È uscita l’attesa
sentenza della Corte costituzionale riguardante il processo a Marco Cappato per la nota vicenda che ha riguardato il Dj Fabo. È necessario, nell’intricata vicenda, ricostruire i termini della questione.
Il fatto
Marco Cappato si era denunciato ai carabinieri in seguito al suo coinvolgimento nella vicenda del Dj Fabo, avendo accompagnato da Milano in “Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima”.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta “aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte”.
“Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.”
Il contributo causale di Cappato, nella vicenda, si è limitato a questo. Il contributo di Cappato, cioè, non è mai entrato nel cosiddetto momento “deliberativo” della decisione di porre fine alla propria vita rispetto alla decisione già presa dal Dj Fabo.
La vicenda giudiziaria nasce quindi con la contestazione dell’articolo 580 del codice penale relativo alla agevolazione al suicidio.
Riportiamo testualmente il primo comma dell’articolo:
Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio,ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.
La vicenda processuale e l’Ordinanza del 24 ottobre 2018 della Corte costituzionale
La Corte di assise di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale:
a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
La Corte costituzionale, dopo aver analizzato le tre fattispecie che compongono l’aiuto al suicidio – istigazione, rafforzamento del proposito e agevolazione – ne ha ribadito la legittimità costituzionale per le prime due.
Ha, invece, stabilito che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, tramite l’agevolazione non può essere, a certe condizioni, ritenuta incompatibile con la Costituzione.
Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona:
a) affetta da una patologia irreversibile;
b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili;
c) la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
d) resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Si tratta, osserva la Corte, “
infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto
e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Costituzione.
La Corte ha richiamato alcuni suoi principi - soprattutto sul caso Englaro - e alcune disposizioni normative vigenti, con particolare riferimento alla legge sul consenso informato e le DAT contente nella recete legge 219/17. Inoltre la Corte ha avuto modo di citare le leggi sul dolore e sulla situazione relativa profonda.
Secondo la Corte però, “la legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.
In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.
“Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione”.
Con una tecnica decisionale innovativa la Corte costituzionale ha deciso di rinviare la decisione, per permettere al legislatore approntare una disciplina legislativa più organica. Ha quindi rinviato la mera declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 580 c.p., nella parte relativa all’aiuto al suicidio tramite agevolazione, dando un anno di tempo al legislatore perché provvedesse.
Le indicazioni al legislatore sono state:
1. le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”;
2. l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale;
3. la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura;
4. l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative.
Con l’Ordinanza del 24 ottobre 2018 la Corte ha concesso, quindi, un anno di tempo al legislatore perché provvedesse.
La sentenza della Corte costituzionale
Con la sentenza 242/2019 ha preso atto dell’assenza del legislatore e ha ripreso la decisione.
“Nei casi considerati la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.”
La legge n. 219/2017 riconosce, infatti, ad «ogni persona capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5): diritto
inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «
è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6)
“La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte e la soluzione della sedazione profonda non sempre può essere un’alternativa, in quanto ha “come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso”.
“Non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato,” il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita.”
In seguito a ciò l’articolo 580 c.p. deve essere dichiarato anticostituzionale nella parte
in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) … “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Il suicidio assistito come diritto costituzionale
Quello che emerge dalla importante sentenza della Corte costituzionale è che, a determinate condizioni date, l’agevolazione medicalmente assistita al suicidio, è in linea con i principi costituzionali dell’autodeterminazione e del diritto alla salute.
Nonostante i molti commenti dottrinali, la sentenza della Corte, vincola di fatto, la legge 219/2017 agli ulteriori trattamenti di fine vita come il suicidio medicalmente assistito.
Lo dichiara proprio nella declaratoria di incostituzionalità nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agisce con l’articolo 1 – “consenso informato” – e con l’articolo 2 – “terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita” – della legge stessa.
Le motivazioni della Corte hanno tenuto fede dell’ordinanza del 2018. Il legislatore è apparso, come quasi sempre nelle decisioni bioetiche, improvvido.
Non è una novità: la stessa Corte richiama i precedenti storici dell’aborto. Ricordiamo come nel 1975 la Corte intervenne sul cosiddetto aborto terapeutico con una sentenza che non possiamo che definire storica.
Solo però nel 1978 – un legislatore decisamente riformista – dette luogo alla legge 194, estendendo ben oltre i diritti costituzionali, comunque parzialmente riconosciuti dalla Corte stessa.
Non credo che nessuno chieda oggi al Parlamento una legge che estenda i diritti del fine vita, come negli anni 70 è stata la legge sull’aborto.
La parola oggi è al legislatore, che deve minimamente introdurre una disciplina per permettere il riconoscimento dei diritti costituzionali evidenziati.
Oltre a quanto scritto nell’ordinanza, che riportiamo nuovamente, ritroviamo una disciplina incoerente, riguardante la verifica del “comitato etico territorialmente competente”.
1. le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “
processo medicalizzato”;
2.
l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale;
3. la possibilità di una
obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura;
4. l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative;
5. sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale,
previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Facciamo nostre le osservazioni della Consulta di bioetica onlus che ha parlato di “indicazione confusa riguardo al Comitato etico competente: il “Comitato etico territorialmente competente” oggi esistente è quello per la “sperimentazione clinica”, che non ha titolo né competenza di dare suddetti pareri”.
Sottolinea la Consulta di bioetica “che bisognerà correggere questa carenza e precisare l’indicazione in tal senso della Corte, ma tutto ciò, comunque, non modifica affatto né l’impianto né la direzione della Sentenza”.
Il ruolo delle professioni sanitarie
Non vi sono dubbi sulla diversa reazione, rispetto alle scorse settimane, della positiva posizione di
Filippo Anelli, Presidente Fnomceo, che ha
riconosciuto l’esistenza della necessità di modificare il Codice di deontologia medica oggi non più rispondente al diritto costituzionale. Il riconoscimento, in questo caso doveroso, dell’obiezione di coscienza, rende libero ogni medico di agire o non agire nei confronti del paziente.
Deve essere quindi modificato l’articolo 17 del codice di deontologia medica che prevede che “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.
Anelli non menziona, nell’ultimo intervento, quella confusa proposta relativa a una istituzione di una sorta di “
funzionario dello Stato” che dovrebbe prendere parte alla procedura suicidio medicalmente assistito e che avrebbe il compito di sottrarre il medico alle procedure del suicidio medicalmente assistito.
Ricordiamo che per la prima volta ben due sentenze della Corte costituzionale, in breve lasso di tempo, chiamano direttamente o indirettamente la professione medica: la c.d sentenza Venturi (come si ricorderà si è trattato di una radiazione all’albo da parte dell’ordine di Bologna nei confronti di un assessore e dichiarata anticostituzionale) e la sentenza sul suicidio assistito in cui comunque si evidenzia il ruolo della professione medica.
Notiamo, infine, che il più recente Codice deontologico dell’infermiere non contiene, opportunamente, rispetto alla versione del 2009, un divieto specifico ad attuare e partecipare a “interventi finalizzati e provocare la morte”.
Gli infermieri, nella procedura suicidio assistito, tra l’altro, potranno avere un ruolo non secondario.
Luca Benci
Giurista
Componente del Consiglio superiore di sanità