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QS Edizioni - lunedì 25 novembre 2024

Studi e Analisi

Agganciare la retribuzione in sanità al valore di quello che si fa

di Ivan Cavicchi
immagine 8 giugno - Se negli ordinamenti che definiscono la retribuzione, oltre alle condizioni giuridiche che definiscono chi lavora, si prevedessero dei criteri in grado di riferire sulle caratteristiche dell’opera, delle prassi e dei loro effettivi risultati, allora sarebbe possibile incrementare e non di poco le quantità retributive finali
Ribadisco il punto politico: in sanità si potrebbe guadagnare più di quello che si guadagna ora, solo se riformassimo l’ordinamento giuridico che oggi regola la retribuzione, smettendola una volta per tutte con il “gioco dei quattro cantoni” e di accontentarci delle “mollichelle”.
 
Retribuzione e profitto
Il ripensamento che serve è senz’altro paradigmatico e deve essere congegnato, non tanto in ragione di una, inammissibile, teoria della cupidigia, promettendo ai lavoratori chissà quali guadagni, ma in ragione di:
• una precisa idea politica di ricapitalizzazione del lavoro,
• una nuova teoria del valore del lavoro.
 
Idea e teoria che, attualmente, nonostante la buona volontà dei nostri volenterosi sindacalisti e dei numerosi finti riformatori, manca del tutto nel nostro dibattito.
 
Ma andiamo avanti con il ragionamento: chiarito che il valore del lavoro non può che dipendere pragmaticamente dall’opera prima ancora che dall’operatore, tanto il lavoro che le retribuzioni, si possono rispettivamente ricapitalizzare il primo e accrescere in modo significativo, le seconde, solo se il valore del lavoro produce altri valori.
 
Se il lavoro non produce un surplus di valore traducibile in una quantificazione di risorse, non potrà essere in alcun modo ricapitalizzabile.
Vorrei chiarire che per “ricapitalizzazione”, nel nostro caso, non intendo tanto un semplice aumento di capitale, per esempio l’assunzione di operatori, quindi la crescita del costo del lavoro, tout court, ma un vero e proprio accordo politico di mutual benefit, tra i sindacati e governo, per la rivalutazione e il riuso del lavoro.
 
In base ai valori, contrattualmente definibili, ci si accorda di considerare il lavoro anche come un capitale retribuendolo con la crescita delle retribuzioni ma considerando tale crescita, di fatto, come una “sorta” di profitto più che la classica indennità di risultato. L’ammontare di questa “specie” di profitto deriverebbe semplicemente dalla differenza tra la crescita di certi valori e la decrescita di altri. Se il lavoro è un capitale allora la retribuzione, almeno una parte di essa, deve essere considerata come se fosse un profitto. Se come dicono tutti chi lavora deve partecipare al governo della sanità allora necessariamente si deve entrare nella logica dello shareholder, o se si preferisce dell’azionista, e quindi nuovamente in quella di una specie di profitto. 
 
Un accordo del genere dovrebbe definire gli ordinamenti giuridici, quindi i valori da produrre, le condizioni e i modi per produrli, le retribuzioni in base ai valori prodotti.
 
La creazione del valore quale ricapitalizzazione
La condizione imprescindibile per ricapitalizzare il lavoro ribadisco è il mutual benefit, quindi valori in cambio di retribuzioni.
Ma, attenzione, non nel senso banale del do ut des cioè di un semplice scambio di vantaggi, questo già si fa, ma in quello proprio del finanziamento del valore.
 
Perché il vero problema della ricapitalizzazione è il suo finanziamento. Dove troviamo le risorse per ricapitalizzare?
A lavoro invariante l’unico modo per fare la ricapitalizzazione è quello corporativo: si tratta con le buone di convincere il governo a mettere più soldi sui contratti e a scaricare la crescita del costo del lavoro sulla spesa pubblica e chi si è visto si è visto. Eventualità che considero, valutando l’andamento dell’economia, altamente improbabile e quindi da scartare.
L’unica strada praticabile, ammetto non facile, è quella del mutual benefit, quindi quella della commutazione di valori in valori.
 
La domanda aggregata
Per ricapitalizzare il lavoro bisogna accrescerne non solo il valore economico ma anche quello sociale. Perché oggi essi sono praticamente inseparabili. Parliamo di sanità, quindi di persone non di merci.
Le retribuzioni, nei confronti della domanda sociale oggi sono del tutto indifferenti perché, come abbiamo visto, prevale il criterio giuridico di definire chi opera e non di definire l’opera.
In queste condizioni è difficile qualsiasi tipo di ricapitalizzazione.
 
La domanda sociale quindi andrebbe tradotta in quella che Keynes definiva “domanda aggregata” essa:
• è semplicemente la domanda effettiva di beni e servizi che malati e cittadini, rivolgono alla sanità pubblica per avere salute e essere curati,
• dipende dalle componenti che la costituiscono cioè dalle necessità di salute, nel nostro caso, che sono ammesse in un ordinamento.
 
Oggi la domanda aggregata di salute è praticamente sottointesa nella qualifica o nella competenza o nell’incarico di chi dovrebbe soddisfarla e quindi di fatto è sottointesa nella retribuzione.
 
Un qualsiasi operatore inquadrato, come da contratto, per sussunzione, rappresenta il bisogno di cura del proprio malato. Cioè l’inquadramento giuridico di chi lavora sussume la domanda di cura dei cittadini, il che vuol dire che, per sussunzione, la domanda di cura si ritrova compresa nella definizione giuridica di chi la dovrebbe soddisfare ma non è dedotta da nessun tipo di bisogno reale.
 
Non esiste un solo sindacato che, ad ogni piè sospinto, non parli della centralità del malato, ma, come si fa a mettere il malato al centro della sanità se il malato non è al centro della retribuzione? Cioè se le retribuzioni non sono dedotte anche da una qualche domanda aggregata?
 
L’operatore giuridico: il paternalismo duro a morire
Al refrain sulla centralità del malato prevale di fatto uno spiccato quanto anacronistico “paternalismo” giuridico nel senso che tutti dicono il malato al centro del mondo ma intanto chi decide sul malato è solo un operatore pagato non in base a quello che fa ma in base a quello che giuridicamente è. Un operatore giuridico.
 
Il malato, come persona, negli ordinamenti giuridici che definiscono le retribuzioni non esiste. Ma il problema vero, a parte il paternalismo garantito nei contratti e nelle retribuzioni, è che l’operatore sussume comunque una specie di domanda aggregata ferma ormai da mezzo secolo, quindi ormai ampiamente superata.
 
In sostanza i problemi sono due:
• non solo la domanda di salute è sussunta dall’operatore cioè non compare mai come criterio esplicito per definire delle retribuzioni,
• ma la domanda che l’operatore sussume oggi è ampiamente inadeguata nei confronti della domanda effettiva di cura delle persone.
 
Ciò che chiede:
• la società oggi, alla sanità, non è la stessa cosa di ciò che chiedeva la società alla sanità ai tempi del dpr 761,
• il sistema sanitario e lo Stato agli operatori, non è più la stessa cosa di ciò che il sistema e lo Sato chiedeva attraverso il dpr 761 agli operatori 40 anni fa.
 
La ristrutturazione della retribuzione
Per ricapitalizzare il lavoro dobbiamo:
• partire quindi dalla domanda aggregata,
• a partire dalla domanda aggregata ristrutturare la retribuzione.
 
Ripensare le retribuzioni, sulla scorta della domanda sociale, non è una novità politica marginale, spero che ve ne rendiate conto.
Ciò è possibile “aggregando” per esempio nella domanda di cura o di salute classica, nuove “aspettative”, come le chiama Keynes, ma diversamente dal passato, considerandole variabili retributive determinanti.
Il quesito che pongo è molto diretto: quali nuove aspettative voi mettereste dentro la domanda aggregata in modo poi da trasformarle in valori e quindi in un plus di retribuzioni?
 
Qualche esempio: nella domanda aggregata può entrare la personalizzazione del trattamento, qualsiasi forma di complessità clinica, il grado di soddisfazione del malato, la qualità certificata del servizio, la capacità relazionale, il governo del grado di fallibilità delle scelte cliniche, le utilità cliniche prodotte, le abilità soggettive di chi lavora?
 
Mentre voi meditate sulle risposte, vorrei ricordare che, per Keynes, la domanda aggregata e l'offerta aggregata del sistema economico determinano l'equilibrio economico del sistema stesso.
 
Questo vuol dire (tenetevi forte) che se riuscissimo a usare il lavoro per mettere in equilibrio la domanda con l’offerta avremmo risolto il problema cronico della sostenibilità della sanità pubblica. Vi pare poco?
L’equilibrio di cui parla Keynes per la sanità è a sua volta un grande valore. Ricordo che in nome della sostenibilità abbiamo bloccato per anni i contratti e impoverito drammaticamente le retribuzioni. Allora perché non allargare la domanda aggregata anche ai valori che giovano sia al malato che domanda che al sistema che offre?
 
Per esempio se l’opera, quindi certe prassi, ci aiutano a governare meglio il sistema con un diverso uso dell’autonomia professionale, o a ridurre i problemi dei costi, o a garantirci un grado accettabile di adeguatezza, o ancora a garantire tanto al nord che al sud un effettivo universalismo della cura e dei trattamenti, che si fa? Questi valori si retribuiscono o no?
Se il lavoro contribuisce a tenere il sistema in equilibrio quali retribuzioni?
 
La ristrutturazione della spesa quale riforma
Abbiamo appena detto che il vero problema della ricapitalizzazione è il suo finanziamento e ci siamo chiesti dove trovare le risorse per ricapitalizzare.
La ristrutturazione delle retribuzioni di fatto si finanzia con la ristrutturazione della spesa, una ristrutturazione sia chiaro che non ha nulla a che fare con la spending review, con le politiche di risparmio, con quelle di de-finanziamento, con i piani di rientro e che si avvicinano di più alle politiche di riforma del sistema.
 
