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QS Edizioni - domenica 24 novembre 2024

Studi e Analisi

Siamo un Paese di vecchi, prendiamo finalmente atto

di Grazia Labate
immagine 26 aprile - La questione dunque che oggi si ripropone con più urgenza è dunque come ripensare i modelli assistenziali di RSA e come costruire una forte rete di domiciliarizzazione, a diversa intensità di cura, rivedendo modalità operative, contesti di accoglienza (cohousing o altre esperienze), integrazione sociale e sanitaria in rapporto ai fabbisogni reali della persona. Occorre far presto però.
Profitto di Qs per commentare le riflessioni e le proposte della dottoressa D'Innocenzo sulle case di riposo e le Rsa. Prima di tutto devo dire che è proprio tutto vero quanto afferma nel suo articolo. Non solo l’amara vicenda di COVID 19 ce lo impone, ma tutte le ricerche e le analisi che abbiamo condotto in molti, sulla non autosufficienza nel nostro paese almeno negli ultimi 15 anni e che la sordità e l’economicismo di una intera classe dirigente ha sempre rimosso dando scarne e inappropriate risposte. Occorre però dire chiaramente che è stato un errore monetizzare i bisogni invece che procedere con una politica di welfare centrata sui servizi.
 
Me ne sono occupata quando per ben 2 legislature con il collega Battaglia abbiamo tentato di mettere in campo una legge quadro per il problema della non autosufficienza nel nostro paese. C’è qualcosa di cui non mi do pace, una specie di schizofrenia politica che nell’affrontare i problemi separa sempre tutto piuttosto che contestualizzare i problemi e trovare soluzioni adeguate. Sanità e Sociale, cura e assistenza, sussistenza e fragilità, solitudine e relazioni sociali, ghettizzazione e socialità.
 
La conclusione delle sue riflessioni, che condivido, mi pare di capire, dicono: superare il modello delle Case di riposo e delle Rsa, ma applicare il concetto di intensità di cura alla domiciliarità, con una efficiente ed efficace politica di integrazione socio-sanitaria e di sviluppo delle diverse forme di care.
 
Partiamo da alcuni dati incontrovertibili.
L'Italia è un paese longevo, ma in molti casi gli anziani sono fragili, con più di una malattia, una ridotta autosufficienza e molti farmaci da assumere. Sono 14 milioni gli over 65, quasi 1 italiano su 4, oltre 2 milioni di persone - che supera gli 85 anni. La rete dell'assistenza a lungo termine, fatta di cure domiciliari e residenzialità assistita, è carente e se la continuità assistenziale, in cui l'obiettivo è mettere in comunicazione ospedale, comunità e domicilio, è la bussola, in Italia non orienta la presa in carico di tutti coloro che hanno raggiunto una certa età. A evidenziarlo è la prima indagine sulla continuità assistenziale in Italia, curata per Italia Longeva, Rete nazionale di ricerca sull'invecchiamento e la longevità attiva, da Davide Vetrano, geriatra dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e ricercatore al Karolinska Institute.
 
I dati del ministero della Salute, ripresi in occasione della presentazione dell'indagine, indicavano che solo il 2% degli over-65 è stato accolto in Rsa, residenze sanitarie assistenziali, e solo 2,7 anziani su 100 hanno ricevuto cure a domicilio "con incredibili divari regionali: in Molise e in Sicilia più del 4% degli anziani può contare sul servizio, mentre in Calabria e Valle d'Aosta si stenta ad arrivare all'1%.
 
"L'assistenza domiciliare - spiega Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, ora anche membro del comitato tecnico scientifico per il controllo della COVID 19 - in Italia cresce troppo lentamente, più lentamente di quanto crescano i cittadini che ne avrebbero bisogno, è il vero cortocircuito di una buona continuità assistenziale. È evidente il ritardo dell'Italia: per ogni ora erogata, da noi all'estero si arriva anche a 8-10 ore”.
 
Uno dei temi al centro dell'indagine è chi si prenda cura dei pazienti anziani, con malattie croniche, in particolare quando i reparti sono sovraffollati o c'è una piccola emergenza e correre al Pronto Soccorso sarebbe eccessivo. La risposta è proprio che c'è una 'terra di mezzo' in grado di rispondere ai bisogni: la continuità assistenziale.
 
