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QS Edizioni - giovedì 19 dicembre 2024

Studi e Analisi

La ricetta di Slow Medicine per cure “sobrie, rispettose, giuste” anche in tempo di pandemia

di Direttivo Slow Medicine
immagine 20 maggio - In questi giorni, sovrastati dalle crescenti richieste di aiuto, tutta l’attenzione si è concentrata sulla dotazione di tecnologie, sui respiratori, l’ossigeno, i posti letto in terapia intensiva, le cure innovative, i tamponi, i vaccini, le mascherine: questioni assolutamente importanti, che sono state affrontate con encomiabile impegno. Scarsa o pressoché nulla è stata invece l’attenzione riservata alla persona, ai suoi affetti, ai sentimenti e all’enorme sofferenza provocata dalla separazione improvvisa, assoluta e crudele da ogni relazione umana
La cura, in tutte le sue dimensioni
I tragici eventi di questi giorni hanno stimolato tantissime riflessioni alle quali aggiungiamo alcune considerazioni di Slow Medicine: non già per il piacere di dare spiegazioni, ricercare errori o individuare colpevoli, ma con l’obiettivo di utilizzare questa drammatica esperienza per trarne qualche insegnamento.
 
Come ben si sa, in prossimità di un evento drammatico la natura umana manifesta una particolare inclinazione a formulare elenchi dettagliati di tutti gli errori commessi e di tutto quello che si dovrebbe fare in futuro: aver cura dell’ambiente, contenere i consumi, potenziare la prevenzione, riorganizzare i servizi sanitari, ridurre le diseguaglianze, ripensare il sistema economico, dedicare più risorse alla ricerca e molto altro ancora. Tutte questioni sacrosante, che richiedono la massima attenzione, ma che non dovrebbero farci dimenticare che la vita contempla anche i limiti e la morte.
 
Proprio alla luce di quanto è successo durante la pandemia, pensiamo che qualcosa dovrebbe cambiare anche nel modo in cui affrontiamo i momenti cruciali dell’esistenza durante i quali le esigenze della vita e le istanze della morte si sfiorano, s’intrecciano, si confondono e si manifestano con contrapposte esigenze.
 
In questi giorni, sovrastati dalle crescenti richieste di aiuto, tutta l’attenzione si è concentrata sulla dotazione di tecnologie, sui respiratori, l’ossigeno, i posti letto in terapia intensiva, le cure innovative, i tamponi, i vaccini, le mascherine: questioni assolutamente importanti, che sono state affrontate con encomiabile impegno.
 
Scarsa o pressoché nulla è stata invece l’attenzione riservata alla persona, ai suoi affetti, ai sentimenti e all’enorme sofferenza provocata dalla separazione improvvisa, assoluta e crudele da ogni relazione umana. Sono struggenti i racconti di nonni, genitori, coniugi, figli portati via d’urgenza in ambulanza, senza la possibilità di dar loro un saluto, una parola di conforto, una carezza, uno sguardo; deceduti in solitudine, lontani dai propri cari, in ambienti estranei, disorientati e travolti da una lotta convulsa per la sopravvivenza.
 
Riguardo a questo punto, anche la gestione dell’assistenza avrebbe dovuto essere meno ospedalocentrica, più attenta alla sanità pubblica, al territorio e al personale sanitario che, soprattutto nei primi momenti, ha affrontato la pandemia “a mani nude” e con la non facile responsabilità di decidere.
 
Come coniugare pandemia e Slow Medicine
Anche nell’emergenza, anche nel tempo congestionato delle decisioni drammatiche il pensiero Slow è pertinente. Perché Slow applicato alla medicina non equivale a “lento”, a prendersela con calma. Rimanda a una modalità di praticare la cura, nella gestione della cronicità come nel momento dell’urgenza.
 
Nell’aggettivo Slow sono comprese le tre caratteristiche esplicitate nel manifesto del movimento: cure sobrie, rispettose e giuste che sono un richiamo ai tre principi fondamentali – beneficità, autonomia e giustizia – che la bioetica da cinquant’anni sta proponendo come la spina dorsale della pratica medica nell’epoca moderna. Non si tratta di una formula magica che dia, a effetto garantito, le cure sanitarie dei nostri sogni. I tre aggettivi ci rimandano piuttosto a criteri di qualità, che ci permettono una valutazione ragionata dei nostri comportamenti.
 
