Chiudo questa riflessione sulla delibera del Veneto con una piccola silloge di paradossi. Capirete perché leggendo.
Primo paradosso: cambiare la geografia per cambiare il mondo
La delibera del Veneto in realtà è stata fatta non per chi lavora e meno che mai per i cittadini, ma, soprattutto, per attuare un ambizioso obiettivo strategico previsto nel PSSR 2019-2022 e che si chiama “trasformazione della geografia delle professioni sanitarie”.
Questa geografia ovviamente riguarda tutte le professioni in campo e si basa sul seguente ragionamento per altro molto ben esplicitato dal piano sanitario:
• c’è un profondo cambiamento della domanda di salute e di cura nella società,
• serve rispondere con una evoluzione delle competenze professionali,
• il mezzo per assicurare tale evoluzione è l’adeguamento degli skill-mix di tutti i professionisti.
Se per skill mix dice il piano, si intende la modifica nel “perimetro” di attribuzione delle competenze tra le varie professioni sanitarie allora, l’adeguamento che ci serve, è la modifica dei perimetri e dei confini tra gli ambiti professionali. Per cui le competenze avanzate altro non sono se non: la ri-connotazione delle professioni attraverso la ridefinizione dei loro confini.
Quindi una vera e propria ridefinizione topografica delle professioni in campo.
Personalmente sono d’accordo con la necessità di un cambiamento sono invece totalmente in disaccordo con questa strategia buona per i geometri ma non per noi. Oggi il lavoro è un problema in quanto tale e in quanto tale va ripensato. Limitarsi a ridisegnare i confini topologici non coglie i veri problemi del lavoro.
Ma a parte quello che penso io, chiedo a tutte le persone ragionevoli se:
• la trasformazione della geografia professionale non sia qualcosa che riguardi tutto il paese,
• vale la pena rischiare di diversificare regione per regioni le geografie delle professioni,
• una regione può decidere autonomamente di cambiare la geografia delle professioni?
Secondo paradosso: chi risparmia spreca
La delibera del Veneto si muove su un ragionamento economico molto rudimentale: il costo del lavoro può essere ridotto semplicemente trasferendo competenze da una professione retributivamente più costosa ad una professione retributivamente meno costosa. Cioè esso diventa una funzione lineare solo del livello di retribuzione dell’operatore: il lavoro che costa meno è meglio. Cambiare i confini descritti dalla geografia ha solo lo scopo di cambiare i costi della geografia si tratta in pratica di pensare ad una geografica più economica.
Due sono i paradossi in gioco: il primo è squisitamente etico e morale il secondo del tutto economico.
Il primo. La cosa grave è che in sanità sganciare il costo del lavoro dalla cura, quindi da nozioni più sistemiche come efficienza, rendimento, convenienza, efficacia, complessità, è molto pericoloso, perché l’operazione si presta a subordinare la cura ad un algoritmo del risparmio. Se la gente viene curata secondo questo algoritmo, la gente non sarà curata in base alle proprie necessità ma in base ai limiti e alle condizioni che l’algoritmo impone. Questo dal punto di vista deontologico resta profondamente immorale.
Il secondo. Le competenze avanzate inquadrate dentro un sistema di costi più complessivo, sono la vera rappresentazione dello spreco.
Nel loro insieme questi due paradossi dimostrano che, in medicina, l’immoralità è per definizione “antieconomica” nel senso di non essere mai conveniente per nessuno e che quello che sembra un guadagno se immorale è sicuramento uno spreco. Vediamo perché.
Lo Stato per formare i propri operatori assume come parametro di riferimento un certo concetto di cura (personalmente preferisco il concetto di “opera”). Nel momento in cui, per ragioni “geografiche”, si decide di ridurre il concetto di cura o di opera, ad una competenza, o a una sua parte, è come se sprecassimo tutta la spesa che è servita per formare alla cura e all’opera sia l’infermiere che il medico per di più aggiungendo a tale spreco le spese previste dalla delibera del Veneto per l’aggiornamento all’esercizio della competenza.
