Gentile Direttore,
il dibattito sulla sanità che verrà sembra incagliato tra la ebbrezza dei miliardi del Recovery fund da spendere, quando arriveranno, e la margherita del Mes da sfogliare. Di fatto, non c’è un progetto di sistema ma solo una lista della spesa, tanto facilmente condivisibile quanto vaga nelle declinazioni di dettaglio.
Rimarremmo, però, vittime di un effetto ottico, e di un difetto di logica, se pensassimo solo a come spendere,anche perché il Recovery fund riguarda il futuro e sul Mes non ci sono certezze, mentre ciò che interessa i medici è il presente.
Se ribaltiamo la narrazione spostando l’attenzione, come nella migliore letteratura gialla, da quello che c’è a quello che non c’è nella lista dei desideri, salta agli occhi l’assenza di un elemento centrale, quasi un prerequisito, in un sistema complesso, quale la sanità. Neppure tra le cinque “tracce fondamentali”, citate dal Ministro della Salute in una recente intervista a
Il Messaggero, compare il personale, e le questioni relative a quel capitale umano che delle organizzazioni complesse rappresenta la maggiore risorsa.
Un ospedale non è, infatti, il ponte di Genova, opera straordinaria ma finita dopo il collaudo. Un ospedale rappresenta un contenitore che va riempito da chi, come i medici, in quei luoghi fisici vive e lavora fino ad identificarsi in essi, al pari delle comunità locali. Oggi i medici ospedalieri sono una risorsa tanto preziosa quanto scarsa, visto che nemmeno l’epidemia è riuscita a riempire i vuoti provocati nell’ultimo decennio, se non per il 50%, al Nord prevalentemente e prevalentemente all’insegna del precariato.
Sembra mancare nel Governo la consapevolezza che la crisi della sanità pubblica si sovrappone e si confonde con la crisi del medico pubblico, sull’orlo di un burnout che lascia spazio solo alla fuga, verso l’estero per i giovani e verso il privato per i meno giovani. Senza soluzioni alla seconda non c’è futuro possibile per la prima. Questo è lo scatto che serve alla sanità, un’innovazione profonda dell’organizzazione e della governance per valorizzare il capitale umano.
Se niente sarà come prima, per il personale dipendente del SSN, sospeso su un passato che non vuole passare, tutto rischia di essere peggio di prima, non rappresentando una priorità, nemmeno ora. Ma senza personale i presidi ospedalieri di cui tutti parlano, anche i privati, sono destinati ad essere quinte teatrali, le nuove tecnologie sulle quali si vuole investire elementi di arredo, il territorio puro riferimento geografico.
Eppure, si sono perse le tracce delle cause, organizzative ed ordinamentali, della crisi del capitale umano, senza nemmeno il cartello” stiamo lavorando per voi”. Non si vedono per medici e dirigenti sanitari, a differenza di quanto accade per altri, provvedimenti legislativi che disegnino una rotta nuova, per la quale non servono risorse economiche ma una merce altrettanto preziosa, per quanto più accessibile, come la volontà politica. Perche la crisi del medico pubblico non è effetto solo del de-finanziamento, ma anche della de-capitalizzazione.
Nessuno poteva anche lontanamente immaginare che il ruolo dei professionisti della salute avrebbe subito l’attuale deprezzamento, una condizione di immiserimento culturale e professionale che espropria il medico della post modernità della sua professione, svilita in merce e bene di consumo, nel trionfo della “medicina di carta”. La rivoluzione copernicana di cui parla il Ministro deve partire da qui ed ora, sull’esempio del governo francese che ha messo in campo cambiamenti ad effetto immediato, tra i quali aumento degli stipendi del personale e forme di governance partecipata delle Agenzie regionali della salute.
Per “separare il passato dal futuro” (Boccia) occorre intervenire su molti temi. Alcuni di sistema, quali gli assetti istituzionali, cioè i correttivi al federalismo imperante, anche nella versione moderna dell’autonomia differenziata, resi necessari dal fatto che la parola “nazionale”, dopo servizio sanitario, ha già compiuto metà della strada verso il dimenticatoio ed i guasti prodotti dalla legislazione concorrente e dalle diseguaglianze nella esigibilità di un diritto unico ed indivisibile quale quello alla salute, sono evidenti. Questo significa anche pensare a luoghi in cui il lavoro e le professioni del SSN abbiano voce nei confronti delle scelte di politica sanitaria, sul modello di quel consiglio sanitario nazionaleprevisto dalla L.833 come soggetto terzo, dal punto di vista istituzionale, tra Stato e Regioni.
E il destino della sanità del Sud, aspetto nuovo di una questione vecchia, che richiede nuovi criteri di equilibrio nel riparto del FSN, come promesso dal Ministro, evitando anche la beffa di una ulteriore penalizzazione prodotta dalla nuova griglia di valutazione dei LEA. Ma non sarà facile convincere i molti “Rutte” esistenti, qualcuno dei quali ha già dichiarato che il Sud deve aspettare (Godot?). Senza dimenticare la formazione medica post laurea, vera emergenza nazionale, ed il neocolonialismo delle Scuole di medicina, che stanno moltiplicando i corsi di laurea per occupare il mondo ospedaliero, con il favore delle Regioni, cui rimangono gli oneri economici.
