Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che rende lecito l'aiuto al suicidio in determinate e precise condizioni cliniche,
la posizione della FNOMCeO che stabilisce la non punibilità del medico che, seguendo le indicazioni della Corte, contravviene all'art. 17 del Codice Deontologico, è stata oggetto di discussione senza suscitare quell'ampio dibattito che il tema avrebbe meritato.
La Commissione Deontologica della Federazione ha predisposto un documento, che mi auguro venga reso pubblico perché contiene alcuni spunti di discussione sulla reale portata del problema, che non risiede tanto nell'atto con cui si pone termine alla vita quanto nel profondo cambiamento che l'esasperata tecnologia ha provocato sul vissuto della morte (un apparente ossimoro!) nella società.
Nella mozione del 20.01 2020 "sull'accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamento sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita", Il
Comitato Nazionale di Bioetica introduce il neologismo "accanimento clinico", rifiutando l'uso del lemma "terapia" a "proposito dell'inizio di trattamenti inefficaci o della prosecuzione di trattamenti divenuti inefficaci in relazione alla cura o alla qualità della vita della persona o tali da arrecare ulteriori sofferenze o un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici".
Un giudizio importante sui limiti della medicina nei casi a prognosi sicuramente infausta e che richiedono trattamenti gravosi. Il CNB affronta lo spinoso tema dell'omissione di soccorso che esprime le contraddizioni della società e l'arretratezza del diritto, non esitando, tuttavia, a definire con durezza il futile uso dei sofisticati strumenti della medicina quale "accanimento tecnologico" che può sfociare in "accanimento sperimentale". La L. 219/17 ha colto nel segno!
Indicazioni importanti e attuali, queste del Comitato Nazionale, espresse all'unanimità: un'ottima partenza per la riflessione che gli Ordini dovrebbero iniziare, coinvolgendo esperti di molteplici discipline biologiche e umanistiche, i cittadini e i rappresentanti delle confessioni religiose.
Il problema è antropologico ed emerge per la frequente deriva della morte in un processo guidato dal medico; talora una lunga agonia non è frutto della reazione naturale dell'organismo bensì di sofisticate tecniche. La fine avviene non quando ha deciso madre natura o il Dio in cui il paziente crede ma per il combinarsi dell'onnipotenza del medico con il rifiuto della morte da parte della società.
Ma qual è il best interest del paziente e chi lo decide? Le religioni si affidano alla tecnologia contrastando il suicidio e diffidando dell'interruzione delle cure. Però il problema è sentito dalla gente che sembra, per molto segni, matura per favorire l'eutanasia nelle condizioni terminali descritte dalla Consulta e quando il paziente la vuole.
Significativo è il caso della piccola Tafira Raqueeb. Le condizioni della piccola, completa distruzione cerebrale, consigliavano ai medici inglesi la interruzione delle cure, ormai futili perché costringevano a una sopravvivenza priva di sbocchi. I genitori volevano prolungare a ogni costo questa sopravvivenza, avvalendosi degli strumenti disponibili, fino a che il cuore avrebbe retto, forti anche di una Fatwa del Consiglio Europeo Mussulmano.
Il giudice inglese chiamato in causa ha constatato come la bambina non fosse più in grado di avvertire dolore e pertanto ha consentito il trasferimento al Gaslini che si era dichiarato disposto a mantenere Tafira in terapia intensiva. Si pone un problema speculare rispetto al suicidio assistito. Non è il paziente competente che decide di por termine alla sua vita troppo dolorosa e insopportabile ma è il medico che percepisce una situazione senza sbocchi in cui il best interest del paziente è, ragionevolmente, di lasciare una vita non vita mantenuta solo dalle macchine.
Nessuno discute che, sempre, decide il paziente (il cittadino) o chi esercita la patria potestà. Però sorgono altre domande: che fare in caso di complicanze? Fino a qual punto spingere il supporto tecnologico? Fino al sopravvento delle forze della morte che s'oppongono alla vita, ribaltando il pensiero di Bichat? Quando è il momento delle sole cure palliative e perché non si sono praticate fin dall'inizio essendo chiara la clinica e la prognosi?
Infine, e non abbiamo paura delle parole, chi paga? Sarebbe opportuno un accordo esplicito, anche se queste situazioni costituiscono una sorta di enclave emotiva che tuttavia non si colloca al di fuori dell'economia del paese e delle esigenze di tutti.
Queste decisioni appartengono ai giudici? E' opportuno chiarire il pensiero dei medici perché il modo e gli strumenti con cui si affronta la morte rappresenta uno snodo fondamentale della professione. Per millenni la deontologia e la legge hanno vietato ai medici di favorire o di dare la morte. Ma la scienza e la società sono cambiate e la discussione etica deve precedere qualsiasi decisione giuridica o politica o deontologica.
Un aforisma di Ippocrate sostiene che la medicina ha tre componenti, il medico, il paziente e la malattia. Oggi non è più vero: oggi la professione si misura con l'economia, la politica, il diritto, la società. I medici hanno deciso in autonomia sulle conseguenze per la professione della sentenza della Consulta sul suicidio assistito; ora debbono ampliare il loro orizzonte per evitare che "l'accanimento tecnologico" ne metta in crisi la coscienza e li allontani ancor di più dalle esigenze umane dei pazienti.
E' vero: gli argomenti che dominano il dibattito sono squisitamente politici, compreso il tentativo di controllare una possibile pandemia. Problemi troppo più visibili e pubblici rispetto a quello della "morte medicalizzata". Tuttavia penso che le grandi questioni antropologiche, con il loro carico di etica pubblica, influiscano sulla struttura profonda della società e quindi sia opportuno "trovare il tempo" per chiarirle a noi stessi.
Antonio Panti