Queste le domande che pongo:
• che senso ha spendere dei soldi per formare degli infermieri alla cura per poi impiegarli solo per singole competenza o singole mansioni?
• Che senso ha formare un medico alla cura per poi togliergli delle competenze per allocarle ad altre professioni che a loro volta sono costate la spesa per la loro formazione?
A questi quesiti si può rispondere in tanti modi che però sposterebbero la riflessione verso i problemi del modello di formazione, di come programmare i bisogni formativi, del rapporto tra specializzazione e formazione, ecc. E non è il caso.
In questo articolo mi interessa solo dire che allo stato attuale, le competenze avanzate:
• nascono per risparmiare sul costo del lavoro ma in realtà sul piano dei costi più complessivi del sistema sprecano la spesa che è stata necessario spendere per formare ad una idea precisa di cura o di opera, i diversi operatori,
• sono esattamente in mezzo tra “chi perde” e “chi guadagna” il primo perde competenze cioè viene formato inutilmente per competenze che saranno garantite da altri, il secondo guadagna in nuove competenze ma perde tutte quelle vecchie che non agirà più e per le quali è comunque stato formato.
Chi risparmia spreca ma non si venga a dire che con le competenze avanzate spendiamo meno. Esse rappresentano una grave contraddizione economica nei confronti di tutto il sistema formativo in essere. Alla fine 100 ore di corso spiazzano anni e anni di formazione. Le competenze costano tutti gli anni di formazione più le 100 ore.
Terzo paradosso: il granello che non può diventare un mucchio di sabbia
Le competenze avanzate per qualcuno rappresentano una sorta di de-mansionamento e per qualcun altro una sorta di ri-mansionamento:
• chi è de mansionato, come i medici, temono una sottrazione di qualcosa che appartiene loro e temono un danno alla propria identità professionale,
• chi è ri-mansionato, attraverso nuove competenze, ambisce a diventare altro da quello che è e ridurre le distanze tra professioni gerarchicamente superiori.
La questione che mi interessa capire è ontologica, ed è riassumibile nella domanda:
• “cosa diventa” chi perde mansioni,
• cosa diventa chi acquista mansioni.
Per rispondere farò ricorso a un vecchio paradosso usato da tempi immemori dalla logica, che è quello famoso del mucchio di sabbia rispetto al quale posso aggiungere o togliere dei granelli.
Nel primo caso, ho un granello di sabbia al quale aggiungo altri granelli, quell’insieme di granelli cosa diventerà? Resterà un infermiere o diventerà altro? La logica dice che partendo dal fatto che un infermiere non è un medico (un granello non è un mucchio) anche aggiungendo all’infermiere altre competenze questo non potrà mai essere un medico perché qualcosa che in partenza non è un mucchio non può diventarlo in seguito. Per diventare medico insomma bisogna fare un altro percorso.
Nel secondo caso ho un mucchio (medico) al quale comincio a togliere delle competenze (granelli) fino a che il mucchio diventerà sempre più piccolo, al punto che, teoricamente, potrà rimanere un solo granello. In quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Cioè quando il medico, a forza di perdere competenze, cessa di essere medico?
La risposta della logica è molto interessante da una parte ci dice che rispetto al mucchio di sabbia togliere “numericamente” delle competenze resta insignificante sia sul piano quantitativo che sul piano qualitativo.
Ma se dalla spiaggia passiamo all’ospedale e ai granelli sostituiamo le professioni e i malati, e quindi le conoscenze, le prassi operative, le esperienze, i modi di essere degli operatori, ebbene in questo caso:
• togliere o dare delle competenze influenza eccome la qualità dell’opera professionale,
• la separazione radicale dei concetti di qualità e quantità in medicina non è produttiva anzi diventa pericolosa.