La ristrutturazione della spesa è di fatto una riforma di sistema. Spesa e sistema sono inevitabilmente consustanziali.
La mia idea di “quarta riforma” di fatto è un’idea di ristrutturazione della spesa storica. Un altro genere di sistema implica ovviamente un atro genere di spesa. Se riformo l’ospedale riformo di conseguenza anche i suoi costi e la sua spesa.
 
Qualche esempio per farmi capire, se il lavoro:
• se il lavoro adotterà altre organizzazioni dei servizi, più efficaci e più efficienti, allora le retribuzioni dovranno essere premiate;
 
• contribuisce a ridurre attraverso l’organizzazione, qualsiasi tipo di costo, allora il sistema deve retribuirlo con un plus di retribuzioni;
 
• rimuove delle contraddizioni e in questo modo accresce il grado di adeguatezza del sistema nei confronti della domanda sociale, una parte dei benefici che ne deriveranno, vanno tradotti in retribuzioni;
 
• migliora la qualità della compliance dei servizi per esempio riducendo le liste di attesa, il numero delle controversie legali, il grado di soddisfazione delle persone allora il lavoro va retribuito di conseguenza;
 
• se il lavoro è in grado di governare gradi crescenti di complessità allora parte dei benefici che questa capacità di governo saprà produrre, dovranno andare sulle retribuzioni;
 
• sarà misurato come “opera”, misurando ad esempio, quanti interventi chirurgici, quante radiografie, quante analisi, quante interventi di assistenza, quante visite, quante medicazioni, quante guarigioni ecc) allora la retribuzione dovrà essere adeguata anche agli indici di opera;
 
• sarà misurato come prassi in base questa volta a indici di complessità (l’intervento chirurgico complesso e quello semplice, il malato complesso e il malato semplice, l’interpretazione delle singolarità il trattamento prolungato e quello breve, ecc ) allora in base a tali indici anche le retribuzioni dovranno essere adeguate. 
 
In sostanza, arriviamo al punto: se negli ordinamenti che definiscono la retribuzione, oltre alle condizioni giuridiche che definiscono chi lavora, si prevedessero dei criteri in grado di riferire sulle caratteristiche dell’opera, delle prassi e dei loro effettivi risultati, allora sarebbe possibile incrementare e non di poco le quantità retributive finali.
 
A differenza degli attuali contratti i quali, prevedono con la logica dei silos fondi dedicati alle indennità (per la retribuzione degli incarichi, per la retribuzione di risultato, per la retribuzione delle condizioni di lavoro) si tratta di fare un bel fondo grande, trasversale, per finanziare il processo di ricapitalizzazione del lavoro, da alimentare in modo consistente con risorse di vario tipo e di varia provenienza facendo della “valorizzazione dell’opera” una delle parti della retribuzione, oltre il salario tabellare, tra le più importanti.
 
Per una teoria assiologica della retribuzione
La retribuzione proprio perché deve compensare dei valori dovrebbe essere definita con un algoritmo che misuri la sua complessità assiologica. Niente paura, l’assiologia è semplicemente una filosofia che si occupa di valori. Perché l’assiologia?
 
Per due ragioni:
• siccome in sanità, soprattutto oggi, i valori in ballo che questa società e questa economia chiedono a gran voce, sono tanti, credo che la retribuzione debba essere ristrutturata per retribuire almeno i più importanti,
• più sono i valori da retribuire, cioè più la domanda aggregata, è ampia e più le retribuzioni cresceranno.
 
Se dovessi chiedere a coloro che sanno scrivere gli algoritmi di scrivermene uno che misuri la complessità assiologica di una retribuzione gli chiederei di attenersi a questo semplice sillogismo: il valore della retribuzione cresce in modo direttamente proporzionale ai valori prodotti dall’opera in grado di soddisfare una precisa domanda aggregata.
 
Conclusioni
Secondo una indagine Cresme, mediamente le case ristrutturate hanno un valore del 29% superiore a quelle non ristrutturate.
E le retribuzioni di un medico, di un infermiere, di un tecnico di radiologia, di una ostetrica, di un tecnico della riabilitazione, una volta debitamente ristrutturate, quanto potrebbero valere?
 
Non so dirlo con esattezza. I conti non sono il mio forte e oltretutto non sono attrezzato per farli e comunque il mio mestiere resta quello di produrre idee di riforma.
 
Ma sono sicuro che se facessimo, una coraggiosa ristrutturazione delle retribuzioni, il valore finale del lavoro, una volta ricapitalizzato, sarebbe molto più alto di quello che è ora e la sua crescita sarebbe sicuramente molto più del 350% dell’incremento previsto per i contratti 2019/2021.
 
Ivan Cavicchi
8 giugno 2020
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