La vera difficoltà a scrivere per rendere l’idea di che cosa abbia provocato la pandemia da SARS-CoV-2 sulle persone e sul Servizio Sanitario Nazionale risiede nella consapevolezza dell’impossibilità di farlo: per quanto i media, le tecnologie, il web abbiano reso accessibili a tutti immagini, informazioni, nozioni e studi scientifici, la dura realtà è che abbiamo tutti dovuto misurarci con la scarsa conoscenza di questo nuovo agente etiologico, dell’epidemiologia e dell’evoluzione clinica o subclinica, della dinamica del contagio anche da parte di persone asintomatiche, ecc.
Forse perché mossi da un inguaribile ottimismo eravamo portati a sognare che, data l’eccezionalità e la severa gravità della pandemia che ha travolto il mondo intero, nel nostro Paese il problema della responsabilità professionale sanitaria non si sarebbe dovuto nemmeno porre.
E invece una preoccupazione crescente ha cominciato a serpeggiare fra i professionisti, ingigantita dalle proposte di polizze per una specifica copertura, fino alla comparsa di infortunistiche che online offrono consulenze legali e medico-legali in materia, sia sul versante del contenzioso del lavoro (mancanza di dispositivi per gli operatori sanitari e socio-sanitari), sia della responsabilità penale e civile (cui consegue quella per danno erariale).
Peraltro, l’impellente necessità di approntare nuovi posti letto nelle strutture sanitarie per il trattamento dei pazienti malati più o meno gravemente (quindi anche di terapia intensiva ad altissima complessità assistenziale), la compartimentazione dei pazienti con sospetta infezione ancora in fase di accertamento dai pazienti “no-COVID”, ha richiesto una profonda riorganizzazione delle strutture sanitarie non solo in tempi rapidissimi, ma anche come continuo work in progress, in relazione alla velocissima mutevolezza dello scenario e dei bisogni sempre crescenti della popolazione.
In questo contesto si sono inserite una congerie di norme susseguitesi – inevitabilmente – con un ritmo incalzante e, talora, nemmeno di facile interpretazione e così sintoniche fra loro, né sul versante nazionale, né su quello regionale, talora con netta antitesi fra le componenti del mondo scientifico (anche internazionale) e fra queste e i decisori politici.
A modesto parere di chi scrive, posto che siamo alle prese con una patologia che stiamo solo piano piano cominciando a conoscere e per il trattamento della quale non esistono né linee guida, né buone pratiche clinico-assistenziali universalmente riconosciute e/o accreditate, alla luce dell’abnegazione con cui i professionisti e gli operatori tutti stanno sacrificando i loro diritti (salute, vita, libertà, affetti), si ritiene che invece di inneggiare al loro eroismo (affilando le armi nemmeno poi tanto nascostamente), bisognerebbe pensare che, come afferma Ferrando Mantovani, hanno applicato la “miglior scienza ed esperienza del momento storico”, ovvero hanno fatto il miglior interesse di ogni persona-paziente-utente in base alle concrete possibilità contingenti e attuabili, con i mezzi a disposizione.
L’angoscia attanaglia anche gli operatori dei servizi sanitari e sociosanitari: la solitudine e la paura dei pazienti sono le stesse loro, il vederli morire soli, l’autosegregazione a cui sono costretti anche con i colleghi, oltre che con i loro familiari, la frustrazione di vedere i pazienti stare male e di non poter fare di più, di non conoscere, di non capire, di non potere, è profondamente devastante. E la consolazione di sapere – o almeno di sperare – che, ex post, entreranno in gioco le esimenti codicistiche, è veramente troppo piccola…
Questo, dunque, lo scenario che Covid 19 ha spalancato improvvisamente davanti a noi ed alle nostre fragilità. Di fronte a questa sfida - fino a ieri inimmaginabile, dal sapore vagamente cinematografico ma drammaticamente reale – gli antichi e stantii temi della responsabilità sanitaria si decolorano per assumere una nuova luce, tagliente e non oscurabile.
Non è più il tempo di pensare alla responsabilità in chiave patologica e inquisitoria, quale strumento di una ricerca ossessiva del colpevole sul quale riversare un dato carico risarcitorio. É questo invece il momento di ripensarla e di ribaltare i paradigmi negativi, e passare dall’idea accusatoria di una responsabilità sanitaria (quale rimedio patologico) a quella solidale di una sanità responsabile (come missione da proteggere). Era questa, del resto l’idea che stava alla base della legge 24/2017, che per prima ha invertito espressamente l’ordine delle priorità, ponendo la sicurezza delle cure e, soprattutto, la tranquillità dei suoi interpreti, come primo obiettivo da raggiungere per garantire la miglior protezione dei pazienti.