La ricerca si sofferma su 17 tra esperienze virtuose in Aziende sanitarie locali e ospedaliere in otto regioni: Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Toscana e Umbria. Otto best practice di gestione delle dimissioni difficili e 9 modelli efficienti di organizzazione delle reti territoriali.
 
Italia Longeva nell'indagine si sofferma su 4 dei percorsi terapeutico-assistenziali più complessi, che riguardano pazienti con demenza, Parkinson e piaghe da decubito. Nelle buone pratiche di continuità assistenziale analizzate, uno dei protagonisti è il medico di medicina generale, che opera in sinergia con altri colleghi e indossa il camice del medico di reparto (come nel caso degli Ospedali di comunità). E l'ospedale? Si occupa delle emergenze e delle patologie acute, ma nelle buone pratiche dialoga pure con il territorio per criticità e prospettive.
 
Se la «prima» criticità sta nell’intollerabile diseguaglianza e disomogeneità del sistema, che implica diseguaglianza e disomogeneità di diritti nella collettività, la «prima» prospettiva dovrebbe essere di adempiere al dettato della 833 (oltre che della Costituzione repubblicana): consentire a tutti lo stesso diritto alla salute. Cosa vuol dire? - affrontare la questione Stato-Regioni «nata con la 833» (a ciascuno il proprio ruolo, ma tutti vi devono adempiere); concretizzare un sistema con una regia nazionale condivisa; passare da un’idea «difensiva» della tutela della salute ad un impegno complessivo e sistematico, che preveda una programmazione multidisciplinare, multisettoriale di percorsi/azioni di prevenzione e promozione della salute in tutto il paese. Problemi di governo, ma anche di capacità e adeguatezza delle strutture territoriali.
 
Le criticità attengono sia all’organizzazione, sia alla capacità tecnico-scientifica e metodologica di corrispondere alle necessità della popolazione, a quelle vecchie che ancora in parte rimangono e a quelle nuove che sono molteplici. Necessitano un adeguamento non solo delle risorse e delle professionalità, ma anche culturale, un sistema di formazione continua assai più adeguato e moderno e anche una soluzione alla carenza del II° livello.
 
Minori confini tra vita, ambiente, relazioni umane, puntare su una logica concreta d'intervento dipartimentale trasversale, interdisciplinare, lavorando sull’adeguamento dell’assetto e del modello organizzativo dei dipartimenti di prevenzione, sui rapporti interni ed esterni, sulle metodologie e sulle strategie d’intervento. Dipartimento «vero», (non più contenitore di scatole separate), formale ma poco sostanziale, come spesso è ancora oggi. Molte sono le esigenze di cambiamento in funzione della realtà attuale e futura (per quanto la si possa intravvedere…). Ma il cambiamento attiene prima di tutto alla cultura, ai comportamenti, di ognuno e della collettività: in quest’ambito, e solo a queste condizioni, possono porsi anche percorsi di modifica e adeguamento delle norme. Bisogna che si cominci a vedere e mostrare con chiarezza che cosa serve alla salute e cosa no.
 
Ma non basta: per avviare un circuito virtuoso sarà necessario affrontare con risolutezza la radice del male che affligge oggi i sistemi sanitari di tutto il mondo, pubblici o privati che siano: l’eccesso di potere che negli ultimi decenni è stato assicurato alle ragioni del profitto a scapito di quelle della salute. Potere che controlla ormai saldamente le due leve fondamentali: la ricerca con le sue ricadute tecnologiche e i brevetti, da una parte e la definizione del confine tra salute e malattie, dall’altro.
 
Ed ora durante questa triste e difficile pandemia che ha messo a fuoco le criticità di sistema pensiamo davvero che siano un’occasione da mancare i 37 miliardi del MES da usare per la sanità senza condizionalità?
 
Io no, non lo penso, tutti e subito. Perché quelle infinite colonne militari con le bare e la percentuale elevata di anziani morti nelle RSA reclamano che si superino ideologie e ci si armi di sano pragmatismo per affrontare l’interrogativo che abbiamo di fronte: Quale futuro per il S.S.N.
 
Proseguire nella compressione del welfare pubblico universale e nello sgretolamento del SSN tornando forse a un passato solo un po' attualizzato e ridipinto di nuovo (tutelando solo una quota privilegiata della popolazione)? oppure invertire la rotta, riaccendendo lo “spirito riformatore” della 833, ritrovando le spinte etiche che l’avevano motivata, rinnovando i principi della partecipazione, dell’equità, dell’universalità, delle tutele. Bisognerebbe puntare almeno su: un sistema organizzato, sufficientemente omogeneo nel paese, dipartimenti e servizi capaci, dinamici, adeguati ai tempi e che perseguano una modalità di lavoro integrato, un’ effettiva partecipazione democratica, un’ informazione/conoscenza diffusa per la gestione della salute della comunità.
 
