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QS Edizioni - domenica 22 dicembre 2024

Studi e Analisi

Il lavoro in sanità. “Oltre” il pubblico ma “nel” pubblico

di Ivan Cavicchi
immagine 12 giugno - La sanità per ovvie ragioni deve restare pubblica ma siccome le ideologie stataliste nuocciono alla sua complessità si tratta di rispondere in modo nuovo rifiutando sia il super-statalismo che la privatizzazione, tentando di definire un altro genere di pubblico quindi un altro genere di ordinamento giuridico. Anche per il personale. Ma come?
La domanda alla quale vorrei tentare di rispondere è: dopo che abbiamo ridefinito una teoria del valore del lavoro, ricapitalizzato il lavoro, ristrutturato le retribuzioni, dedotto l’operatore dall’opera, quale operatore? Quindi quale norma giuridica serve per definirlo?
 
La nazionalizzazione della sanità
Con la grande riforma del 1978 in pratica si è dato corpo alla nazionalizzazione della sanità, cioè lo Stato in prima persona si è assunto la proprietà dei servizi sanitari. All’indomani della nascita del SSN a partire dal dpr 761, tutti gli operatori della sanità provenienti da più parti, dal parastato, dagli enti locali, perfino dall’associativismo privato, diventano dipendenti pubblici dello Stato per cui diventano tutti lavoratori subordinati o tutti dipendenti dello Stato.
 
Il lavoro subordinato o altrimenti detto lavoro dipendente:
• non indica solo un rapporto di lavoro, nel quale, il lavoratore cede la propria opera ad un datore di lavoro, in cambio di una retribuzione, cioè uno scambio,
• ma indica, prima di tutto, quella che marxianamente potremmo definire la condizione di subordinazione, nella quale e grazie alla quale l’opera è prodotta.
 
Tutti i dipendenti dello Stato grazie al dpr 761, dai medici ai portieri, condividono da 40 anni giuridicamente tutti la stessa condizione di subordinazione.
Ma avere la stessa condizione di subordinazione, in generale, restando alla concezione marxiana, significa essere sottoposti tutti ad una comune ideologia quella del datore di lavoro che usa il lavoro subordinato per raggiungere i suoi scopi.
 
Attenzione, in senso marxiano, le ideologie, non vanno intese come delle convinzioni politiche personali o delle visioni del mondo, ma sono semplicemente le sovrastrutture culturali sociali e giuridiche che sovraintendono il lavoro.
 
L’ordinamento giuridico quale ideologia
Quindi dire che, tutti i lavoratori subordinati dello Stato, dal medico al portiere, anche se suddivisi in ruoli, tabelle, posizioni funzionali, sono subordinati alla stessa ideologia significa quattro cose che:
• tutti costoro sono subordinati ad una comune “ideologia” cioè ad un comune ordinamento giuridico,
• l’ordinamento giuridico è un certo tipo di ideologia statale di tipo burocratico,
• tale ideologia per sur-determimazione condiziona l’operatore e quindi la sua opera,
• tutte le professioni anche le più diverse sono sur determinate nello stesso modo giuridico.
 
Ricordando ancora che ideologia significa sovrastruttura e sur determinazione, come ci ha spiegato Althusser, significa l’azione della sovrastruttura sul lavoro, quattro punti di riflessione:
• un medico dipendente a parità di malato non è lo stesso di un medico libero professionista. L’opera nei due casi sarebbe subordinata a due ideologie diverse quella statale e quella privata quindi sur determinata in modo diverso,
 
• sur determinare due professioni incomparabili come il medico e il portiere, nello stesso modo giuridico, è un errore fatale tant’è che mentre esiste la “questione medica” non esiste quella del portiere,
 
• siccome la sur determinazione condiziona l’opera e l’opera in sanità è diversissima allora il tipo di subordinazione deve essere adeguata all’opera e quindi all’operatore. Per cui il medico e il portiere non possono avere la stessa condizione di subordinazione cioè la stessa regola di subordinazione,
 
• regolare la condizione di subordinazione all’opera significa semplicemente regolare il grado di autonomia di una professione che il datore di lavoro dovrà rispettare nonostante il rapporto di subordinazione.
 