Ma il problema ontologico più grande è che le competenze avanzate mettono oggettivamente le professioni in una situazione di ambiguità professionale, cioè in quella situazione che dal punto di vista dell’ontologia si potrebbe definire “essere ne carne e ne pesce”.
Non è detto che l’ambiguità, cioè essere “quasi un medico” o essere “quasi un infermiere” o essere né medico né infermiere, sia un vantaggio per il malato. In genere sappiamo che la poca chiarezza sui ruoli crea un mucchio di problemi organizzativi e non solo, fatta eccezione per quelle situazione estreme dove la task shifting è l’unica risorsa di cui si dispone.
Una organizzazione in sanità funziona solo sulla base della chiarezza dei ruoli, in ragione della quale si possono fare tutte le integrazioni che si vogliono, ma se sostituiamo chiarezza dei ruoli con l’ambiguità, quale organizzazione servirebbe?
Conclusioni
Mentre scrivevo questo articolo è uscito il commento di
Luca Benci (
QS, 10 dicembre 2019) sulla delibera del Veneto e tanto per cambiare, mi trovo in disaccordo con il solito approccio riduzionista e schematico del giurista che, attraverso le norme contrattuali, legge senza nessun sforzo fenomenologico la complessità del mondo sanitario.
Trovo inoltre speciosa e immeritata da parte sua l’accusa rivolta alla Fnomceo di tenere un posizione di retroguardia e di indifferenza nei confronti delle altre professioni. A parte il fatto che la proposta di istituire una “consulta” di tutte le professioni mi risulta essere stata fatta dal presidente Anelli e non da altri, ma, per togliersi qualsiasi dubbio, basterebbe che il dottor Benci leggesse le 100 tesi per scoprire (pag 118/120) che quello che lui dice è manifestamente ingiusto ma soprattutto preconcetto.
Tuttavia a parte i preconcetti di Benci anche in questo caso il giurista dimostra di non aver capito, a differenza della Fnomceo, la vera posta in gioco. Oltre che la delibera del Veneto forse si dovrebbe leggere il PSSR 2019/2022.
Ma come è possibile che non ci si renda conto per esempio che la ristrutturazione della geografia delle professioni è una boiata pazzesca? Come è possibile per alcuni andare dietro a spinte contro riformatrici così manifestamente dannose per il cittadino? Come è possibile non essere imbarazzati a sostenere un corporativismo tanto volgare e sfacciato? Dove è finita la bioetica a proposito dei rischi che i malati corrono con le competenze avanzate?
Forse viene il sospetto allargando il discorso che per un gran numero di persone non si tratta di cantonate, di sviste, o di scelte poco meditate, ma di altro.
Raffaele Varvara un giovane infermiere appassionato della sua professione, l’altro giorno a margine del mio secondo editoriale ha scritto un commento che mi ha colpito per acutezza e profondità: “Il cinismo che anima i rapporti tra le professioni sanitarie è possibile perché oggi la sovrastruttura culturale dominante di carattere neo-liberista ha occupato anche l' inconscio di ciascuno di noi, impadronendosi del nostro pensiero che risulta sbriciolato, frammentato in una visione egoica ed individualistica fondata sulla competizione.”
Sono forse diventati tutti corporativi e neoliberisti? Se così’ fosse non ci si può meravigliare se le politiche sono quelle che sono. Se gli uomini diventano egoisti è difficile essere con loro d’accordo sui valori contro l’egoismo, come quelli che sorreggono il nostro sistema sanitario.
Oggi mentre l’umanità più disperata cerca nuovi spazi di vita nel mondo mettendo in crisi ogni sorta di frontiera, in sanità, tra la nostra gente, si sta facendo una guerra proprio sulle frontiere, sui confini e sui perimetri, non per abbattere qualcosa, o aprire di più, o fare meglio ma solo per trarne un qualche vantaggio personale in più.
E questo per me è davvero molto triste.
Ivan Cavicchi
(Fine terza e ultima parte, leggi qui la prima e la seconda)