità di gestione: nelle cure intermedie va ulteriormente valorizzata la competenza infermieristica. Deve altresì essere previsto un collegamento con la medicina di base, per garantire la continuità assistenziale.
 
Le tre proposte prevedono alcune precondizioni attuative:
- va previsto un piano complessivo di investimento per il riequilibrio territoriale;
- vanno riviste le norme di accreditamento nella direzione di una omogeneizzazione degli standard;
- va previsto un investimento in forme di digital health (la cui disponibilità deve essere condizione di accreditamento);
- vanno ridefiniti i ruoli professionali, investendo in formazione anche manageriale degli infermieri.
 
Le ragioni della proposta
La dotazione di strutture intermedie e residenziali del nostro SSN è attualmente complessivamente inferiore rispetto agli altri Paesi europei: i long-term care beds in nursing and residential care facilities sono in Italia circa 420 per 100.00 abitanti (anno 2018), a fronte di una media europea di circa 765. Risulta inoltre fortemente disomogenea a livello inter-regionale: la dotazione di posti in strutture sanitarie residenziali e semiresidenziali varia dagli 84 posti per 100.000 abitanti della Campania ai quasi 1.000 della Provincia Autonoma di Trento.
 
Appare disomogenea anche nell’organizzazione e nell’offerta: a titolo di esempio, le giornate medie per utente in strutture residenziali (assistenza agli anziani) vanno da un valore di 256 della Lombardia alle 60 giornate di Regione Sicilia. Più nello specifico, il dimensionamento infrastrutturale effettivo non è regionalmente uniforme; non sono previsti standard di appropriatezza e esito; l’utenza e le caratteristiche del ricovero in lungodegenza, residenze e semi-residenze tendono a sovrapporsi; non è chiaro quale sia il contributo delle diverse professioni sanitarie nei setting intermedi e di chi debba essere la responsabilità gestionale.
 
Appare variamente bilanciata per quanto concerne l’infrastruttura istituzionale e la vocazione: l’incidenza delle strutture pubbliche residenziali e semiresidenziali varia dal 6% circa di Puglia, Molise e Valle d’Aosta a più del 45% di Umbria, Sicilia e Campania. Ugualmente, la composizione dei PL per tipologia è estremamente difforme. Infine, risulta non perfettamente integrata in seno alla rete di offerta. Non è infatti normalmente previsto dagli standard di accreditamento che le strutture intermedie siano digitalmente e funzionalmente connesse con gli altri setting assistenziali e non ci sono incentivi a che gli specialisti e i MMG collaborino con le strutture intermedie.
 
9. Ammodernare il parco tecnologico
L’innovazione tecnologica rappresenta un importante fattore per l’efficacia delle cure in ogni sistema sanitario complesso. Le grandi apparecchiature elettromedicali installate nelle aziende sanitarie appaiono oggi obsolete in sovrannumero e spesso sotto-utilizzate. L’indagine della Corte dei Conti del 2017 ha messo in evidenza un numero di apparecchiature RNM e TAC superiore del 60% rispetto alla media europea per abitante, con uno squilibrio più marcato nelle regioni del Centro.
 
Una indagine dello stesso anno svolta nell’ambito del Rapporto OASI (Cergas-Bocconi), mostrava un indice di obsolescenza di impianti e macchinari nelle Aziende Ospedaliere pari al 79% con un chiaro gradiente nord-sud. Una indagine di SIRM aveva già anticipato quanto poi certificato dal Ministero della Salute nel 2017 in termini di variabilità nell’intensità di utilizzo delle risonanze magnetiche, con differenziali intraregionali di utilizzo in alcuni casi prossimi al 400%. La stessa analisi evidenziava che le differenze seguivano un chiaro gradiente tra strutture hub (che utilizzano più intensamente) e strutture periferiche.
 
Il PNRR mette al centro dell’attenzione il rinnovo del parco tecnologico dedicando 1,9 miliardi alla sostituzione di 3133 TAC, risonanze magnetiche, Acceleratori Lineari, Sistema Radiologico Fisso, Angiografi, Gamma Camera, Gamma Camera/TAC, Mammografi, Ecotomografi con più di 5 anni di età.
 
Le ragioni della proposta
Se appare condivisibile la necessità di dedicare risorse al rinnovo del parco tecnologico è altrettanto indispensabile superare la logica della mera sostituzione fissando dei criteri per realizzare una programmazione basata sui reali fabbisogni. In buona sostanza non è sufficiente sostituire le attrezzature ad oggi disponibili con macchine più nuove ma è indispensabile curarne l’allocazione e l’inserimento in processi assistenziali che nel frattempo sono mutati attraverso una programmazione puntuale basata su una analisi di Health Technology Assessment.
 