L’alterità negata
In pratica il personale della sanità pur avendo, da sempre, indubbie e innegabili specificità è stato nonostante ciò incorporato assimilato e omologato dentro gli ordinamenti giuridici dello Sato fino ad estendere ad essi la condizione di subordinazione tipica della pubblica amministrazione.
 
Detto in un modo diverso, il lavoro subordinato in sanità è stato a sua volta subordinato all’ideologia della pubblica amministrazione. Cioè burocratizzato. Si potrebbe dire, usando il sindacalese, che la sanità nonostante la sua eccezionale complessità è stata “appiattita” ad una burocrazia, quella statale che per sua natura è estremamente semplificante.
 
Oggi, per non farla lunga, è innegabile che quella “ideologia statale” con la quale, sino ad ora, abbiamo definito il lavoro subordinato in sanità di fronte alla complessità e alla peculiarità della medicina e della sanità, si sta rivelando un grosso problema e un mostruoso anacronismo ma anche una eclatante ingiustizia.
La burocrazia appiattisce ciò che in sanità non può essere appiattito. Oggi si tratta di rifiutare la dicotomia pubblico/privato che ci propongono tanto i finti riformatori che vogliono statalizzare di più, gli stessi che ad esempio vogliono riconvertire i convenzionati in dipendenti, che i contro-riformatori che vogliono semplicemente privatizzare di più.
 
La sanità per ovvie ragioni deve restare pubblica ma siccome le ideologie stataliste nuocciono alla sua complessità si tratta di rispondere in modo nuovo rifiutando sia il super-statalismo che la privatizzazione, tentando di definire un altro genere di pubblico quindi un altro genere di ordinamento giuridico. Ma come?
 
Si può essere lavoratori pubblici senza essere statalisti?
Molti conoscono, almeno credo, la mia proposta di “autore” e proprio per questo non perderò tempo a ridescriverla , vorrei solo richiamare alcuni suoi significati politici importanti.
 
L’autore, è un modo per ridefinire chi lavora in sanità:
• restando pubblico ma senza essere inutilmente statalisti,
• riformando la sua condizione di subordinazione senza diventare un libero professionista,
• emancipandolo dalle ideologie burocratiche,
• facendolo guadagnare ciò che merita la sua opera.
 
Tempo fa su questo giornale, a proposito dei medici convenzionati che secondo alcuni dovrebbero diventare pubblici, è stata data un’interpretazione della mia proposta di “autore”, visibilmente distorta dal pregiudizio e dalla malafede, che la riduceva ad una sorta di privatizzazione simile al “caporalato” (sic)
 
Queste interpretazioni sono baggianate che non danno nessun contributo costruttivo alla discussione pur dicendoci molto sui baggiani che girano a piede libero in sanità.
 
L’autore, è un dipendente pubblico, con un particolare rapporto di subordinazione nel quale sono previsti ampi gradi di autonomia e ampi gradi di responsabilità, pagato con un normale salario tabellare e magari pure con qualche indennità ma con in più un importante salario discreto, cioè un salario che dipende assiologicamente dai valori che la sua opera produce.
 
Quanto ai medici convenzionati prendo la palla al balzo per dire che già ora essi sono di fatto dipendenti pubblici, anche se pagati attraverso una convenzione, per cui sostenere che essi devono diventare pubblici, significa sostenere che essi devono diventare statali per pagarli con il contratto della dirigenza.
 
A questo punto avanzo la domanda dalle 100 pistole: si può essere lavoratori pubblici ma senza essere necessariamente lavoratori statali?
 