Perdurando ancora la pandemia, ma in tempi meno concitati, è opportuno rivolgere uno sguardo ai giorni che abbiamo alle spalle e al modo in cui abbiamo offerto cure e contrastato l’epidemia. Senza alcun intento accusatorio. Ma è un fatto che nei giorni più caldi della lotta al Covid-19 sono emersi punti di forza e punti di debolezza del nostro sistema. Nonché comportamenti esemplari insieme ad altri che lasciano perplessi. Confrontarli serenamente con la pratica della medicina in modalità Slow può essere istruttivo. Soprattutto può indurci a miglioramenti. Ci saranno utili in tempi di pandemia, così come in epoca di normalità.
 
Che cos’è sobrio, rispettoso e giusto nei momenti in cui si è di fronte a scelte che contemplano la morte e si tratta di decidere per sé e per gli altri? Quali consigli e quale supporto si possono dare alle persone, ai professionisti e alle istituzioni quando si tratta di affrontare una pandemia di questa portata
 
Sobrietà, ovvero le cure nella giusta misura

“Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse”. La triplice scansione della professionalità medica è stata sintetizzata con queste parole nella versione del Codice di deontologia medica del 2006. Il primo criterio – erogare cure efficaci – si è sempre più trovato a misurarsi non solo con il criterio della validazione scientifica delle cure, ma anche con la loro quantità. Slow Medicine ha aderito al motto: “Less is more”, promovendo il corrispondente italiano “Fare di più non significa fare meglio”.
 
A scanso di equivoci: non significa fare il meno possibile, ma cercare la giusta misura. Per questo i professionisti sono invitati a cercare loro stessi l’appropriatezza, individuando ed escludendo almeno cinque pratiche abituali nel loro ambito che non hanno dato prova di portare un vantaggio di salute. Il movimento internazionale Choosing Wisely ha raccolto la sfida, promuovendo una quantità di liste ben argomentate di pratiche a rischio di inappropriatezza, derivanti dalla competenza dei professionisti e dalle prove scientifiche.
 
Certo, è vero che “sometimes less is more, sometimes more is more, and often we just don’t know” (Lisa Rosenbaum, New Engl J Med 2017). Ma ci domandiamo se l’incertezza, causata da un’epidemia per la quale al momento non abbiamo a disposizione rimedi efficaci giustifichi “fare tutto il possibile”, sovrapponibile a “prolungare la vita a qualsiasi costo” o se piuttosto, anche in questo caso, alla base del nostro agire non ci debba essere la ragionevole previsione di apportare più beneficio che danno. È il principio della proporzionalità delle cure, che tiene conto del fatto che pazienti anziani fragili in condizioni tanto critiche da richiedere l’intubazione per qualsiasi motivo, incluso COVID-19, hanno esiti di sopravvivenza molto scarsi e scarsa qualità della vita.
 
In questo scenario, in cui le scelte sono state rese più tragiche dall’eccezionale concentrazione dei casi che ha costretto talvolta i clinici a decidere chi avviare alle procedure intensive, consideriamo esemplare l’iniziativa della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) di dar conto dei criteri con cui operare le scelte mediante il documento “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” (6 marzo 2020).
 
Ciò implica la volontà di portare luce in quella zona grigia della clinica in cui le decisioni vengono prese senza un’esplicitazione e una condivisione con altri professionisti, ovvero prevale la convinzione che certe cose si fanno ma non si dicono. Con un termine che in italiano suona enigmatico, questo atteggiamento di esplicitazione dei criteri in inglese si chiama accountability. Corrisponde al tentativo di rendere conto in medicina dei criteri che vengono adottati per le scelte.
 
Questo non è avvenuto solo in Italia: con l’espandersi della pandemia anche i medici di molti altri Paesi di fronte alla crescita esponenziale di persone con necessità di supporto delle funzioni vitali, si sono interrogati sulle decisioni da prendere in previsione di una carenza di posti letto in terapia intensiva, di attrezzature, di servizi sanitari di supporto.
 
In passato è prevalso il criterio autoreferenziale delle scelte fatte “in scienza e coscienza”. Anche quando sia l’una che l’altra siano di fatto presenti, ai nostri giorni è necessaria una trasparenza che equivale a una rendicontazione. Un rendere conto del proprio operato che non si indirizza ai giudici, come avviene nella malaugurata ipotesi di denunce, bensì ai cittadini stessi. L’accountability nutre la fiducia di coloro che alla “scienza e coscienza” dei professionisti devono necessariamente affidarsi; ma si sentono rassicurati dal fatto che non è chiesta loro una fiducia cieca. Ciò avviene quando i criteri delle scelte e delle decisioni sono resi pubblici dai professionisti stessi.
 
