Pochi giorni fa il ministro Speranza ha tenuto un discorso al primo open day del Consiglio di Stato e, richiamando una recente sentenza della Corte Costituzionale (203/2016), ha sostenuto una tesi temeraria: “esigenze di finanza pubblica non possono comprimere diritto alla Salute”, (
QS 18 novembre 2019).
Il problema del contemperamento
La mia impressione è che, il ministro Speranza, invocando la Corte Costituzionale, ne abbia, frainteso il senso e il significato, probabilmente perché non ha chiaro le circostanze storiche che, 30 anni fa, indussero la Corte, nei confronti dei diritti costituzionali, ad un radicale cambiamento del punto di vista.
Grosso modo è accaduto che, grazie alla straordinaria crescita economica del secondo dopoguerra, si è avuto, come conseguenza diretta, una significativa espansione dei diritti e che, tra gli anni 80 e gli anni 90, questa espansione, cominciò ad essere, per diverse ragioni politiche e economiche, un serio impedimento per lo sviluppo dell’economia.
Nasce il problema che, in quegli anni, fu definito, del “contemperamento” tra i diritti e le risorse finanziarie.
In sostanza mentre il legislatore adotta, fin dagli anni 80, soprattutto misure per il contenimento della spesa sanitaria a scapito del diritto, la Corte, ammette, per la prima volta, che il diritto alla salute, e non solo, è un diritto “finanziariamente condizionato”.
La questione del bilanciamento e del nucleo essenziale
Le sentenze costituzionali che hanno fatto scuola, sono quelle, non a caso dei primi anni 90.
Esse, comunque, nel tollerare le politiche di compatibilità che condizionano i diritti, pongono due paletti quello:
• del “ragionevole bilanciamento” tra diritti e risorse,
• della salvaguardia del “nucleo essenziale” dei diritti cioè le ragioni finanziarie non devono “assumere un peso assolutamente preponderante tale da comprimere il nucleo essenziale del diritto alla salute”.
Facendo una rapida meta analisi, sulle decine e decine di sentenze della Corte, dagli anni 90 ad oggi, emerge quanto siano “sfuggevoli” e “imprecisi” i concetti di “bilanciamento ragionevole” e di “nucleo essenziale”, al punto da costringere la Corte a decidere, il limite di invalicabilità del diritto, caso per caso e di volta in volta.
Il risultato finale è che il diritto resta, nonostante gli accorgimenti pensati dalla Corte, più che mai finanziariamente condizionabile e che, i modi per condizionarlo nella realtà, sono talmente tanti che i limiti posti dalle sentenze citate, in virtù della loro sfuggevolezza e indefinibilità, è come se non esistessero.
Pio desiderio o altro?
Alla luce di questa meta analisi, si dovrebbe dire che, la tesi del ministro Speranza, è nulla più che un pio desiderio privo di plausibilità.
Tuttavia non è proprio così. A ben vedere esiste una scappatoia interpretativa importante, oggi:
• per inevitabili problemi di sostenibilità il diritto alla salute non può non essere condizionato, ma condizionato non vuol dire subordinato,
• molto dipende dai “modi” con i quali il diritto condizionato è tradotto in politiche sanitarie.
Cioè alla fine tutto dipende da quali politiche si mettono in campo per affrontare il diritto condizionato.
Vorrei ricordare a questo proposito che:
• nel 90 esce la sentenza della Corte n° 455 e nel 92 nasce la “riforma della riforma” che introduce l’azienda e riapre all’assistenza mutualistica,
• nel 94 esce la sentenza della Corte n° 304 e nel 99 esce la “riforma ter “che a proposito di “nucleo essenziale” e di “bilanciamento” introduce, guarda caso, i livelli essenziali (lea), l’atto aziendale di diritto privato, l’economicità dell’impiego delle risorse, i fondi integrativi, ma accettando la logica della compatibilità tra diritti e risorse (art, 1, punto 3).
Insomma, signor ministro, io che ho vissuto da dentro tutta la storia, le posso dire che, dagli anni 90 in poi, non ci siamo limitati a condizionare il diritto ma lo abbiamo sempre più subordinato, scadendo in una sorta di amministrativismo compatibilista senza alcun respiro strategico, quindi senza futuro, convinti che la sanità si dovesse solo adattare alle nuove condizioni finanziarie e null’altro, dove, per adattare, si intende ridurne prima di ogni cosa il costo riducendo la sua dimensione pubblica.