Rammento a tutti che “pubblico”:
• è semplicemente un ambito a cui appartengono o si riferiscono i diritti o gli interessi di una collettività civilmente ordinata,
• coincide con comunità per cui se la comunità è intesa come totalità sociale allora pubblico vale soprattutto come interesse sociale.
 
Ripeto la domanda: un medico, o un infermiere, nell’interesse primario del malato, possono essere pubblici ma senza essere subordinati a sovrastrutture burocratiche?
 
Le professioni impareggiabili
L’autore rispetto a tutte le professioni pubbliche, è una professione giuridicamente unica. Se nella sanità prevalgono gli autori allora la sanità è una categoria giuridicamente unica. E’ proprio questa unicità che a dispetto degli appiattimenti, deve essere riconosciuta ripensando gli ordinamenti che la negano.
 
Definisco l’autore come una figura giuridicamente impareggiabile.
 
Se in sanità prevalgono le professioni impareggiabili allora la sanità costituisce una categoria impareggiabile.
 
Ma in quanto tale essa deve avere:
• un ordinamento giuridico a sua volta impareggiabile,
• una retribuzione pure impareggiabile (ovviamente).
 
Chi ci propone la categoria speciale ma a ordinamento invariante ci prende per i fondelli. La sanità per costoro dovrebbe diventare una “categoria speciale” solo perché al suo interno ha tante professioni. La sanità non è per niente una categoria speciale, perché se basta avere tante professioni allora sono molte le categorie speciali sulla terra, ma è una categoria unica o come preferisco dire io impareggiabile.
 
A rendere, la sanità, impareggiabile “è una persona particolare che si trova solo nella sanità e che si chiama “malato” e che a sua volta costringe con la sua irriducibile complessità, a sua volta unica, tutti coloro che hanno a che fare con lui ad essere a loro volta unici in ogni senso.” (QS 27 maggio 2020)
 
Quindi la sanità è una categoria impareggiabile perché il suo lavoro è impareggiabile e perché a rendere impareggiabile il suo lavoro è il malato, quindi per metonimia, la società committente.
 
Ebbene, in un quadro di riforma, credo che sia ora, dopo 40 anni di oppressione burocratica, che il lavoro in sanità sia giuridicamente riconosciuto come lavoro impareggiabile.
 
Il recupero delle differenze, basta appiattimenti giuridici

Si fa presto a dire che serve un ordinamento impareggiabile per gli autori, la prima difficoltà che sorge è che in sanità non tutti sono autori. I 4 ruoli del dpr 761 si potevano sintetizzare già 40 anni fa, semplicemente in due blocchi: coloro che hanno a che fare con i malati e coloro che hanno a che fare con altro.
 
Ma siccome come ho detto nell’articolo precedente (QS, 8 giugno 2020) a proposito di domanda aggregata, nel 761 il malato non esiste per l’ideologia statale la distinzione resta impossibile. Le uniche distinzioni possibili sono quelle burocratiche.
 
Tuttavia è innegabile che un medico abbia un rapporto diretto con il malato, e un impiegato dell’amministrazione no.
Ma se è così che senso ha sottoporre qualifiche che hanno rapporti con il malato e altre che non ne hanno alla stessa condizione di subalternità?
 
E’ evidente che chi ha che fare con il malato avrà bisogno, per esempio di un grado di burocrazia minore, rispetto a chi per il lavoro che fa al contrario non può prescindere dalla burocrazia.
 
Avere un margine di burocrazia in meno sul piano giuridico vuol dire avere un margine di libertà decisionale maggiore, quindi una relativa autonomia che non sempre è compatibile con il rapporto di subalternità.
 
Gran parte della “questione medica” nasce dalla crescente incompatibilità tra una esigenza di autonomia professionale e il rapporto di subordinazione del medico nei confronti dell’azienda.
 
