La Calabria bersaglio. Nonostante morente, sembra essere divenuto il leitmotiv dominante di tutta l’informazione, soprattutto televisiva. Tutti le sparano addosso dopo un irresponsabile silenzio durato tredici anni - solo per fermarci alla Regione commissariata - sulle atrocità assistenziali somministrate ai calabresi e sui disastri causati al suo bilancio. In tanti (troppi) lavorano oggi per fare spettacolo sulle rovine. Alcuni per sensibilizzare, altri per dileggiare. Dal lato della proposta, il vuoto. Nessuno progetta. Da oltre un decennio un silenzio assordante sulla sanità calabrese, cui fa oggi eco un chiasso fine a se stesso.
La storia docet
Ricorreva l’anno 2011, appena successivo alla approvazione del DM 26 novembre 2010, afferente alla perequazione infrastrutturale, e all’approvazione del decreto delegato n. 88/2011, attuativo del c.d. federalismo fiscale (legge 42/2009), che prevedeva gli interventi speciali per le aree deboli, allorquando scrivevo in lungo e in largo sulla necessità di intervenite con una perequazione del debito pregresso.
Una sorta di bonifica del deficit patrimoniale allora appena al di sotto dei due miliardi, da associare ovviamente alla perequazione infrastrutturale, ad esito della quale fare ripartire la Calabria dagli stessi blocchi delle altre regioni. Lo facevo all’indomani della conclusione del lavoro di rendicontazione dell’indebitamento della sanità calabrese, consolidato al 31 dicembre 2008, effettuato dall’allora commissario di protezione civile, cui ha fatto seguito l’accensione di un mutuo agevolato trentennale, che sarà a carico della Regione sino al 2040 o giù di lì.
Da lì ad oggi, il nulla in tal senso, con un andirivieni di commissari ad acta, cui sono state affidate le sorti della Calabria e dei calabresi, senza però le occorrenti misure accessorie. Quindi, senza prevedere gli investimenti necessari a fare ciò che occorreva per conseguire il «minimo sindacale», ma soprattutto per compensare il vero punto debole: l’assistenza territoriale. Quella che avrebbe anche interpretato lo strumento ideale per opporsi, ovunque, al coronavirus.
Nulla di questo, perché la Calabria fa comodo (a chi lo vedremo!) così com’è. Perché ivi, ove la ‘ndrangheta vive di appalti e di rapporti contrattuali di somministrazione di prestazioni essenziali, si ebbe a pensare alle grandi inutili forniture di beni e servizi. Del tipo quello che, per esempio, qualche anno prima aveva riguardato l’acquisto di cinque mammotomi in terra di Calabria (sanzionato pesantemente dalla Corte dei conti), a fronte di uno disponibile per ogni altrove regionale, attesa la sua propensione ad essere inusuale strumento diagnostico di remota istanza per le patologie mammarie.
Dunque si pensò di investire esclusivamente su: un rinnovo tecnologico per qualche centinaia di milioni di euro, spesi poi per comprare le solite attrezzature che non sono servite affatto a cambiare la qualità del regime erogativo; quattro nuovi ospedali, rimasti sulla carta da dodici anni, a fronte della chiusura della quasi totalità degli ospedali periferici esistenti senza mettere nulla al loro posto.
Oggi, regina dei palinsesti e non dell’interesse generale
Ebbene, dopo una «campagna di guerra» con tanti morti (veri) al seguito, si puntano i riflettori. Pronti a fotografare il triste esistente senza che alcuno riconduca al disastro, giustamente televisivamente mostrato, le relative responsabilità. E dire che il materiale non mancherebbe.
Lo si fa senza che ci sia, a qualunque livello, un progetto di ripristino del diritto fondamentale che la Costituzione consacra nell’articolo 32: la tutela della salute. Non solo. Anche quello urlato dall’articolo 38 della Carta: l’assistenza sociale, usata in Calabria come si fa con il verme nella pesca alla trota.
In assenza di tutto ciò, si è sviluppato l’interesse dell’informazione. Ben arrivata, purché non finalizzata ad una spettacolarizzazione del fenomeno fine a se stessa.
La Calabria commissariata per tredici anni - di cui i primi due di protezione civile a fronte delle morti innocenti che produceva e di un indebitamento che non si conosceva - ha bisogno di altro. Ha bisogno di ciò che occorre a tutte le regioni, ovverosia della ricostruzione dell’assistenza territoriale che non c’è (buone, ad esempio, le case di comunità di avanzata generazione) e delle attenzioni domiciliari necessarie alla cura della persona, che nel post-Covid sarà più che indispensabile, nonché di una riconversione del più generale assetto ospedaliero (buoni, ad esempio, i presidi di prossimità), sì da renderlo pronto ad ogni evenienza.
Le occorre una manifestazione di «affetto nazionale»
Nel particolare, la Calabria ha bisogno delle «coccole», di quelle che nessuno le ha mai dedicato. Le occorre uno strumento straordinario di revisione, magari compartecipato dalla magistratura contabile, che scopra cosa c’è nei suoi bilanci (e non solo in quelli della sanità!), con una conseguente disponibilità perequativa statale, senza porre il solito carico alla Regione di provvedere al naturale ammortamento. Non ce la farebbe mai!
Certo, il comma 842 della legge di bilancio 2021 consente la rateizzazione del debito accumulato a tutto il 2019 in trent’anni, che consentirebbe al Ssr di ripartire da capo. Per andare bene, però, il suo ammortamento dovrebbe essere accollato allo Stato, pena l’asfissia finanziaria del bilancio della Regione.
La Calabria va trattata come Napoli e Reggio Calabria che, senza le consistenti «coccole» ricevute dalle leggi finanziarie e di bilancio statali sarebbero andate a finire, da subito, nel girone dei grandi falliti istituzionali.
Ha bisogno di una svolta. Lo si diceva, di investimenti mirati, quindi individuati a seguito di riforme strutturali, che sono tutt’altra cosa dei Programmi operativi triennali (da rinnovare con dentro il Piano Covid e riapprovare così per il triennio 2021-2023!), cui è da anni sottoposta per ragioni di commissariamento, che le stanno recitando un progressivo de profundis.
Ettore Jorio
Università della Calabria