Ho letto con una certa preoccupazione gli interventi su QS (
Qs 24 ottobre 2019, intervento di
Vimercati,
Qs 20 dicembre 2019,
Rodriguez e Benci e
Qs 23 dicembre 2019, intervento di
Cavicchi) sul tema dell’informazione al paziente propedeutica all’espressione del consenso e a chi spetti. Preoccupazione perché la materia è delicata e fonte di responsabilità civile e penale, e necessiterebbe quindi di chiarezza. La chiarezza che la legge 219 del 2017 “
Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” si proponeva di fare.
Premetto che nei molti incontri avuti in tutt’Italia di presentazione e illustrazione della legge 219/2017 mai mi è stato sollevato un conflitto di competenze ma spesso mi è stato detto che il consenso informato si riduce alla firma di un modulo, a volte accompagnato a quello sulla privacy, allungato da un operatore al paziente in fila. Va allora ricordato che la sola firma non esonera da responsabilità, come già chiarito dalla Cassazione, e che questo ha poco a che vedere con la legge 219 del 2017 cioè la legge sul consenso informato.
La mia impressione è che l’argomento del consenso non sia nella pratica oggetto di contenzioso tra professioni, piuttosto sia visto come una incombenza burocratica di cui liberarsi. Naturalmente molto dipende dalla situazione. E’ diverso infatti acquisire il consenso per un delicato intervento chirurgico da quello per una Tac di controllo, diverso è dover comunicare un prognosi infausta dal comunicare una gravidanza. Il tipo di comunicazione e le modalità sono diverse.
La legge pone dei principi di carattere generale e si aspetta una applicazione saggia caso per caso, tipologia per tipologia. La responsabilità di una corretta e pratica applicazione della legge è in capo alle organizzazioni sanitarie pubbliche o private e questo mi sembra non sia stato colto negli interventi che ho letto.
Aggiungo che gli interventi di commento sopracitati non sempre distinguono l’informazione dalla comunicazione e dal consenso informato. L’informazione è solo una parte del processo di comunicazione con il paziente propedeutico all’espressione di un consenso libero e informato. La comunicazione non è solo dare informazioni, implica anche l’ascolto del paziente, la risposta alle sue domande, la verifica che abbia compreso quanto gli è stato detto. E’ un processo che può richiedere più incontri e il coinvolgimento di più soggetti. A questo si riferisce la legge quando dice al comma 8 dell’articolo 1 che
il tempo della comunicazione è tempo di cura.
Il consenso è la base della relazione di cura, che si instaura tra medico e paziente e che vede coinvolti gli altri professionisti della sanità in un lavoro in equipe. E’ il comma 2 dell’articolo 1 della legge 219 ed è a mio parere chiarissimo. “
è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. Contribuiscono alla relazione di cura in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe.” Spetta al medico la responsabilità della relazione di cura a partire dal consenso.
Poiché però il consenso non esaurisce la relazione ma ne è il punto di partenza il coinvolgimento delle altre professioni e in primis dell’infermiere che il paziente lo vede ogni giorno, è previsto e valorizzato dalla legge e dovrà esserlo nella pratica nei modi e nei termini previsti dall’organizzazione di quel reparto. Proseguendo nell’esemplificare: in un intervento chirurgico non c’è solo un consenso prima dell’intervento c’è la fase post operatoria nella quale la richiesta di informazioni e di rassicurazioni inevitabilmente aumenta e il coinvolgimento degli infermieri sia nell’interlocuzione con il paziente e i suoi familiari sia con i medici è indispensabile.
Ma cosa succede se l’esercente una professione sanitaria agisce in proprio, nella sfera della sua autonomia professionale in base alle proprie competenze? La legge 219 non affronta esplicitamente questa questione perché era in discussione contemporaneamente quella che sarebbe diventata la legge 3 del 2018, legge nella quale autonomia e responsabilità sono riconosciute a diverse professioni sanitarie. Le due leggi vanno quindi viste insieme. La legge 219 al comma 3 dell’articolo 1 fa una affermazione di carattere generale e di derivazione costituzionale: ogni persona ha diritto di sapere. Può non voler sapere e questo suo desiderio va rispettato ma in generale ha diritto di sapere quali siano le sue condizioni di salute, le terapie proposte, i rischi che comportano e ha diritto di esprimere il consenso.
Quindi se lo psicologo (a pieno titolo ora con la legge 3 facente parte delle professioni sanitarie) propone una terapia con diverse sedute deve o non deve acquisire il consenso con il processo di informazione - comunicazione precedentemente delineato? Secondo la legge 219 deve acquisirlo e, aggiungo, anche nel caso di intervento su minori va applicata la legge 219/2017.
Quando l’ostetrica, la professione sanitaria la cui autonomia è più antica, visita la donna gravida e le dà suggerimenti e consigli siamo all’interno di una relazione di cura ? Si e i suoi obblighi informativi sono gli stessi.
Nel campo della riabilitazione quando letteralmente si mettono le mani sul corpo del paziente è possibile che questo avvenga senza il consenso del paziente? Ovviamente no.
Il diritto del paziente a essere informato in modo a lui comprensibile, il suo diritto a accettare o rifiutare quanto proposto è lo stesso chiunque sia il professionista esercente una professione sanitaria riconosciuta.
Riassumendo, in generale è compito e responsabilità del medico acquisire il consenso e il consenso è alla base della relazione di cura nella quale possono essere coinvolti anche, con compiti informativi, altri professionisti secondo modalità organizzative previste e in clima di relazione positiva e collaborazione tra professioni.
È compito e responsabilità dei vertici delle strutture sanitarie organizzare e garantire le condizioni migliori per favorire la comunicazione con il paziente (articolo 1 comma 9 “
Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale”).
Nei casi nei quali l’esercente la professione sanitaria agisca in autonomia, al di fuori di una struttura sanitaria pubblica o privata, nell’ambito delle proprie competenze professionali è ugualmente responsabile della corretta comunicazione e dell’acquisizione del consenso relativo alla sua prestazione professionale perché questo è un diritto del paziente costituzionalmente protetto.
C’è ancora molta strada da fare per una cultura orientata all’ascolto della persona affetta da malattia e per il rispetto delle sue decisioni. Sono certa che molti dei professionisti che leggono Qs sappiano che l’ostacolo maggiore all’applicazione della legge è culturale e si trova nelle famiglie che chiedono, per amore, di non dire, non far sapere, lasciar decidere a loro.
C’è un film recentissimo, “
The farewell - la bugia buona”, in cui questo conflitto tra dire e non dire è anche il conflitto tra due culture sulla famiglia, sulla vita e sulla morte assai diverse(anglosassone e cinese). Sono questioni globali meritevoli di riflessione anche nel nostro paese, se riusciremo ad andare oltre al conflitto tra professioni.
Dott. Donata Lenzi
Già relatore alla Camera dei Deputati della legge 219 del 2017