Sulle reali possibilità da parte del ministro Speranza di “rafforzare” il nostro malridotto SSN recentemente ho espresso dubbi (
QS, 4 gennaio 2020). Colpa dei capelli bianchi.
Ma, in questi giorni, è accaduto un fatto che secondo me in sanità, costituisce un dato politico rilevante e rispetto al quale, onestà intellettuale, almeno la mia alla quale tengo davvero molto, vuole che anche i capelli bianchi si diano una regolata, che è l’affermarsi di una netta differenza strategica tra il PD e il ministro Speranza, differenza che, dico subito, saluto con immenso favore.
La differenza strategica
Il PD riunito a Contigliano (
QS, 15 gennaio 2020) perdendo del tutto una visione strategica della sanità ci ripropone, nel punto 5 del suo documento finale, la solita logora “lista della spesa” dal malcelato sapore elettoralistico (aumento di 100 euro l’anno, per 3 anni, dell’indennità di accompagnamento, l’infermiere di comunità e condominio per l’assistenza domiciliare ai malati, legge per la non autosufficienza, gratuità delle cure odontoiatriche per famiglie con reddito Isee fino a 30 mila, eliminazioni liste d’attesa)
In ragione di quel meccanismo che, nella logica degli algoritmi, si chiama “recursione” a Contigliano il PD ricorre nel PD prigioniero del solito PD, cioè un partito neoliberista e contro-riformatore che oggi dice di volersi rinnovare fino a cambiare il proprio nome, ma che, sulla sanità, non ha espresso nessuna intenzione di cambiamento e meno che mai è disponibile all’autocritica pur avendone fatto di tutti i colori.
Il ministro Speranza, a differenza del PD, ammette la possibilità, tante volte denunciata su questo giornale, che la nave possa affondare e parla di:
• “cambio di passo in generale”,
• “coraggio di adeguare il Ssn al tempo nuovo che viviamo”,
• ripensare il SSN quindi riforma,
• di un grande patto per il paese ben oltre il patto per la salute”,
• 2020 come “l’anno della svolta”. (
QS, 10 gennaio 2020).
Cioè ci propone la strategia della riforma per rilanciare il SSN. Quindi una prospettiva. Il PD suo ex partito e ora suo alleato di governo e da sempre il gestore della sanità, no.
Davanti a ciò, nell’interesse della sanità, lo sforzo del ministro Speranza anche per gente disillusa e scafata, non può essere ignorato, al contrario va incoraggiato, rendendosi disponibili, eventualmente, anche a dare una mano. Perché credetemi, riformare per davvero la sanità, con tre riforme alle spalle andate complessivamente non proprio bene, non è un’impresa facile.
Cosa vuol dire essere dei riformatori
Ancora non ho capito cosa il ministro Speranza intenda esattamente per “riforma”, ma prendo atto dei suoi propositi che personalmente interpreto come politicamente rimarchevoli in rapporto a due ambiti diversi e complementari, molto precisi:
• quello della sanità, ovviamente, perché ormai da molti anni sostengo pubblicamente la necessità di una “quarta riforma” con lo scopo di attuare fino in fondo la prima,
• quello più politico del riformismo perché, sembrerà una ovvietà, ma per fare delle riforme bisogna essere dei riformisti, sapendo che non si diventa riformisti per caso o solo perché si ha voglia di riformare il mondo.
Per essere dei riformisti bisogna, prima di tutto:
• avere coerenza e coraggio per seguire degli ideali,
• quindi bisogna studiare perché le riforme si fanno solo in subjecta materia,
• poi bisogna pensare onestamente ciò che si è studiato per inventare quello che serve.
Non si tratta solo di problem solving alla Popper, cioè di capire in che modo si possono trovare soluzioni tecniche per risolvere problemi tecnici, ma soprattutto di rimuovere limiti, aporie e contraddizioni culturali, sociali, scientifiche, economiche disponendo se possibile di un’immaginazione esperta, cioè non campata per aria, in grado di inventare con un pensiero speciale la sanità che vorremmo, ma che ancora non esiste. Cioè in grado di inventare nei confronti di una comunità o di una società un cambiamento vero con il minimo di effetti collaterali.