Il convegno dei “duecentoventinovisti”
Alla fine del mese ci sarà, a Firenze, il primo convegno nazionale di una nuova associazione che si chiama “Salute diritto fondamentale” alla quale auguro con tutto il cuore buon lavoro, che, da quel che ho potuto capire riunisce coloro che, tanti anni fa su questo giornale, definii scherzosamente i “duecentoventinovisti”, cioè un pezzo di Pd cappeggiato da
Rosy Bindi, e il cui orizzonte strategico di riferimento ancora oggi è la riforma ter del 1999.
Anche questo importante convegno, di cui aspetto di leggere gli atti, come il ministro Speranza, parte dall’equivoco del diritto alla salute come diritto fondamentale, intendendo fondamentale come incondizionato, quando non lo è più da anni. E’ talmente vero che, se il diritto, a suon di sentenze della Corte, non fosse diventato condizionato, la 502 e la 229 non sarebbero nate. Entrambe, sono state un tentativo, per me davvero molto discutibile, di “contemperare” il diritto con il limite finanziario.
In pratica se consideriamo tutte le riforme fatte, a partire dagli anni 90, la sanità e la sinistra di governo che se ne occupa, reagisce al diritto condizionato e quindi al problema della sostenibilità, imboccando piano piano la strada del pensiero contro riformatore:
• si comincia a virare verso il privato ampliando gli spazi dei fondi integrativi,
• ad adottare le logiche economicistiche dell’azienda manifatturiera,
• ci si illude di risolvere tutto con la gestione,
• si crede che basti amministrare delle compatibilità, dei volumi,
• si pensa che basti razionalizzare, fare efficienza, obbligare gli operatori ad essere appropriati, scambiare le competenze professionali tra operatori, ecc..
È in ragione di questo lento scivolamento verso un pensiero riformatore che si prepara di fatto il terreno favorevole al regionalismo differenziato.
Giusto per infrescare la memoria vorrei far notare che, se oggi l’Emilia Romagna chiede, nella pre-intesa sul regionalismo differenziato, le mani libere per istituire i fondi integrativi è solo perché nella 229:
• si prevedono i fondi integrativi (art. 9),
• la costituzione di società miste a capitale pubblico e privato (art. 19).
Spero vivamente che non si faccia l’errore di ipocrisia, di separare il regionalismo differenziato dal processo contro-riformatore che lo ha preceduto e preparato di cui esso è solo una ovvia evoluzione.
Oggi attendo dai “duecentoventinovisti” di conoscere il bilancio che loro fanno della loro riforma, ma soprattutto attendo di capire se l’apertura contro riformatrice alla compatibilità che, per rispondere al diritto condizionato, fu da loro fatta, nel 99, è da confermare o da correggere.
Dal limite alla possibilità
Alla luce dei fatti, piano piano nel tempo siamo platealmente scivolati dal diritto condizionato al diritto subordinato. Il problema mi creda ministro, non è della Corte, cioè il principio, ma chi avrebbe potuto interpretare il “contemperamento” tra i diritti e risorse, in diversi modi, ma che alla fine non ha potuto fare a meno di scegliere il modo più sbagliato. Quello compatibilista amministrativista e contro riformatore. C’è da dire che, a quei tempi, solo l’idea che si potessero prendere altre strade era davvero minoritaria.
Torna fuori la questione del “riformista che non c’è”: oggi se siamo messi come siamo messi, è perché la sinistra di governo, cioè il PD, ha toppato, portandoci, addirittura con il regionalismo differenziato, sul terreno della controriforma di sistema.
Ma che fare? Se fino ad ora il limite finanziario è stato usato non per condizionare il diritto ma per subordinarlo cioè “contro”, oggi data la sua insopprimibilità, si dovrebbe trasformarlo in qualche modo in una possibilità “per” il diritto.
I quesiti quindi sono:
• come trasformare un limite in possibilità?
• come ridiscutere le politiche compatibiliste di questi anni.
L’unico modo che vedo è fare un accordo di compossibilità tra sanità e finanza pubblica quindi un accordo tra economia e società quale
accordo di coesistenza che ammetta che:
• il limite, a certe condizioni, rispetti il diritto,
• il diritto a certe condizioni rispetti il limite.