Appare quindi indispensabile ildecollo del Programma Nazionale di HTA dei dispositivi medici e l’implementazione della rete dei Nuclei Regionali di Health Technololgy Assessment e dei centri collaborativi già previsti dalla normativa vigente per sostenere lo sforzo di valutazione sui cui basare la programmazione. A questo proposito l’indagine svolta da Agenas e dalla Società Italiana di Health Technology Assessment nel 2016 e recentemente aggiornata, mostra ancora una diffusione insufficiente delle competenze di HTA nelle Regioni con una bassa produttività in termini di produzione di Full o mini-Report di HTA. Anche in quelle Regioni dove c’è una discreta produzione di HTA, l’impatto sulle decisioni di adozione delle tecnologie e sulla programmazione regionale appare limitata. Ancorare le decisioni del PNRR sulle tecnologie senza un robusto modello di HTA rischia di non garantire il migliore uso delle ingenti risorse disponibili.
 
La proposta
Nell’implementazione dei progetti previsti dal PNRR, il rispetto di alcuni elementi appare cruciale:
- In primo luogo, è opportuno selezionare macchinari di ultima generazione in modo da avere il 60% di apparecchiature sotto i 5 anni di età. È necessario allineare le dotazioni tecnologiche alla media europea riducendone il numero ma aumentando l’utilizzo medio alla luce di una analisi del fabbisogno. La realizzazione di un piano di investimenti appropriato, sostenibile e condiviso, presuppone una valutazione multidisciplinare e multi-stakeholder ispirata ad un robusto processo di Health Technology Assessment.
 
- Il nuovo parco tecnologico delle Regioni dovrà essere quindi il risultato di una analisi delle potenziali implicazioni delle scelte in termini di efficacia, sicurezza, accessibilità ed economicità tenendo conto dei mutati contesti organizzativi e dell’evoluzione dei percorsi di diagnosi e cura che queste tecnologie andranno a supportare.
 
- Nella programmazione è indispensabile prevedere un adeguato percorso di consultazione degli stakeholders (cittadini e pazienti in primis) per delineare le priorità e i criteri per l’allocazione in modo da coniugare accessibilità e sostenibilità.
 
- È altresì indispensabile lo sviluppo di robuste competenze tecnico professionali per l’HTA (capacity building) necessarie per sostenere il processo di valutazione e sostenere una programmazione data-driven ed evidence based.
 
10. Cambiare lo skill-mix tra medici e professioni sanitarie
Nel patto per la salute 2019-2021 veniva menzionata la valorizzazione delle professioni sanitarie, in particolare di quella infermieristica per rispondere ai bisogni di continuità assistenziale con particolare riferimento ai cronici e la valorizzazione del ruolo del farmacista anche per la presa in carico dei pazienti nel seguire l’aderenza terapeutica. Tale processo viene richiamato nel PNRR che menziona il ruolo strategico delle farmacie per garantire i servizi di prossimità ed il ruolo dell’infermiere di comunità.
 
La proposta
E’ necessario ripensare alle competenze necessarie (skill mix) ed il cambio di ruoli (task shifting) delle professioni sanitari per rispondere ai trend demografici ed epidemiologici che hanno evidenziato nuovi bisogni. Il cambiamento dei ruoli può riguardare diverse categorie. Nell’opinione di giugno 2019, il gruppo di esperti dell’unione europea sugli investimenti in sanità raccomandava di considerare il task shifting non solo nella sostituzione dell’infermiere al medico per alcuni compiti e nel maggior ruolo dei farmacisti ma anche nella sostituzione (e/o integrazione delle cure) dei professionisti sanitari ai pazienti o agli operatori sanitari e socio-sanitari o ai caregivers. E’ inoltre da tener presente anche la sostituzione (e integrazione dei servizi offerti) da parte delle nuove tecnologie. Queste ultime possono portare anche alla creazione di nuove figure professionali.
 
E’ necessario favorire il cambio di competenze ed il cambiamento dei nuovi ruoli attraverso processi formativi che preparino i professionisti coinvolti ai ruoli ad essi assegnati.
 
E’ infine necessario ridisegnare i processi di erogazione dei servizi sanitari in relazione al progresso tecnologico ed al cambiamento di ruolo dei medici, infermieri e delle altre professioni sanitarie.
 
Le ragioni della proposta
I trend demografici ed epidemiologici hanno portato a una variazione consistente dei bisogni della popolazione in termini di assistenza (ad esempio 32,9% della popolazione over 75 è non autosufficiente). Questi cambiamenti di assetto della domanda non sempre hanno avuto risposta sul lato dell’offerta.
 
Evidenze di letteratura riportano che in determinati contesti il cambiamento dei ruoli porta agli stessi livelli di cura se non a volte livelli persino migliori.
La necessità di ripensare al cambiamento dei ruoli deriva anche dalla mancanza del personale medico ed infermieristico, dall’introduzione di nuove tecnologie
 
Il cambiamento dei ruoli aiuta a superare il crescente burnout dei sanitari che lavorano per tante ore in contesti stressanti e chiamati a svolgere compiti che possono essere svolti efficacemente anche da personale con competenze differenti.
28 maggio 2021
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