Rizomatico contro lineare
La vera difficoltà di una nuova riforma sanitaria è governare una notevole complessità con delle idee capaci di interconnettere un mondo a molti mondi che i più vedono distanti separati incomunicanti. La differenza tra il problem solving che come logica intravedo dietro a molti propositi di cambiamento in circolazione, e un approccio riformatore, è quello che passa tra un ragionamento lineare e in ragionamento, che Guattari e Deleuze (
Mille piani) avrebbero definito “rizomatico” quindi tra la carota e la gramigna.
Un rizoma, come è noto, è un fusto sotterraneo lineare orizzontale, su cui a intervalli si formano dei nodi da cui si dipartono altre diramazioni. Rizoma vuol dire connessione e ragionare in modo rizomatico come direbbe Calvino, vuol dire rendere visibili, concetti complessi, che intersecano a loro volta molteplici significati.
Intelligenza artificiale, digitalizzazione, e-care
Sento giustamente parlare di digitalizzazione, di intelligenza artificiale, e da anni, grazie a autori come Moruzzi ed altri, di e-care, come leva archimedea per riformare la sanità e addirittura come riforma tout court. Non c’è dubbio che l’intelligenza artificiale come ha ben evidenziato Grazia Labate, (
QS, 12 gennaio 2020) è sul serio uno snodo cruciale del cambiamento, ma proprio perché essa è come dicono gli esperti, la perfetta rappresentazione del pensiero rizomatico, come è possibile riformare la sanità attraverso una organizzazione digitale rizomatica con un pensiero lineare, tecnico o con la semplice logica del problem solving? Cioè pensando che per riformare basterebbe distribuire a tutti dei palmari? È del tutto evidente che la riforma della sanità attraverso l’intelligenza artificiale implica un profondo cambiamento del paradigma organizzativo, un ripensamento delle prassi professionali, del modo di pensare, delle relazioni con i malati e non c’è dubbio, se si pensa a Babylon health, che si tratta di un processo che offre enormi vantaggi ma che non è privo di rischi.
Insomma riformare la sanità non è una passeggiata. Essere rizomatici significa evitare le semplificazioni, le scorciatoie, la banalizzazione dei problemi, la troppo facile logica del problem solving, questo, almeno in sanità, è il primo obbligo intellettuale del riformatore.
Ma quale riforma? E in che modo? Quali end point?
Prima di decidere quale riforma del SSN molte sono le cose da ponderare, si tratta di:
• comprendere dopo ben tre riforme fatte perché se ne deve fare una “quarta” e se la riforma che si vuole fare è una “quarta riforma” oppure no,
• capire se la riforma è un insieme di riforme o se è una riforma quadro che affronta un sistema di problemi,
• capire se i cambiamenti necessari sono a sistema invariante oppure no,
• di definire il concetto di riforma il suo dominio la sua estensione,
Insomma si fa presto a dire “riforma” ma prima bisogna chiarire che cosa, come, perché, in che modo, con quali tempi, cioè prima bisogna definire un progetto di sanità pubblica. Con quale progetto il ministro Speranza intende riformare la sanità? Cioè quali sono le sue idee di riforma?
Speranza, recentemente, in un video, ha spiegato, rivolgendosi significativamente alle professioni, che una questione che lui vorrebbe affrontare con loro è il rapporto ospedale territorio definendo, quella del territorio, una “grande questione”.
Che il ministro discuta di riforme con le professioni lo trovo personalmente molto importante significa che l’idea di riforma non può fare a meno di quella del lavoro perché come ho già detto tante volte solo il lavoro che cambia, in sanità, può garantire un vero cambiamento riformatore. E’ quando il lavoro resta invariante che le riforme non camminano. Il senso politico degli stati generali Fnomceo è ripensare il lavoro medico per ripensare la sanità e l’esercizio della medicina.
