Dopo che le cose sono successe è fin troppo facile dire: io l’avevo detto! Ma tant’è. Un anno fa, sollecitati da un gruppo di medici di medicina generale che afferiscono alla nostra associazione (Slow Medicine), con molto garbo, c’eravamo permessi di
scrivere tramite questo giornale, all’Assessore alla Sanità della Regione Lombardia, per proporgli di modificare alcuni aspetti critici relativi al modello di presa in carico del paziente cronico, adottato dalla Regione.
Il modello veniva esibito come una vera e propria rivoluzione per la sanità lombarda ma, a parte le difficoltà applicative che hanno richiesto ben sette delibere, per oltre 200 pagine di istruzioni e indicazioni operative da cui non è facile districarsi, fin dal suo nascere erano ben palesi i limiti d’impostazione generale del modello.
Esso, infatti, non tenendo conto della letteratura e delle esperienze maturate in questo ambito a livello internazionale si presentava come una netta involuzione rispetto allo sviluppo del sistema delle cure primarie. Un modello di stampo efficientista, farraginoso, centrato su aspetti formali e organizzativi, su controlli, visite e prestazioni standardizzate, trascurando di fatto la relazione tra paziente e medico di fiducia.
A due anni dall’approvazione della prima delibera che dava il via al progetto, cosa è successo? Come è stato accolto dalla gente e dai medici?
Nella primavera dello scorso anno sono state spedite oltre 3 milioni di lettere che invitavano i pazienti affetti da una patologia cronica a scegliere un clinical manager incaricato della redazione del Piano di Assistenza Integrata (PAI). Al 31 dicembre 2018, il 90% delle persone destinatarie della lettera ha declinato l’invito e quelle che hanno deciso di aderire al modello proposto dalla Regione hanno optato di rivolgersi ai medici di medicina generale che partecipano alla presa in carico dei propri pazienti come gestori o co-gestori organizzativi del PAI.
Il numero di PAI redatti dai cosiddetti clinical manager di strutture pubbliche o private, figura professionale del tutto inedita che avrebbe dovuto sostituire il proprio medico di fiducia, è stato irrisorio: 14.000 in tutto, cioè lo 0,45% degli oltre tre milioni di pazienti cronici potenzialmente interessati.
Nei nostri precedenti interventi paventavamo il rischio di una deriva privatistica dell’assistenza ai pazienti cronici e di uno spostamento delle cure dal territorio all’ospedale. Ciò non è avvenuto, perché i cittadini lombardi hanno dimostrato di saper scegliere con saggezza.
I dati parlano chiaro, oltre il 99% dei pazienti non desidera affatto rinunciare alla relazione continuativa con il proprio medico di fiduciain cambio di un pacchetto standard di prestazioni di cui non è neppure chiaro se ne abbiano davvero bisogno. Evidentemente il servizio che si intende garantire non è quello che i pazienti si aspettano e di questo onestamente bisognerebbe prenderne atto e cambiare rotta.
I pazienti sanno sulla propria pelle che la salute non si cura inserendo il loro nome entro un calendario programmato di controlli periodici (che peraltro non sono affatto garantiti), come se si trattasse di effettuare il tagliando della macchina. Il paziente non può essere sezionato in organi e apparati e non ha bisogno solamente di controllare alcuni parametri biologici, di eseguire test e di assumere farmaci secondo un calendario predefinito da medici che non lo conoscono neppure.
La salute delle persone riguarda la loro vita in tutte le sue sfumature e per ristabilire un proprio equilibrio non basta sottoporsi passivamente ad una serie programmata di visite specialistiche e di controlli.
Il paziente, specie se anziano e affetto da patologie croniche, ha bisogno di contatto, di ascolto, di empatia,di essere visto secondo le sue personali esigenze che mutano nel tempo e richiedono la costante ridefinizione dei percorsi di cura, in ragione dell’evoluzione della malattia, delle sue esigenze e del contesto familiare e sociale di riferimento. Se manca l’aspetto umano viene meno uno degli elementi essenziali e insostituibili della cura; e non basta dichiarare la loro rilevanza a parole nei documenti e nelle assemblee, bisogna che il modello organizzativo, le azioni e le risorse messe in campo per attuarlo siano coerenti con gli annunci.
Questi pazienti, come peraltro ben descritto dalla più accreditata letteratura internazionale, devono essere gestiti all’interno della comunità di riferimento, dove possono contare sulla famiglia, su servizi sociali e sanitari di supporto e quando serve sulla consulenza di uno specialista.
Seguire il paziente affetto da una patologia cronica in ospedale è del tutto inappropriatonon solo per le ragioni sopra rappresentate ma anche perché distoglie i medici ospedalieri dalle prestazioni specialistiche, creando confusione, sovrapposizione di ruoli, ritardi e difficoltà organizzative.
D’altra parte l’obiettivo primario del Piano nazionale della cronicità è quello di potenziare i servizi territoriali in modo da assicurare ai pazienti cronici i controlli periodici di cui hanno bisogno e mantenerli in un buon equilibrio funzionale per ridurre i ricoveri, non certo quello di porre questi pazienti a carico delle strutture dedicate alla gestione delle situazioni acute.
Insomma il paziente affetto da patologie croniche deve essere controllato e curato sul territorio dal proprio medico di medicina generale che deve potersi avvalere di adeguati servizi sanitari e sociali di supporto, compresa la possibilità di accedere, quando lo ritenga utile, a specifiche competenze specialistiche. In questo senso vanno indirizzate le risorse e i relativi piani organizzativi e attuativi, in promo luogo potenziando le forme organizzative delle cure primarie.
Il tentativo di risolvere la questione della cronicità indirizzando il paziente in ospedale, sia esso pubblico o privato, non solo è destinato a peggiorare la qualità dell’assistenza del paziente cronico ma contribuisce alla frammentazione delle cure (non certo alla loro integrazione) e concorre a congestionare i servizi ospedalieri, attribuendo agli specialisti compiti impropri e che, comunque, non sono nelle condizioni di garantire.
Certo, in questo senso i medici di medicina generale devono assumersi una bella responsabilità,ma è quello che chiedono unanimemente i pazienti e su queste scelte i medici si giocano il futuro della loro professione.
È davvero singolare che nella pratica questi principi siano del tutto ignorati, con i risultati che non hanno bisogno di ulteriori commenti. Noi vogliamo credere che in assessorato vi sia qualcuno disponibile al dialogo e a valutare con imparzialità i risultati ottenuti senza timore di essere considerato un dissidente.
È ancora possibile immaginare una via d’uscita dal tunnel in cui si è precipitati? È troppo chiedere di mettere in atto qualche rimedio ad una situazione che rischia di compromettere gravemente la qualità dell’assistenza in un settore così cruciale delle cure?
Noi continuiamo a sperarlo.
Antonio Bonaldi
Presidente di Slow Medicine