Compossibilità e compatibilità
La compatibilità è una politica che punta sull’invarianza strutturale del sistema nel tentativo di adattare sempre di più i diritti alle esigenze economiche e che se serve non disdegna di adottare soluzioni contro riformatrici e neoliberiste. Per il compatibilista se l’ospedale costa troppo si tagliano i letti, o si privatizza.
Mentre la compossibilità è una “idea di riforma” che tiene insieme diritti e limiti ma rimuovendo tutte le contraddizioni cioè i costi che impediscono loro di essere compossibili a partire dalle invarianze. Cioè è la strada per offrire di più e costare di meno.
Per agire la compossibilità serve un cambiamento evolutivo del sistema che io ho definito “quarta riforma” che elimini prima di ogni cosa le sue diseconomie strutturali, le sue pesanti regressività funzionali, le sue profonde inadeguatezze culturali, e attraverso queste operazioni riduca i costi storici del sistema quindi produca nuove utilità, nuove qualità, nuovi valori. Per un compossibilista se l’ospedale costa troppo l’ospedale va riformato per farlo costare di meno.
Piena tutela e diritto minimo
Signor Ministro lei, al Consiglio di Stato, a un certo punto del suo discorso, ha dichiarato:
“che la sfida di rendere effettivo ed inclusivo il diritto fondamentale alla salute, secondo criteri di sostenibilità finanziaria e di produttività della spesa pubblica, in presenza di risorse limitate, possa essere vinta (….) all’insegna del principio di ragionevolezza, declinato come scelta di necessaria compatibilità tra risorse scarse e pienezza di tutela del nucleo minimo intangibile del diritto alla salute”
Mi pare chiaro che lei intende:
• conformarsi al dettato delle sentenze della Corte,
• adottare politiche di compatibilità.
Sulle sentenze non aggiungo nulla a quello che ho detto, ma sulle politiche compatibiliste mi permetto di esprimere il mio educato ma nello stesso tempo, fermo e perentorio, dissenso.
Queste politiche sono 30 anni che le stiamo adottando senza mai risolvere la questione della sostenibilità e in più a forza di adottarle abbiamo finito smaccatamente per subordinare i diritti alla finanza pubblica e da ultimo esse ci hanno portati alla controriforma. Non le basta questo drammatico bilancio per decidere, lei che è un ministro di sinistra, di cambiare musica?
La teoria del “mini diritto” (“
nucleo minimo intangibile del diritto alla salute”) con “
pienezza di tutela” a parte essere un bel paradosso è un vero corto circuito contro riformatore. Se lei intende tutelare pienamente solo un diritto minimo, il diritto pieno, come intende tutelarlo? Con i ticket? Con i fondi integrativi? Con le politiche compatibiliste? Conferendo alle regioni poteri autarchici? Con il laissez faire? E poi ci spieghi, rispetto a questo “diritto minimo” cioè rispetto ai Lea, cosa resta fuori e cosa entra dentro?
Conclusioni
Signor ministro lei si presenta al Consiglio di Stato e ci dice che le
“esigenze di finanza pubblica non possono comprimere il diritto alla salute” e poi se ne esce con il diritto minimo.
In questo ragionamento qualcosa non fila. La Corte non le dice di garantire solo il minimo, ma la invita ad inventarsi delle politiche in grado di contemperare i diritti con i limiti di risorse, cioè di bilanciare queste due cose in modo ragionevole.
Cioè dopo le esperienze fatte oggi le dice sostanzialmente di mollare la compatibilità e di fare compossibilità. Cioè di non limitarsi ad amministrare ma di riformare.
Se, in questi 30 anni, le politiche compatibiliste del PD hanno schiacciato il nucleo essenziale del diritto, sta a lei, non alla Corte, aggiustare il tiro.
Quella del diritto minimo da tutelare pienamente, è una straordinaria idea neoliberista.
A forza di andare dietro al neoliberismo, la sinistra, si è rovinata la reputazione perdendo consensi, inaugurando l’epoca delle incertezze che, in un bel libro di Schmit e Benasayag, è stata anche definita delle “passioni tristi”. La compossibilità di certo è meno triste della compatibilità. Pensiamoci sopra.
Ivan Cavicchi