La mortalità è l’outcome principe naturale di come la sanità tuteli e curi la salute collettiva, con il suo tradizionale percorso di “prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”. Pensate se in un Paese o in una Regione per cancro o per malattie cardiovascolari si morisse decine di volte più che in altre aree geografiche? Ebbene accade per Covid in Lombardia, a NYC o Madrid e in altre aree avanzate del mondo.
La mortalità da Covid, al 5 aprile, è in Lombardia di 89 decessi x 100.000 abitanti, Madrid 75,4; NYC 26,2; nel resto d’Italia 13,9; Fr. 11,3; Uk 7,4; Germ. 1,7 (vedi tabella).
Con nelle aree più rosse anche molti più decessi di quelli ufficiali, come dichiarato dalle stesse Istituzioni
In sintesi: ad oggi un abitante della Lombardia ha almeno 52 volte più probabilità di morire di Covid di un tedesco. Un Madrileno 44, un Newyorkese 15, la stessa di un Italiano in altre Regioni.
Eppure ci sono ospedali in Lombardia, come a Madrid o a New York, e i loro operatori, che sono il massimo dell’eccellenza, della competenza, organizzazione e tecnologia.
Quindi come si spiega tanta mortalità? C’è un bias nell’attribuzione delle cause di morte, la primigenia questione del decesso “per Covid” o “con Covid”? Può darsi avvenga tra Paesi diversi, meno tra le nostre Regioni, dove eppure la mortalità tra esse differisce di molto (89 vs 13,9)
Ma la mortalità record in Lombardia non si allinea con la sua morbilità, in cui i casi x 100.000 abitanti, sono più elevati a NYC e Madrid dove la mortalità è inferiore: in Lombardia ci si ammala di meno che a NYC o Madrid ma si muore di più.
È la morbilità lombarda errata perché i contagiati reali sono molti di più di quelli ufficiali (test effettuati)? Probabile. Per avere il dato OCSE di letalità (decessi su contagiati), il 6%, essendo in Lombardia il 17,6%, i contagiati reali in Lombardia dovrebbero essere il triplo di quelli ufficiali, il doppio del resto d’Italia (8,9%), 12 volte quelli della Germania (1,5%).
Il problema in Lombardia, notoriamente, è stato proprio il numero record di contagiati tutti insieme in pochi giorni, un improvviso travolgente tsunami che ha sovraccaricato oltre il limite ospedali e rianimazioni, inficiandone incolpevolmente l’efficacia e aumentando i tassi di letalità e mortalità. In altre parole, la quantità ha inficiato la qualità della risposta.
Lo tsunami non è stato frenato per la mancanza di presidi territoriali a fare da filtro, portando al massivo ricorso ai pronto soccorso che, insieme alle conseguenti degenze, ha trasformato gli ospedali, in particolare quelli piccoli e medio piccoli (anomalia italiana finora poco analizzata ma forse rilevante in merito) paradossalmente in micidiali vettori di diffusione, portando l’R0, l’indice di riproduzione, in doppia cifra. Il SSN che anziché limitarne la diffusione l’ha amplificata.
La pandemia andava invece combattuta prima di arrivare a intasare ospedali e rianimazioni in una battaglia al limite dell’impossibile, agendo sul territorio in prevenzione. Naturalmente è facile disquisire col senno di poi.
Il punto è che oggi i più avanzati sistemi sanitari sono basati sull'archetipo del modello di assistenza focalizzato su cure ospedaliere e acute ("Patient Centered"), invece nell’algoritmo prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione serve rivedere i rispettivi pesi specifici, con più prevenzione e territorio (il modello "Community Centered") su cui pianificare, disegnare e gestire la sanità in modo integrato.
Perché alla fine della guerra, quando ognuno conterà definitivamente i propri morti, qualcuno ne avrà da piangere molti di più. E avrà il diritto di saperne il perché.
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria