Gentile Direttore,
il referto in Patologia Clinica (Medicina di Laboratorio e Microbiologia) può essere definito il documento che esprime i risultati in riferimento alle loro interazioni reciproche, alla rilevanza rispetto alle possibili patologie, alla situazione del paziente e a considerazioni statistico/epidemiologiche. In esso possono essere presenti commenti interpretativi, suggerimenti per eventuali approfondimenti oltre che indicazioni cliniche diagnostiche e/o terapeutiche utili alla cura del paziente.
Nell’era icasticamente definita da Martin Heidegger del “pensiero calcolante”, la trasformazione di un numero o di un aggettivo binario (positivo/negativo) in informazione strategica ai fini della decisione è elemento fondamentale della disciplina. Se il referto non permette una decisione, probabilmente è poco significativo e, spesso, inutile.
In base a questi assunti, da anni il referto in Patologia Clinica si è arricchito, oltre degli ovvi intervalli di riferimento, di “valori decisionali” che permettono, ad esempio, con il dosaggio di glicemia ed emoglobina glicata di classificare un soggetto come diabetico o, con la misura della troponina ad alta sensibilità, di evidenziare un danno cardiaco fino all’infarto del miocardio. Inoltre, negli ultimi due decenni, si è tentato un salto di paradigma affinché il “Laboratorio Analisi” diventasse “Medicina di Laboratorio” e l’evidenza di questa trasformazione non è certo la semantica ma la presenza nel referto di commenti utili per facilitare l'interpretazione, indicare una diagnosi, suggerire approfondimenti e follow up basati sull’EBM o per rispondere ad un quesito (anche non esplicito).
La necessità di un referto strutturato che permetta l’assunzione di decisioni consapevoli da parte dei medici prescrittori è, nell’era della tecnica, necessario poiché la maggior parte degli esami di laboratorio non è parte del bagaglio di studi istituzionali universitari e quindi solo parzialmente, o completamente non conosciuti dai medici richiedenti. Ricordiamo solo che i test presenti nel Catalogo Veneto del Prescrivibile (CVP) sono 1920, numero che nessun Sapiens può gestire con le reti neuronali di cui è dotato.
Pleonastico è ricordare che un referto strutturato, oltre ai vantaggi per il singolo paziente, ha ricadute positive per contenere gli errori, migliorare l’appropriatezza, la conoscenza scientifica, l’applicazione dei PDTA e quindi, in ultima analisi, qualità̀ delle cure e sostenibilità economica e organizzativa del SSN e Regionale.
Questa, scusate, lunga premessa è necessaria per una sintetica domanda:
Il referto prodotto dai servizi di Patologia Clinica relativi all’analisi molecolare per SARS-CoV-2, risponde ai requisiti sopra esposti? Dall’analisi della maggior parte referti prodotti dai Laboratori italiani la risposta è no.
Infatti la maggior parte dei laboratori non esplicita quali geni sono ricercati e, soprattutto, non dichiara la politica sui cicli di amplificazione (Ct) della reazione PCR. In concreto non è scritto a quali Ct un tampone è classificato come negativo, positivo o debolmente positivo.
Ma a chi converrebbe, cui prodest, conoscere i Ct a fronte dei quali il laboratorio produce un aggettivo (positivo/negativo)?
E’ noto che la comunità scientifica è divisa sull’ opportunità o meno di esplicitare i Ct. Senza entrare nei dettagli e nel merito specifico, i contrari all’esplicitazione sottolineano come non esista standardizzazione per i valori Ct su piattaforme RT-PCR, rendendo difficile confrontare i risultati tra i diversi test. Non esiste uno standard per convalidare analisi quantitative che producono risultati comparabili tra laboratori. I valori Ct della PCR possono variare in modo significativo tra i test, anche quelli che utilizzano lo stesso gene target e molte sono le variabili preanalitiche che influiscono, per esempio il metodo di esecuzione del tampone, la fonte del campione, il trasporto e il tempo che intercorre tra l'infezione, la raccolta e l'analisi.
Inoltre non tutte le piattaforme diagnostiche possono produrre un valore Ct, oppure producono un risultato qualitativo frutto di algoritmi predefiniti della Ditta produttrice. Non esiste pertanto una convalida condivisa sull’utilizzo di Ct per guidare la gestione dei casi di COVID-19.
E’ altrettanto noto, tuttavia, che diversi autori evidenzino l’utilità di dichiarare la politica sui Ct poiché, se interpretata nel contesto, può aiutare nel processo decisionale. Ad esempio, ancora una volta senza addentrarci nello specifico, i Ct possono fornire informazioni sulla quantità di RNA virale nei campioni, particolarmente importante nel corso delle settimane di infezione e potrebbero condizionare le decisioni di revocare l'isolamento definendo un paziente come non più infettivo.
Un esame più approfondito del significato clinico dei risultati del test, in particolare quando i risultati provengono da quantità di RNA vicine al limite inferiore di rilevamento, potrebbe aiutare invece a guidare le strategie cliniche e di salute pubblica. Il valore Ct è inversamente correlato alla carica virale e, secondo alcuni autori, ogni aumento di circa 3 volte nel valore Ct riflette una riduzione di 10 volte del materiale di partenza. Alcuni test PCR comportano un cutoff Ct di 40 per considerare il test positivo, consentendo il rilevamento di pochissime molecole di RNA di partenza. Questa elevata sensibilità può essere utile per la diagnosi iniziale.