Siccome l’impareggiabilità in sanità è data dal malato allora il grado di impareggiabilità delle professioni è diverso da professione a professione, perché non tutte le professioni hanno un rapporto con il malato e non tutte le professioni hanno lo stesso rapporto con il malato.
 
Il medico, l’infermiere, l’ostetrica, il tecnico di radiologia, e il tecnico di laboratorio, l’assistente sociale, hanno tutti rapporti con il malato ma chi più e chi meno, allora come faccio a garantire a tutti costoro condizioni diverse di subalternità? Cioè gradi diversi di libertà da quella burocrazia alla quale essi sono sottoposti? Quindi andando sul pratico: come faccio, pur dentro un rapporto di suburdinazione a garantire gradi diversi di autonomia, di autogoverno, di responsabilità e soprattutto di libertà decisionale?
 
Il lavoro burocraticamente libero
Come fare? Si tratta di riformare la logica super-burocratica che dal 761 sopravvive ancora oggi nell’ordinamento, quella che moltiplicava le differenze giuridiche tra le professioni ma a condizioni di subalternità uguali per tutti. Per il dpr 761 nessuno nello svolgimento del proprio lavoro aveva giuridicamente la libertà di essere “bureaucracy free”.
 
Ma come si fa, come lavoratori subordinati, ad essere burocraticamente liberi? La risposta ovvia che viene è fare in modo di essere meno subordinati, cioè meno dipendenti. Ma come?
 
La soluzione a questo problema potrebbe venire dall’uso di certe logiche (che vi risparmio per brevità), ancora del tutto estranee alla pubblica amministrazione e al sindacato, con le quali si ammettono nella stessa realtà semplicemente più valori di verità quindi più gradi di un qualche valore accettando di disciplinarli giuridicamente come tali tenendo conto delle loro differenze. Sembra l’uovo di Colombo e probabilmente lo è.
 
Immaginiamo di voler misurare il grado di impareggiabilità di una professione, quindi il peso che ha il malato, nel suo lavoro. Si dia un gradiente di impareggiabilità da 0 a 1 misurato con un algoritmo di facile costruzione che misuri la complessità assiologica della sua opera, il rapporto tra autonomia e responsabilità, i suoi risultati, la sua retribuzione media, ecc, ebbene la professione che sarà 1 sarà davvero impareggiabile, quella che sarà 0 non sarà impareggiabile per niente. Quella 0.5 sarà quasi impareggiabile.
 
Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo
Misurare il grado di impareggiabilità di una professione con gli strumenti che oggi l’intelligenza artificiale ci mette a disposizione, non è difficile come si potrebbe pensare. Oggi correlare in un algoritmo una decina di variabili, è un gioco da ragazzi.
 
Un algoritmo che misuri il grado di impareggiabilità di una professione serve prima di tutto a dare applicazione a quella famosa massima del vangelo “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”.
 
Quindi:
• retribuire prima di tutto il grado di impareggiabilità in modo adeguato,
• definire ad hoc le caratteristiche uniche del rapporto di subordinazione,
• riconoscere giuridicamente il grado di libertà necessario di chi lavora anche in un rapporto di lavoro subordinato.
 
Superando così ogni improprio appiattimento
 
Il vero rivoluzionario è il malato
Vorrei solo far notare di striscio che il primo a guadagnare dal riconoscimento giuridico dell’impareggiabilità è proprio il malato, il cittadino, questa società, perché in base alla più semplice regola transitiva se riconosco l’impareggiabilità di chi cura allora vuol dire che riconosco l’impareggiabilità di chi è curato.
 
Badate, che basta mettere il malato negli ordinamenti giuridici che regolano il lavoro per riformarli anche radicalmente. Nulla di più.
 
Conclusioni
Non solo per evidenti ragioni di spazio ma anche per riflettere con calma sul percorso fatto, le conclusioni, le rimando al prossimo articolo.
 
Ivan Cavicchi
12 giugno 2020
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