Dalle ipotesi simulatorie di piano di riparto del Mes tra le Regioni, in circolazione in questi giorni negli ambienti parlamentari e governativi, arriva la risposta agli interrogativi che ci eravamo posti su questo Quotidiano. Essi riguardavano i metodi che avrebbero determinato le somme da destinare ai singoli servizi sanitari regionali, sperando che in un siffatto intervento fossero rispettati due criteri: quello di tenere conto degli ammonimenti rappresentati nel Rapporto 2020 sulla finanza pubblica della Corte dei conti e quello più autenticamente perequativo, votato a conseguire l'uguaglianza dei diritti sociali. Entrambi comunque finalizzati a colmare l'esigenza riorganizzativa dell'assistenza territoriale, che ha costituito il vero vulnus nel percorso di resistenza sanitaria all'iniziale espandersi del coronavirus.
Grave perdere tempo e occasioni favorevoli
A fronte di tale irrinunciabile necessità, si registrano nella politica tante e troppe perplessità addirittura a fare propri i 37 miliardi di euro resi disponibili dall'UE per mettere riparo ad alcune delle falle apertesi con l'avvento della epidemia Sars-Covi-2. In alcune regioni (Lombardia, in primis), queste hanno assunto le sembianze delle voragini; in altre (prevalentemente il Sud) si sono limitate a piccole fessurazioni.
Sta di fatto che, a seguito dell'epidemia, è emersa la necessità di rimediare ad una idea di erogazione della salute dimostratasi, nell'occasione, alquanto precaria ad affrontare gli «attacchi» della natura. Quelli che la stessa oramai effettua da anni nei confronti dell'umanità attraverso armi letali (prioritariamente nuovi virus), nei confronti dei quali si fa davvero fatica a rintracciare tempestivamente trattamenti vaccinali e/o farmacologici efficaci.
Il rimedio deve essere tempestivo e radicale
Tutto questo ha fatto emergere una debolezza non solo organizzativa e sistemica ma anche strutturale. Errata la programmazione, fondata sulla ospedalizzazione esasperata e su una assistenza distrettuale realizzata più sulla carta che nella concretezza.
Del resto, un territorio pieno zeppo di brecce incustodite - perché sguarnito dei presidi e degli operatori dedicati alla prevenzione e alle cure primarie, sulle quali è da tempo oramai inesorabile constatare una insopportabile trascuratezza nel mantenere in piedi un sistema della medicina convenzionata da rivedere dalle fondamenta - non poteva fare altro che arrendersi di fronte al diffondersi del virus nella società civile. Il tutto con conseguente impreparazione del sistema ospedaliero a rappresentare la successiva soluzione occorrente. Una debolezza, quest'ultima, causata dal progressivo ridimensionamento delle vecchie specialistiche che nell'evenienza sarebbero tornate molto utili (pneumologia, malattie infettive) e delle nuove offerte di spedalità emergenziali (rianimazioni, terapie intensive e semi intensive).
Si spera che a perdere siano gli errori di sempre
Dunque, di fronte ad un sistema sanitario nazionale da riparare, meglio da rifondare, diventa quantomeno irresponsabile perdere tempo nel fare propri i 37 miliardi di risorse europee, peraltro a condizioni finanziarie palesemente favorevoli. Una irresponsabilità che diventa «delitto» solo che si tengano nella giusta considerazioni le grandi differenze assistenziali che si registrano sul territorio nazionale. Un Sud graziato dal Covid-19 per tutela divina, ove il relativo diritto non è affatto esigibile. Il resto del Paese colpevole di avere sbagliato nel privilegiare l'offerta ospedaliera più elevata sul piano qualitativo (e quindi anche più retribuito attraverso i DRG più consistenti) a discapito della tutela della salute diffusa sul territorio, tanto da renderlo povero di efficienti presidi intermedi e alternativi al ricovero.
L'auspicio e le preoccupazioni
In relazione a tali premesse e incongruenze si profila, pertanto, un impegno oltre misura della politica a programmare cosa e come finanziare per costruire il nuovo sistema sanitario nazionale, utilizzando al riguardo i fondi MES utilmente rimpinguati da altre risorse nazionali ovvero, se possibili, da quella parte a fondo perduto individuabile del Recovery Fund.
Le dimostrazioni registrate in questi giorni dimostrano tuttavia un impegno non propriamente adeguato in tal senso. L'ipotesi del piano di riparto in circolazione del MES costituisce la dimostrazione di come la politica suppone di risolvere i grandi problemi, che affliggono e lasciano in costante pericolo l'unità sostanziale del Paese, con una smazzata delle carte, da mediare nella conta dei risultati finali.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum
Non è così. Quindi, sarebbe del tutto errato il ricorso al teorizzato riparto del MES fondato sugli stessi criteri utilizzati annualmente per dividere tra le Regioni/PA il Fondo sanitario Nazionale. Sarebbe la reiterazione dello stesso errore che ha condotto ad una sanità a macchia di leopardo, quella che caratterizza il nostro SSN. Un metodo sbagliato e peraltro obsoleto che dovrebbe essere sostituito da ben oltre nove anni dalla metodologia dei costi e fabbisogni standard, ampiamente perequati, per come sancito dalla Costituzione (art. 119).
Il MES rappresenta lo strumento straordinario di finanziamento per cambiare l'esistente.
Ed è qui che occorre che si evitino le solite frasi fatte che circolano sui tavoli dei palazzi e si dia spazio alla programmazione epidemiologica in senso stretto, nel senso che a destinare le risorse sia unicamente il fabbisogno reale da soddisfare.
Ma si sa, lavorare così richiede impegno e tempo. Due elementi non propriamente di casa nelle sedi dei partiti e, dunque, in quelle istituzionali chiamate a decidere, ma di questi tempi sempre più abituate a vendere sogni. A loro bastano le enunciazione dei grandi temi passati come riforme, salvo poi lasciare le cose così come sono, praticamente spesso nel nulla.
L'unica metodologia corretta sarebbe quella di dividere le risorse che l'UE mette a nostra disposizione sulla base degli indici di deprivazione socio-economici e culturali. Quelli che distinguono spesso in negativo una larga parte del Paese, a secco di diritto alla salute da sempre.
Ettore Jorio
Università della Calabria