Ritorno agli anziani, che durante il COVID abbiamo chiamato e continuiamo a chiamare “popolazione fragile”. Il Prof. Bernabei nel presentare l’indagine di Italia Longeva nel luglio del 2017 affermò che “L’Italia non ha ancora dato una risposta univoca, né ha individuato un modello condiviso, per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro”. Si riferiva all’invecchiamento della popolazione italiana nella transizione epidemiologica. Dato di fondo diceva è la disomogeneità, tranne qualche eccezione, servizi insufficienti, la poco sviluppata integrazione fra servizio sanitario e servizi sociali dei Comuni, e la maggiore necessità di assistenza domiciliare, dove si dedicano più ore “di qualità’ a ciascun paziente”.
 
Pur essendo l’alternativa più efficace ed economicamente sostenibile all’attuale modello che ruota attorno all’ospedale, e alle RSA, l’assistenza domiciliare per la cura a lungo termine degli anziani fragili o con patologie croniche ad oggi è pressoché un privilegio: ne gode infatti solo il 2,7% degli ultrasessantacinquenni residenti in Italia (in alcuni Paesi del Nord Europa sono assistiti in casa il 20% degli anziani), e le prestazioni, le ore dedicate a ciascun assistito, la natura pubblica o privata degli operatori e il costo pro capite dei servizi sono i più differenti e variegati, a seconda delle aree del Paese. In particolare, sono assistiti a domicilio nel nostro Paese solo 370mila over 65, a fronte di circa 3 milioni di persone, che risultano affette da disabilità severe, dovute a malattie croniche, e che necessiterebbero di cure continuative.
 
Lo rilevano i dati del Ministero della Salute in una survey effettuata da Italia Longeva, network scientifico dello stesso Ministero dedicato all’invecchiamento attivo e in buona salute. In particolare, i dati regionali sono di fonte ministeriale, mentre Italia Longeva ha sviluppato un’analisi di dettaglio volta a comprendere in concreto come siano organizzati i servizi di assistenza a domicilio in 12 Aziende Sanitarie, presenti in 11 Regioni italiane: un campione distribuito in modo bilanciato tra nord e centro-sud, relativo ad Aziende che offrono servizi territoriali a 10,5 milioni di persone, ossia quasi un quinto della popolazione italiana.
 
Tutti questi dati furono presentati, nel 2017 al Ministero della Salute nel corso della seconda edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine. Quel che più sorprende è che il nostro Paese – da anni alla ricerca di una vera alternativa al modello basato sulla centralità dell’ospedale e sulle RSA per la cura di pazienti anziani, cronici e fragili– dedichi all’assistenza domiciliare sforzi e risorse pressoché risibili: basti pensare che dedichiamo in media, a ciascun paziente, 20 ore di assistenza domiciliare ogni anno, e che non mancano nazioni europee che garantiscono le stesse ore di assistenza in poco più di un mese.
 
I dati Istat ci dicono che quasi un italiano su 4 ha più di 65 anni, e che questo rapporto salirà a 1 su 3 nel 2050. Però oggi scopriamo che assistiamo a domicilio meno di 3 anziani su 100. Tutti gli altri? A intasare i pronto soccorsi, nella migliore delle ipotesi, oppure rimessi alle cure ‘fai da te’ di familiari e badanti, quando non abbandonati all’oblio nelle RSA, di chi ha poche o tante risorse per farsi assistere. A mio avviso questi dati dovrebbero rappresentare non solo per i professionisti della salute, ma anche per i cittadini e per la politica, un campanello d’ allarme non più trascurabile.
 
Accanto, e forse più dei numeri sugli anziani assistiti, sorprendono i dati dai quali traspare un’organizzazione dell’assistenza domiciliare del tutto disomogenea nelle diverse aree d’Italia. Su un totale di 31 attività – quelle a più alta valenza clinico-assistenziale – erogabili a domicilio, all’interno del panel di ASL analizzato, solo le ASL di Salerno e Catania le erogano tutte, seguite dalla Brianza e da Milano e molte province lombarde. Non mancano persino aree del Paese in cui l’assistenza domiciliare non esiste affatto.
 