Il mito del territorio
L’approccio del ministro al territorio è un approccio “tradizionale” che di nuovo non ha molto. Sono 40 anni che, legge dopo legge, diciamo che il territorio è una “grande questione”. Come ho scritto da poco (
QS, 9 gennaio 2020) per me la “questione ospedale” non è meno “grande” di quella del territorio, anzi in certi casi è più grande. In Calabria ad esempio e non solo, personalmente se potessi, anche per ridurre la mobilità sanitaria, metterei a posto prima di ogni cosa gli ospedali. So bene che esiste il problema della cronicità e della non autosufficienza ma resta anche quello insopprimibile dell’acuzie e degli ospedali in disarmo.
E poi per me:
• ha poco senso mettere in concorrenza un ictus con l’alzhaimer,
• nella logica di complementarietà tra servizi è sbagliato dire che un servizio è più importante di un altro.
Ma fa niente, accettiamo pure la “grande questione” del territorio, ma quali le idee di riforma?
Nella mia “quarta riforma” ho sostenuto che probabilmente la causa del mancato conseguimento dell’integrazione va trovata a monte, cioè nell’errore di impostazione fatto con la riforma del ‘78 che, anziché riformare, puntando ad un sistema unico, il sistema duale territorio e ospedale sancito negli anni trenta, copiando gli inglesi ha mantenuto non una semplice divisione e separazione tra due diversi tipi di servizi ma una vera e propria dicotoma, per sua natura non integrabile. Da anni dico che l’ospedale storicamente non è nato per integrare ma per separare. Dicotomia del tutto confermata dalle riforme successive in particolare dalla riforma ter che sul distretto e sul territorio si era spesa molto.
Non si integra niente se non si cancellano le dicotomie
Una dicotomia in sanità è la divisione di un unico concetto di cura e di assistenza in due parti, cioè in due normative sanitarie distinte che sino ad ora non sono riuscite né ad essere complementari né ad integrarsi.
Se è così come io credo allora “riformare” dovrebbe significare superare un sistema duale e dicotomico per un sistema unico ma in che modo? Cioè a quali condizioni strutturali, normative e organizzative? Vorrei far notare che nella grande dicotomia ospedale territorio rientra a livello medico quella tra lavoro convenzionato e lavoro dipendente, cioè due definizioni contrapposte di lavoro che alla fine proprio perché dicotomiche rendono quasi impossibile qualsiasi integrazione.
E’ difficile fare riforma se si pensa di integrare l’ospedale e il territorio a dicotomie invarianti. La digitalizzazione tra le altre cose è un modo proprio per superare le dicotomie. Ma le dicotomie vanno ridiscusse e per ridiscuterle serve riformare e profondamente.
Stesso discorso vale per il territorio, nel sistema duale i distretti nascono dicotomici nei confronti dell’ospedale, ma che succede dei distretti e degli ospedali se la dicotomia viene superata? Con i riordini regionali le aziende sono state accorpate raggiungendo dimensioni gigantesche, per cui la nozione di territorio rispetto alla quale si è definito il distretto è saltata per aria. Vi ricordate il distretto di 5.000 abitanti? Oggi i distretti spesso sono di 500.000 abitanti. Il territorio di cui parla il ministro Speranza insieme al discorso “casa per la salute” implica una ridefinizione del distretto e della sua organizzazione, ma quale altro distretto è possibile? Ma la domanda è: ha senso mantenere il distretto come un sub sistema che in certi casi ha perfino autonomia gestionale?
Non si riforma se prima non si fa un bilancio
Avremo tempo e modo di discutere delle idee necessarie per fare una riforma ma su una cosa io resto convinto: non si può fare nessuna riforma della sanità se prima:
• non si fa un bilancio e una radiografia di almeno 40 anni di politiche e di leggi sanitarie in senso tanto diacronico che sincronico,
• non si capisce come sia andata, dove si è sbagliato, cosa è stato fatto e cosa non è stato fatto, quali siano le contraddizioni da rimuovere e quali cambiamenti ci hanno resi regressivi.
Noi 40 anni fa abbiamo superato un vecchio e inefficiente sistema assistenziale quello mutualistico con un forte problema di insostenibilità e di regressività culturale, oggi dobbiamo capire perché il SSN, cioè quello che ha sostituito le mutue, non ha risolto né il problema della sostenibilità e nemmeno quello della regressività culturale. La mia idea è che alla fine abbiamo riformato poco e male. Ma se questo è vero noi riformeremo davvero solo se riusciremo a inventare un servizio sostenibile e non regressivo. Quindi cosa vuol dire riformare e riformare bene?
Board e cantieri
L’ultimo paragrafo della mia “quarta riforma”, si conclude con la proposta di mettere in piedi un board nazionale, un collettivo pensante e rizomatico fatto da esperti scelti per l’occasione dal ministro, però diretto e coordinato da un esperto di rizomi e di complessità, con un mandato di lavoro preciso e con il compito di produrre per il governo in un tempo determinato un rapporto sui problemi di riformabilità del sistema.
La proposta del board, quella che altri oggi chiamano “cantiere”, fu da me presentata al ministro Grillo in modo del tutto pro bono, che sulle prime accettò per poi far cadere incautamente la cosa cedendo alla opposizione interna dei suoi direttori generali che si sentivano espropriati del controllo sul progetto. Ancora conservo le loro burocraticissime contro proposte. Per me un grave errore politico.
Se la Grillo avesse capito la portata politica della proposta probabilmente lei sarebbe ancora ministro della salute e avrebbe potuto offrirci quella strategia riformatrice che nessun governo fino ad ora ha saputo proporci. Ma come diceva mia nonna, i limiti limitano. Chiedo: se dalla torre bisogna buttare giù qualcuno rischia di più un ministro debole o un ministro forte?
Fare qualcosa di sinistra
Io spero che il ministro Speranza, anche per il suo brillante futuro politico, non commetta l’errore della Grillo. Bisogna partire da un bilancio perché dobbiamo capire davvero come la storia sia andata effettivamente.
Se il ministro, come mi sembra di capire, intende evitare di fare un bilancio politico puntando direttamente come un impavido problem solver a risolvere alcuni grandi innegabili problemi (programmazione, rapporto tra territorio e ospedale, digitalizzazione) non ho alcun problema a dire che la sua idea pur importante di riforma, potrebbe rivelarsi alla lunga come un ballon d’essai.
Ministro, capisco che lei con dietro le terga una famelica sanità privata, con le regioni smaniose di autarchia, con sul groppone diseguaglianze incivili, voglia darsi da fare, o almeno provi a “fare qualcosa di sinistra”, per citare Moretti, e mi creda lo apprezzo molto, ma prendere la strada più facile e ignorare per evitare rogne i problemi strutturali della sanità, non vuol dire prendere la strada giusta. Mi creda, se vuole riformare la sanità, il sistema non può restare invariante.
Le cose che vuole lei le vogliamo tutti ma prima di ogni cosa ci piacerebbe avere attraverso una riforma un sistema:
• più pubblico per essere più equo e quindi più universale,
• più sostenibile per non dipendere dal pil,
• più adeguato ai bisogni della gente per essere meno regressivo e avere l’indispensabile approvazione sociale,
ma soprattutto in grado di durare nel tempo a dispetto dei cambi di governo, dei rovesci della sorte e delle fluttuazioni economiche. Quindi praticamente sempiterno.
Conclusioni
Veda ministro lei può anche programmare oltre i silos, integrare meglio l’ospedale con il territorio, digitalizzare tutto quello che vuole, ma se, alla fine della fiera, lei non volendo mettere le mani nelle distorsioni di sistema, perde anche solo una parte della sanità pubblica, non risolve la questione fondamentale della giustizia come equità, e il SSN resta alla stregua del vecchio sistema mutualistico, culturalmente inadeguato, lei, e noi con lei, facciamo comunque un pessimo affare, quello che a Roma, con un certo sarcasmo, noi chiamiamo “il guadagno di Maria Cazzetta”.
Ivan Cavicchi