Se queste tematiche interessano il sistema sanitario nel suo complesso, altre questioni riguardano, in maniera specifica e diretta, i medici ed i dirigenti sanitari dipendenti. Per i quali c’è non solo da assicurare “l'elaborazione di politiche volte a rimuovere gli impedimenti alla formazione, all’assunzione e al mantenimento in servizio” che chiede la UE. Ma anche ridiscutere ruolo, stato giuridico, modalità di reclutamento e di retribuzione, modelli organizzativi. E completare la L. 24/2017 sulla responsabilità professionale, con il passaggio ad un sistema “no fault” sul modello europeo, rimediando alla latitanza dello “scudo covid” promesso.
Per quanto riguarda lo stato giuridico, il medico e il dirigente sanitario dipendente è oggi, nel calderone della Pubblica Amministrazione, un impiegato di concetto, non un professionista al servizio dello Stato. Occorre rivedere ed accentuare fortemente il carattere “speciale” della dirigenza del S.S.N., delineato dall’art.15 del Dlgs 229/99.
Una dirigenza speciale, rafforzata nella sua autonomia, sia nel profilo professionale che gestionale, e nella peculiarità della “funzione” sanitaria svolta a tutela di un bene costituzionale rappresenta il superamento di uno status che ha mostrato la sua assoluta inadeguatezza.
E l’attuale modello di governance, di fatto un potere assoluto monocratico su cose e persone, ha prodotto la lacerazione del rapporto tra professionisti ed istituzioni sanitarie, due universi, diversi e distinti, di valori e di vocazioni che la cultura aziendalista non è riuscita a saldare. Il processo di aziendalizzazione, che continua solo per ordine di servizio, di fatto è fallito senza migliorare la qualità del servizio reso, vittima anche dell’invadenza pervasiva della politica che ha favorito il ramificarsi di interessi clientelari e spartitori ai quali subordinare anche il riconoscimento del merito e delle competenze professionali.
L’attrazione fatale verso modelli di organizzazione del lavoro di derivazione industriale, anche senza evidenza di maggiore efficacia ed efficienza, ha,poi, trasformato gli ospedali in organizzazioni votate al puro controllo dei fattori di produzione, medici e dirigenti sanitari compresi, e dei relativi costi, missione principale, se non unica, di Aziende sanitarie divenute OGM. Ed i medici in prestatori di opera, privati del controllo su prerogative importanti della professione,come i suoi contenuti,la autonomia e la responsabilità.
La complessità del mondo sanitario non può, in sostanza, essere governata con i soli strumenti della cultura aziendalista, usati anche con non celate forme di autoritarismo, escludendo dai processi decisionali le categorie professionali per costruire maxi aziende con mini medici. Ripensare l’attuale governance significa introdurre forme di partecipazione a modelli organizzativi ed operativi che non chiedano ai medici di tirarsi fuori dai codici etici e deontologici, per reclutare le intelligenze professionali tutte sull’obiettivo di “promuovere, mantenere e recuperare la salute fisica e psichica della popolazione”.
Se la criticità principale del SSN oggi è la destrutturazione del lavoro e il peggioramento delle condizioni in cui viene svolto, con il dilagare della medicina difensiva, la riduzione degli spazi di umanizzazione, la compressione dei tempi di relazione che sono tempi di cura, la caduta dei livelli di sicurezza delle cure per operatori e cittadini, occorre una riscrittura del lavoro medico e sanitario. Per recuperare un ruolo professionale coerente con il suo compito primario che è la tutela della salute dei cittadini, e ricostruire un sistema che privilegi, anche nei meccanismi di progressione di carriera, valori professionali rispetto a quelli organizzativi.
Inutile un vestito nuovo per cose vecchie. Occorre sottrarre medici e dirigenti sanitari al ruolo di mero fattore produttivo per utilizzare il loro “sapere” anche in funzione della mitica appropriatezza e del controllo dei costi, come parte della “soluzione” e non del “problema”. Che senso ha investire in ricerca se ai ricercatori si offre solo un precariato stabile mortificante dal punto di vista giuridico ed economico? Che senso ha destinare ingenti risorse all’edilizia ospedaliera se non si rende attrattivo il lavoro medico negli ospedali?
Non basteranno le archistars se non si comprende che il lavoro dei medici del SSN reclama un diverso valore, anche salariale, diverse collocazioni giuridiche e diversi modelli organizzativi che riportino i medici, e non chi governa il sistema, a decidere sulle necessità del malato. La questione, come si vede, non è riducibile alle sole infrastrutture, ma richiede una forte e credibile visione politica che utilizzi innovative forme, e strumenti, di concertazione, non solo istituzionale.
Insomma, i soldi servono, ma non sono tutto. Abbiamo le risorse per un piano Marshall della sanità pubblica ma non, ancora, un piano per i medici pubblici. Che oggi, finita la retorica degli angeli e degli eroi, sono tornati nell’invisibilità politica con i problemi di sempre, accentuati. Tanto che un dirigente sindacale ligure, lamentando l’eterna carenza di organico, così conclude un’intervista: ”Ci sono condizioni sotto le quali non si può andare. E siamo già oltre quel limite. Vogliono chiudere? Chiudano. Ma abbiano il coraggio di dirlo”.
Lavorare in ospedale non deve essere una sofferenza per chi garantisce i LEA con conoscenze e competenze che, spesso, fanno la differenza tra vita e morte, tra malattia e salute. Ma si sappia che il disagio crescente dei professionisti e la crisi di fiducia dei cittadini nell’affidabilità del sistema sanitario rappresentano un combinato disposto in grado di eroderne la sostenibilità, quali che siano le risorse investite.
Costantino Troise
Presidente Nazionale Anaao Assomed