Il Covid-19 pone due problemi molto attuali. Il primo afferisce alla conta della somministrazione vaccinale, sulla quale ha inciso la solita ansia agonistica per guadagnare primati politici.
Mario Draghi non è certamente attratto da agonismi regionali fini a sé stessi, così come il ministro
Speranza, è da sempre avulso da un siffatto genere di competizione, negativamente generatasi tra le Regioni. Entrambi avranno cura di portare a casa quanto occorre per dare agli italiani maggiori certezze di salute di quelle sino ad oggi compromesse da circostanze solitamente avverse. Il tema da risolvere è la disponibilità dei vaccini e la somministrazione degli stessi, a fronte dei quali è importante capire da dove, chi e quando farli.
L'obiettivo primario, il più attuale da conseguire è la percentuale dei vaccinati, dei resi indenni. Sperando che i medesimi rimangano tali a seguito del concitato sviluppo delle varianti, alcune delle quali temibili in tal senso.
Allo stato attuale delle cose corrisponde tuttavia un serio dubbio di sufficienza delle dosi, cui va data soluzione attraverso l'accaparramento di ciò che occorre, quanto a vaccini resi realisticamente disponibili, prescindendo dalla provenienza purché efficaci. Quindi da ovunque e indipendentemente se provenienti dal mercato in senso stretto, purché arrivino in una quantità tale da capitalizzare in modo utile la sufficienza per assicurare agli italiani l'immunità di gregge. Una soluzione comunque non riconoscibile completamente come tale dai più avveduti, i quali avvertono la co-necessità di investire da subito sulla fabbricazione, meglio se in loco, dei richiami necessari a far sì che i vaccinati assumano capacità di resistenza alle più temibili tipologie sopravvenute a quella cinese divenuta nostrana a partire dal'inizio 2020.
Secondo problema. Dalla serie dei vaccini disponibili emerge un loro diverso trattamento conservativo e, dunque, di somministrazione. C'è quello prodotto dalla Pfizer che richiede una conservazione a -70 Celsius, in quanto tale impeditivo del trattamento di massa effettuato dai medici di famiglia perché non attrezzati allo scopo. Un limite, questo, non di poco conto del vaccino e soprattutto per la comunità nazionale, atteso che il medesimo offre la maggiore copertura percentuale e quindi un maggiore spettro d'azione degli altri in circolazione.
Una peculiarità che è naturale che ingeneri una qualche preoccupazione sui tempi e sui modi di somministrazione del vaccino che presenta comunque le migliori credenziali sulle varianti emergenti. Al riguardo, sarebbe indispensabile accelerarne la inoculazione impegnando in proposito anche l'inimmaginabile, purché garante della rigida catena del freddo indispensabile ad hoc.
In tutto questo, sono fuori gioco i medici di famiglia non perché inidonei a tal fine. Tutt'altro. Ciò in quanto non garanti, purtroppo, delle attrezzature necessarie alla sua conservazione. Un vero peccato, almeno in riferimento ad una siffatta tipologia di vaccino. Un handicap vissuto che potrebbe oggi tuttavia rappresentare lo stimolo a fare meglio e presto, impegnando un siffatto più largo insieme di professionisti, forse mutati nelle abitudini, nella più grande vaccinazione di massa perfezionata in prossimità del domicilio dei loro assistiti. Una logica di servizio e di rispetto delle prerogative dell'umanità più debole che coincide con l'auspicio che il nuovo Premier ha ricordato nella sua dichiarazione programmatica alle Camere, che - parlando di diritto alla salute - ha ritenuto considerare la «casa come principale luogo di cura».
Da qui, l'augurio che l'assistenza territoriale, al lordo dell'indispensabile assistenza domiciliare, arrivi finalmente a governare prepotentemente l'esigibilità del diritto alla salute, a cominciare dalla campagna anti Covid-19, che avrà (ahinoi!) vita lunga con tanti (troppi) ostacoli da superare.
Ettore Jorio
Università della Calabria