Tuttavia, la segnalazione come risultato binario positivo o negativo rimuove le informazioni utili che potrebbero informare il processo decisionale clinico e le politiche di isolamento. Dopo la completa risoluzione dei sintomi, le persone possono avere risultati positivi prolungati del test molecolare, po-tenzialmente per settimane. In questi momenti tardivi, il valore Ct è spesso molto alto, rappresentando la presenza di poche copie di RNA virale che potrebbe provenire da virus non vitali o inattivi o riconducibili a frammenti di RNA; in questi casi, i risultati vengono riportati al medico semplicemente come positivi.
Ciò lascia a quest’ultimo e ai SISP poca scelta, se non interpretare i risultati in modo non diverso rispetto a un campione di una persona altamente positiva e dove le copie di RNA possono arrivare fino a 100 milioni o più. Il virus vivo è spesso isolabile solo durante la prima settimana di sintomi ma non dopo il giorno 8, anche con test positivi. I pazienti i cui sintomi si sono completamente risolti e 2 test a distanza di 24/48 ore sono negativi o vicini a cuttoff Ct > 34, probabilmente non hanno una malattia significativa o trasmissibile, e quindi non è necessario ritestarli. Ciò permetterebbe di risparmiare reagenti e dispositivi di protezione individuale (DPI).
Inoltre, mantenere in isolamento pazienti in queste condizioni potrebbe pregiudicare l’esecuzione di altre prestazioni sanitarie, sia di prevenzione che cura, come ad esempio trattamenti oncologici non eseguiti su persone positive, incidendo sulla loro qualità e durata della vita. Infine, potrebbero esserci implicazioni per lo screening della salute pubblica, consentendo di concentrarsi sulle persone a bassi CT che hanno maggiori probabilità di essere infettive.
Ciò è sempre più importante con l’attivazione dei Covid-point ed espansione dello screening asintomatico. Infine, l’esplicitazione dei cicli nella polemica sulla sensibilità dei test/tamponi antigenici e conseguenti falsi negativi con tutti i risvolti, anche sindacali, della questione (molto accentuati nella nostra Regione), potrebbe portare alla discussione elementi più oggettivabili: ad esempio ben diverso è un risultato negativo al test antigenico che si rivela, ripetuto con test molecolare, a 38 Ct rispetto a una ripetizione a 28 Ct.
Senza entrare nella diatriba cicli si, cicli no, di sicuro i referti SARS-CoV-2 che abbiamo tra le mani contengono un risultato binario positivo/negativo frutto di una decisione
de facto univoca del Laboratorio basata su un cuttoff di Ct del quale non è concesso al clinico e ai SISP averne conoscenza.
Non possiamo non rilevare che alcune delle perplessità dei contrari alla trasparenza sui Ct sono criticità da decenni irrisolte nei test della Patologia Clinica senza che, per questo, i Laboratori non esplicitino valori decisionali e commenti diagnostici. Se infatti si è raggiunto una quasi totale standardizzazione e armonizzazione per alcuni esami, ad esempio il tempo di protrombina espresso in INR (International Normalized Ratio) per cui un utente che esegue un test a Rovigo o a Boston ha in pratica lo stesso risultato, gli stessi intervalli terapeutici e quindi la stessa decisione, ciò non vale per le decine di test immunometrici.
Il TSH, ad esempio, da decenni utilizzato per la valutazione della funzionalità tiroidea, come tutti i test immunometrici (test che utilizzano anticorpi che si legano a diversi epitopi di una proteina) è metodo e strumento dipendente per cui, nella stessa città, diversi laboratori possono fornire risultati diversi: è per questo che è sempre consigliabile, e potrebbe valere anche per SARS-CoV-2, eseguire test immunometrici sempre nello stesso laboratorio per poter confrontare i risultati nel tempo. D’altro canto anche per test semiquantitativi refertati in modo qualitativo, come alcuni test tossicologici (ad esempio droghe d’abuso), ciò non esime i laboratori, per “facilitare” l’interpretazione clinica, a dichiarare il cuttoff al di sopra del quale il test è refertato come positivo.
Anche il fattore tempo, metodo di raccolta e trasporto, additati come fattori che non permetterebbero la dichiarazione del Ct, non sono certo fasi del processo esenti da criticità nelle prestazioni di laboratorio che vedono infatti in queste variabili preanalitiche la principale fonte di errore e che pertanto affliggono anche i test refertati in modo dicotomico.
Ogni malattia infettiva, come scrive Richard Ostfeld, è di per sé un ecosistema, e l’ecologia è un sistema complesso. Siamo quindi consci dell’impossibilità di arrivare a conclusioni definitive in una patologia e diagnostica che compiono in questi giorni il primo anno. Siamo tuttavia dell’opinione che la conoscenza e, conseguentemente, la consapevolezza della complessità irriducibile della questione in gioco, forniscano, in ogni caso, vantaggi alla comunità scientifica e, in generale, ai sistemi sanitari e ai cittadini che ad essi si rivolgono.
Alessandro Camerotto
UOC Medicina di Laboratorio, AULSS 5 Rovigo
Valentina Muraro
UOC Medicina di Laboratorio, AULSS 5 Rovigo
Anna Mazzetto
Università di Padova- Pharmaceutical Biotechnologies
Andrea Sartorio
UOC Cure Primarie, AULSS 5 Rovigo