Ci sono poi differenze macroscopiche nel numero di ore dedicate dalle ASL a ciascun paziente: si va, per esempio, dalle oltre 40 ore annuali della ASL di Potenza alle 9 ore di Torino. Altra differenza non trascurabile è l’apporto degli enti privati nell’erogazione dei servizi a domicilio, che va dal 97% di Milano allo 0%, ad esempio, di Reggio Emilia o della Provincia Autonoma di Bolzano.
 
Questa fotografia non mi serve per stilare una classifica delle Regioni o delle ASL più virtuose, o delle differenze tra buoni e cattivi, ma piuttosto per evidenziare un dato di fondo: l’Italia non ha ancora dato una risposta univoca, né ha individuato un modello condiviso, per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro. A ben vedere i dati e l’indagine del 2017 dice anzitutto che l’assistenza agli anziani cronici e non autosufficienti in Italia, è una vera e propria Babele, nella quale ogni area del Paese parla una lingua diversa e sembra non esserci nessun dialogo.
 
Tuttavia da questa disomogeneità emergono due tendenze, che suggeriscono di cambiare strategia per il futuro verso la domiciliarità, che abbiamo il compito e la responsabilità di costruire velocemente dopo quello che abbiamo visto con COVID 19.
 
Tranne rare eccezioni, le prestazioni sono quasi sempre insufficienti nelle aree in cui è meno sviluppata l’integrazione fra servizio sanitario e servizi sociali dei Comuni; in secondo luogo, il costo annuo per assistito a domicilio non cresce in maniera proporzionale al numero di ore dedicate a ogni paziente: al di sopra di una certa soglia diminuiscono le successive richieste di assistenza e quindi sembra innescarsi un’economia di scala, che fa decrescere i costi marginali. In altre parole, al di sopra di un certo numero di ore ‘di qualità’, che devono essere considerate quelle ottimali, gli anziani iniziano a stare meglio, e l’assistenza domiciliare si conferma un ottimo investimento collettivo sulla salute dei nostri padri e dei nostri nonni.
 
Domiciliarità e residenzialità fotografano senza sconti l’assistenza agli anziani in Italia. Cresce la domanda di cura per gli anziani, ma crollano i finanziamenti pubblici. Il peso ricade sulle famiglie: oltre 561mila quelle che hanno dovuto utilizzare tutti i risparmi, vendere l’abitazione, o indebitarsi, per pagare l’assistenza a un non autosufficiente
 
Lo Stivale continua ad avere sempre più capelli bianchi: con il 21,4% della popolazione oltre i 65 anni e il 6,4% con più di 80, è il paese più vecchio d’Europa (la media Ue è rispettivamente del 18,5% e del 5,1%). L’Italia guida la tendenza, ma il Pianeta non è da meno. Infatti, le proiezioni per il 2050, quando gli anziani nel nostro paese saranno il 34,3%, in tutto il mondo si prevedono 2,4 miliardi di ultrasessantenni (21%): per la prima volta nella storia dell’umanità gli over 60 saranno di più dei ragazzi sotto i 16 anni.
 
La fotografia non fa sconti: mentre cresce la domanda di assistenza e la Ragioneria dello Stato valuta che la spesa per l’assistenza di lunga durata dovrebbe passare dall’1,9% del Pil del 2019 al 3,2% nel 2060, in realtà, per la prima volta nella storia d’Italia, la copertura dei servizi per anziani non autosufficienti presenta negli ultimi 10 anni tutti segni negativi. Diminuiscono infatti gli anziani presi in carico nei servizi, gli ospiti di strutture residenziali, quelli che hanno l’indennità di accompagnamento, la spesa per servizi sociali per anziani di regioni e comuni.
 
Secondo una indagine del Censis, 561mila famiglie indebitate, o costrette a vendere la casa per assistere in strutture un parente anziano non autosufficiente. Indica il problema nei continui tagli, anche del 30-40% all’anno, del Fondo nazionale per le politiche sociali, mentre dal 2015 il Fondo nazionale per la non autosufficienza, dopo essere stato quasi azzerato nel 2011-2012, è tornato ad avere una dotazione di 400 milioni di euro all’anno fino ad adesso.
 