Cure rispettose: un’alleanza tra professionisti e pazienti
Il rispetto di cui il movimento di Slow Medicine si fa promotore va oltre la tutela della privacy e la necessaria delicatezza nel prendersi cura di una persona sottoposta a trattamenti sanitari. Nasce dal secondo principio che caratterizza la professionalità di cura moderna: il rispetto dell’autonomia. Che non deve venir meno neppure quando le persone non fossero più autonome in senso sociale. Incontriamo qui un altro termine di cui ci riesce difficile trovare l’equivalente in italiano: empowerment. Comporta che le decisioni cliniche siano prese con il malato, non sul malato. Questa modalità si estende a tutte le situazioni, comprese quelle estreme. Non esclusa la condizione di fine vita: la condivisione dei percorsi e delle scelte è condizione indispensabile per esercitare l’empowerment.
 
Informazione e consenso (anche nella forma riduttiva e burocratizzata di ciò che nella pratica clinica è diffuso sotto il nome di consenso informato) sono quasi scomparsi dalle cure erogate in epoca di pandemia. Considerati quasi un lusso che non ci si può permettere, come una ricetta da gourmet in tempo di carestia, specialmente nella fase di iperafflusso di pazienti critici. Anche l’informazione ai familiari delle persone ricoverate in terapia intensiva e ospiti delle RSA è stata estremamente difficoltosa e spesso carente per le limitazioni imposte dalle esigenze di sicurezza e di privacy.
 
Sul rispetto delle volontà e delle preferenze del paziente merita una particolare menzione la raccomandazione n. 8 del movimento internazionale Choosing Wisely su COVID-19: “Non intubare pazienti fragili senza aver parlato con i familiari riguardo alle direttive anticipate del paziente, ogniqualvolta è possibile”. Questa attenzione definisce il perimetro della buona medicina. “Ogniqualvolta è possibile”, certo; ma anzitutto bisogna riconoscere all’autodeterminazione il diritto di cittadinanza nella medicina del nostro tempo, anche in situazioni di emergenza.
 
Nella stessa direzione si muove il documento SIAARTI sopra citato, che tra le sue raccomandazioni prevede di “considerare con attenzione l’eventuale presenza di volontà precedentemente espresse dai pazienti attraverso eventuali DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) e, in modo particolare, quanto definito attraverso una pianificazione condivisa delle cure”. Da citare, riguardo alla relazione con i familiari, il documento inter societario SIAARTI, ANIARTI, SICP e SIMEU: “Come comunicare con i familiari in condizioni di completo isolamento” (18 aprile 2020). La sensibilità dimostrata in questo caso da medici e infermieri, palliativisti ed esperti di emergenza-urgenza dà concretezza a ciò che si intende nell’ambito della Slow Medicine per “cure rispettose”, estese non solo ai malati ma anche ai familiari e inserisce la comunicazione come parte integrante del percorso di cura.
 
Molta perplessità suscita soprattutto la latitanza delle cure palliative nello scenario della pandemia. “Morire male di Coronavirus è una realtà dai numeri spaventosi che disegna il profilo di una tragedia dentro la tragedia” ci ricorda Giorgio Trizzino (ex direttore dell’Hospice Civico di Palermo) dai banchi del Parlamento.
 
Sulla scena della crisi ha pesato anche la concezione troppo diffusa che le cure palliative siano riservate ai pazienti oncologici e siano un’alternativa agli interventi curativi. Tanto più se sono organizzate come un passaggio di competenze, quando “non c’è più niente da fare”, dagli specialisti della cura ad altri specialisti, quelli della palliazione appunto. Ancora è lontano dall’essere diventato un luogo comune tra tutti i professionisti lo slogan che i pionieri della palliazione in Italia hanno fatto proprio fin dall’inizio: “Quando non c’è più niente da fare c’è tanto da fare”.
 
Purtroppo, in alcuni casi anche strutture come gli hospice, dedicate per l’appunto ad accompagnare l’ultimo tratto di strada, a lenire il dolore e i sintomi, a rendere il decesso meno straziante non sono state usate secondo queste finalità e la morte è avvenuta in stato di abbandono. Mentre in qualche altro caso le strutture destinate al sostegno della grande vecchiaia e della non autosufficienza sono state usate come hospice: ma non in senso proprio, bensì come luogo dove morire. Anche i malati di Covid-19, quando i trattamenti si dimostrano inefficaci, hanno invece diritto a “morire bene” in qualsiasi ambiente si trovino, attraverso il controllo dei sintomi e l’accompagnamento psicologico e spirituale.
 