Il Covid 19, se non altro, ha avuto il merito di imprimere una bruciante accelerazione alla consapevolezza del nostro ruolo di cittadini di uno Stato sociale, di cui le strutture sanitarie, i medici e tutto gli operatori della sanità costituiscono corpo ed anima. É per loro, e con loro, che tutti i cittadini dovrebbero unirsi in un unico slancio solidale, assumendo l’impegno ad imbastire la trama nelle rispettive possibilità di ciascuno, di una “responsabile” resistenza al “nemico” comune. Il tutto, come altrove si è già scritto, riportando il concetto sacro di “salute” entro un perimetro meno egoistico, sviluppato non solo lungo le direttrici di tutele e diritti assoluti, ma anche di doveri inderogabili di cooperazione e mutuo e reciproco sostegno.
Purtroppo, però, questa consapevolezza è di molti, moltissimi, ma non di tutti.
Vi è chi, annusando l’odore dei cadaveri, sta già provando ad organizzare una nuova industria del sinistro e del risarcimento, capace di promettere facili danari a chi oggi non ha ancora asciugato le proprie lacrime per aver perso o visto soffrire un proprio caro. Ed il terreno per far attecchire discutibili speculazioni sembrerebbe fertile, in un contesto in cui le buone regole di organizzazione dei presidi sanitari sono state sconvolte dalla necessità di far fronte ad un’urgenza catastrofale, con risorse e mezzi limitati rispetto alla gravità della situazione.
Chi volesse provare ad imbastire contenziosi avrebbe dunque più di un pertugio all’interno del quale provare ad inserirsi. Con esiti, però, niente affatto certi, anzi. L’intempestività di tali iniziative è sotto gli occhi di tutti ed anche il “cuore” di un giudice non potrebbe, a nostro parere, non tenerne conto.
Attaccare chi ci difende, rompendo quel che rimane di una già precaria “alleanza” terapeutica, sembra un esercizio oggi più che mai deplorevole e comunque probabilmente perdente; non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche, e più semplicemente, in applicazione dei principi ordinari che regolano la responsabilità civile sanitaria. Al di fuori di casi di macroscopica sciatteria, e di colpa grave ben qualificata, il concetto stesso di emergenza, enfatizzato dal Covid, consente di per sé di applicare alle professioni sanitarie le limitazioni previste dall’art. 2236 c.c. per i casi di particolare difficoltà: e la drammatica urgenza di questi tempi rende spesso intuitivamente difficili anche le cose normalmente facili. Sennonché, che le si vinca o le si perda, il fatto stesso di dover fronteggiare una serie potenzialmente nutrita di nuove cause per Covid pare una eventualità da scongiurare con ogni energia, se non altro per evitare i costi umani ed economici da sprecare, in tali momenti di ben diverse necessità per imbastire le difese in giudizio.
É per questo che, anche sulla spinta di chi ha a cuore il problema (Federsanità, FIASO e
Federico Gelli) si è lavorato ad una norma che, senza deresponsabilizzare i casi di macroscopica rilevanza, rilegga l’esimente della colpa grave al filtro delle straordinarie difficoltà, tecniche e logistiche, in cui tutto il settore si è trovato ad operare. L’ultima versione, non del tutto coincidente con quella inizialmente concepita, presenta forse alcune incongruenze (il differente regime di esenzione per le condotte gestionali o amministrative e l’eccessiva apertura del primo comma). Confidiamo comunque nell’assoluta attenzione e serietà con cui il Ministero della salute ed il Governo hanno preso in considerazione la questione.
In ogni caso, il coraggio di chi mette in gioco la propria vita per farsi carico di drammatiche situazioni d’urgenza deve essere plaudito e tutelato. E, per chiudere, una piccola provocazione: assistere ad un contenzioso promosso dagli eredi di un paziente contro gli eredi del medico che è deceduto (perché infettatosi nel tentativo di salvargli la vita) è un paradosso etico e morale a cui tutti noi, ne sono certo, guardiamo con un certo disgusto.
Maurizio Hazan
Avvocato
Alessandra De Palma
Risk Manager