E’ un’Italia a macchia di leopardo, solo il 41% dei comuni italiani garantisce assistenza integrata. L’80,3% della popolazione over 65 vive in case di proprietà (il 76,1%) spesso senza ascensore e sono in continuo aumento gli anziani che vivono soli. Le badanti, vero snodo della cura a casa, sono donne straniere tra i 45 e i 65 anni.
 
Dati certi non ve ne sono tranne che per coloro regolarmente assunte, secondo l’INPS nel 2019 i lavoratori domestici erano 886.125 di cui 276.316 badanti. Le famiglie italiane spendono circa 6,9 miliardi di euro all’anno. La cifra media che gli italiani dichiarano di pagare alle badanti è di 920 euro al mese. La provenienza delle badanti è cosi ripartita: paesi dell’Est (60,7%), America del Sud (6,6%), Africa del Nord (3,3%), le italiane, sono ormai il 19,1%.
 
Il sentiment comune tra tutti gli operatori del settore, è la necessità di porre la non autosufficienza come priorità assoluta del Paese. Malgrado i continui allarmi demografici ed economici, l'Italia è ancora largamente impreparata ad affrontare questa sfida, anche per ragioni di tipo culturale. Un ritardo evidente, quello italiano nel predisporre una copertura di tipo universalistico, con costi accessibili e servizi di assistenza capillari e qualificati, attribuibile anche alla mancanza di consapevolezza dei cittadini che, se per il 40% neppure conoscono le prestazioni pensionistiche integrative e per il 70% non intendono provvedere alla previdenza complementare, alla non autosufficienza non sembrano proprio pensare, limitandosi quindi ad affrontare il problema solo nel momento in cui ne sono direttamente toccati.
 
Eppure, i cittadini italiani già spendono 6,9 miliardi di euro per fronteggiare la non autosufficienza: una cifra, verosimilmente sottostimata in quanto in larga parte imputabile a badanti (spesso irregolari), che va ad aggiungersi ai 31,2 miliardi di euro di spesa già sostenuta dallo Stato. E le previsioni non sono ovviamente rosee per il futuro: nei prossimi 30 anni, la spesa pubblica per la non autosufficienza passerà dall’attuale 1,9% a oltre il 3% del PIL.
 
Se è vero che le famiglie svolgono quindi già un gran lavoro, è altrettanto vero che non possono però essere lasciate a loro stesse per mancanza di orientamento e aiuto da parte del welfare pubblico. Occorre quindi agire su educazione, prevenzione, oltre che con interventi mirati, in ambito legislativo e fiscale, in materia.
 
Considerata però anche la delicata situazione del bilancio pubblico, con quali strumenti cogliere la sfida? In assenza di risposte univoche, due gli aspetti su cui si concentra in particolar modo, la riflessione sull’obbligatorietà (o meno) dell’adesione a forme di protezione dal rischio di non autosufficienza, particolarmente rilevante in Italia dove la stipula di polizze assicurative per cure a lungo termine è appunto ancora scarsamente diffusa e, in secondo luogo, le modalità di presa in carico del soggetto non autosufficiente e, quindi, i livelli di servizi integrati da offrire anche in virtù del pressante tema del finanziamento.
 
Prima ancora di dibattere tra fautori dell’una o dell’altra soluzione, e al di là delle delicate scelte da affrontare, non si può non prendere atto di fenomeni sociali come l’atomizzazione dei nuclei familiari. In realtà, i segnali positivi in questa direzione non mancano e arrivano in particolare dal confronto tra le tariffe relative all’adesione di tipo collettivo o individuale a una polizza long term care: oltre a garantire costi inferiori, una soluzione di tipo collettivo costituirebbe un’opzione di grande valenza sociale, poiché garantirebbe una copertura a prezzi accessibili, e dunque democratica, vale a dire non discriminante rispetto alle capacità economiche dell’iscritto e rispetto ai diversi “profili di rischio” del soggetto assicurato all’interno della platea di riferimento.
 
Con l’effetto di garantire automaticamente copertura anche a quanti ne hanno più bisogno. La questione dunque che oggi si ripropone con più urgenza è dunque come ripensare i modelli assistenziali di RSA e come costruire una forte rete di domiciliarizzazione, a diversa intensità di cura, rivedendo modalità operative, contesti di accoglienza (cohousing o altre esperienze), integrazione sociale e sanitaria in rapporto ai fabbisogni reali della persona. Occorre far presto però.
 
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità
26 aprile 2020
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