Non si può infine non ricordare che solitudine e paura hanno contrassegnato le esperienze delle persone, dei pazienti in tutte le fasi della malattia ma anche dei professionisti sanitari, e che le conseguenze psicologiche rischiano di persistere a lungo.
 
Risorse allocate e organizzate con giustizia
Probabilmente la pandemia ha potuto imperversare in alcuni luoghi anche perché l’organizzazione non era sufficientemente pronta a far fronte ad un evento imprevedibile, perlomeno nei modi, nei tempi e nelle dimensioni in cui si è manifestato. La coperta era troppo corta e non tutte le persone contagiate hanno potuto avere le cure di cui avevano bisogno. Pensiamo alle carenze di programmi di sanità pubblica per contenere i contagi, di servizi domiciliari, di una rete di assistenza territoriale, di mezzi di protezione degli operatori, di letti negli ospedali, di servizi di cure palliative, di posti in rianimazione.
 
Anche la capacità di far fronte all’emergenza ha un termine tecnico: in inglese si chiama preparedness. Lo possiamo tradurre, a orecchio, come preparazione, ma implica capacità molto specifiche per affrontare eventi imprevisti, come la pianificazione, la predisposizione di risorse e di competenze multidisciplinari, la capacità di intervenire. La preparedness è il contrario dell’atteggiamento scaramantico, del tipo “io speriamo che me la cavo”… Di fatto la nostra preparedness non è mai stata messa in grado di funzionare.
 
La prima reazione all’ondata di pazienti malati con sintomi di insufficienza respiratoria acuta è stata la ricerca di ventilatori e di posti di degenza soprattutto di terapia intensiva piuttosto che potenziare il trattamento a domicilio fin dalle prime fasi della malattia. Non sono state individuate e organizzate strutture intermedie che servissero da filtro agli accessi in ospedale e di assistenza ai malati meno gravi affidandone le cure e l’isolamento ai familiari, senza un adeguato supporto assistenziale. Questi servizi, tuttavia, possono essere potenziati in situazioni di emergenza, come per esempio attraverso il supporto delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (Usca), ma non possono essere creati dal nulla, se già non esiste una capillare struttura di servizi, di professionisti e di programmi ben collaudati su cui si possa fare affidamento.
 
La pandemia ha fatto emergere la disfunzionalità dei servizi di sanità pubblica e di comunità e i limiti culturali di una programmazione centrata quasi esclusivamente sulle tecnologie e sulla specializzazione. Improvvisamente l’ordine è saltato e sono emerse, in tutta la loro gravità, le disfunzioni organizzative e soprattutto le carenze della politica sanitaria, quella destinata a provvedere alla macro allocazione delle risorse e alla loro finalizzazione.
 
Quando si parla di territorio non si intende un luogo fisico ma una rete strutturata di servizi che compenetrano il tessuto sociale della comunità di riferimento. In questo contesto il medico di medicina generale non può essere un elemento separato dal sistema, deve occupare un posto di primo piano all’interno di un gruppo multiprofessionale dotato di collegamenti agili e ben coordinati con: servizi di prevenzione primaria, servizi di assistenza domiciliare, specialisti di supporto, famiglia, associazioni di volontariato, servizi sociali, hospice, residenze protette, ….
 
È solo in un contesto territoriale ben strutturato che i pazienti possono ricevere le cure di cui hanno bisogno senza essere costretti a ricorrere impropriamente all’ospedale, potendosi avvalere di tutte le risorse della comunità allo scopo, per quanto possibile, di lasciare le persone all’interno del proprio ambito familiare e sociale di riferimento.
 
Il nostro auspicio è che alla luce di quanto successo si debba avviare senza indugi un radicale rinnovamento dell’organizzazione delle cure, da realizzare secondo una prospettiva sistemica tenendo conto cioè che specializzazione delle competenze e integrazione delle professionalità e delle attività tra ospedale e territorio devono procedere in completa sintonia, secondo programmi strutturati e condivisi.
 
Nel territorio, in particolare, bisogna rendersi conto che i servizi non si basano sulla gerarchia, sugli ordini e sulle procedure bensì sui principi che caratterizzano il funzionamento delle reti, cioè attraverso aggregazioni funzionali flessibili, lavoro in team multiprofessionali, servizi permeabili alle esigenze, agli stimoli e ai supporti che giungono dalla comunità di riferimento e soprattutto che agiscono in modo sobrio, rispettoso e giusto.
 
A cura del direttivo di Slow Medicine 
20 maggio 2020
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