Il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) - presentato il 22 marzo 2019 sul tema “
Salute Mentale e Assistenza Psichiatrica in Carcere” - contiene elementi di indubbio interesse nell’analisi delle problematiche aperte dagli effetti delle Legge che, circa quattro anni fa, ha permesso di superare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG).
La chiusura degli OPG è avvenuta in assenza di un progetto globale di trattamento dei pazienti autori di reato e senza il superamento di concetti e termini inadeguati ai tempi ed alle attuali conoscenze: rei-folli, folli-rei, licenza finale esperimento, pericolosità sociale, ecc.
Per gestire correttamente la situazione clinica dei pazienti autori di reato occorrerebbe anche l’adeguamento delle norme nazionali alle realtà delle sanità regionali: ad esempio il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) differisce come organizzazione nelle diverse Regioni, mentre con gli autori di reato è sovente necessaria una risposta unitaria delle ASL con il coinvolgimento degli operatori dei SerD e dei servizi territoriali che si occupano di anziani e di disabili oltre a quelli della psichiatria.
1 - Folli rei, rei folli
Come ben evidenziato nel documento del CNB la chiusura degli OPG non è stata accompagnata da un’adeguata revisione delle normative che riferendosi ancora al OPG condizionano pesantemente la possibilità di realizzare degli adeguati percorsi di cura
- sia per le persone che commettono reati con capacità di intendere e di volere escluse o grandemente scemate, nel documento definiti “folli rei”,
- sia per le persone a cui viene riscontrata una patologia di mente durante la detenzione e che vengono definiti nel documento “rei folli”.
A questo proposito avremmo preferito che un’Istituzione di alto profilo come il CNB recuperasse in maniera convinta delle indicazioni linguistiche e diagnostiche moderne indicando chi è portatore di questi disturbi come “soggetto/persona affetto/ da un disturbo…”. L’impiego di una terminologia più giuridica che clinica quale “reo folle” o “folle reo” continua a contribuire alla stigmatizzazione del disagio mentale e al pregiudizio operante nella Società attuale verso le persone affette da queste patologie.
Un problema irrisolto della salute mentale e del carcere è dovuto al permanere del cosiddetto “doppio binario” per cui il malato di mente considerato non imputabile veniva internato in OPG e non poteva rimanere in carcere. Con il superamento dell OPG non è chiarito dove il non imputabile e giudicato pericoloso socialmente debba essere inserito (REMS o altra struttura residenziale psichiatrica).
L’abolizione del manicomio nel 1978 e l’attuale abolizione dell’OPG avrebbero dovuto superare il doppio binario ridando dignità e responsabilità al malato di mente. Questi fin tanto che necessita di custodia poiché pericoloso socialmente dovrebbe permanere in una struttura più adeguata.Dopo il superamento dell’OPG sarebbero le REMS ma l’eccessivo ricorso all’inserimento nelle stesse fa si che i pazienti considerati pericolosi socialmente vengono posti in lista d’attesa e nell’attesa gestiti variamente: carcere, strutture residenziali, SPDC, domicilio, ecc.
Parallelamente, come sostiene il CNB, sarebbe da rivedere anche il concetto della pericolosità sociale “psichiatrica” così come inteso ancora oggi, quando sia prevedibile che la persona possa reiterare reati per la stessa infermità per la quale gli è stato attribuito il vizio di mente (artt. 88 e 89 CP). È una previsione difficilissima anche per uno psichiatra esperto, che potrebbe esprimere invece, con maggior competenza, una prognosi sulle possibilità di trattamento della patologia del soggetto.
2 - La pericolosità sociale
La pericolosità sociale dovrebbe essere una prerogativa del giudice che ai periti chiede di esprimersi sui possibili esiti del percorso di cura del paziente. I comportamenti delle persone in generale e ancor più quelli dei pazienti che hanno commesso reati, sono condizionati da un insieme molteplice di variabili individuali. Per cui l’infermità da sola non spiega il comportamento del paziente autore di reato, per cui è erronea la previsione del comportamento futuro del soggetto sulla base della sola compensazione o risoluzione dei sintomi.
Vi è una condivisibile corrente di pensiero che ritiene che superare il concetto di non imputabilità del soggetto affetto da disturbo psichiatrico significa:
- rifiutare il determinismo presunto tra malattia e reato,
- ridare dignità al malato di mente.
Se da un punto di vista teorico queste argomentazioni sembrano convincenti, risulta non accettabile correre il rischio che la ricaduta dell’abolizione della non imputabilità sia di lasciare i pazienti più gravi che non si lamentano e si istituzionalizzano in carcere. Questo superamento del concetto di non imputabilità può essere realizzato solo se si modifica in senso migliorativo l’ambiente del carcere.
In tale dimensione, certamente del tutto condivisibile, si perde per l’importanza del ruolo di cura psichiatrica basata eminentemente sui seguenti aspetti:
- il riconoscimento di un disturbo mentale,
- la valutazione del caso in funzione di un’espressività clinica diversa e anche di livelli di gravità diversi,
- un approccio terapeutico basato sulla la multidimensionalità ed eterogeneità delle cure oggi a disposizione in ambito psichiatrico. Prevale, nel documento del CNB, una dimensione sociogenetica dei disturbi mentali - soprattutto di quelli che si manifestano nei soggetti autori di reato - che induce, quindi, a dichiarare come la cura debba avvenire
“sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive in ottemperanza al principio della pari tutela della salute di chi è libero e di chi è stato condannato al carcere”. Crediamo, a questo livello, che – anche per rispetto a chi abbia subito, quale vittima, le più diverse forme di reato – non si possa affermare genericamente che tutti i detenuti debbano trovare la cura al di fuori delle istituzioni impiegate nell’esercizio delle pene dimenticando, inevitabilmente, anche il valore psicoeducativo che le stesse hanno sia per i “sani” che per i “malati”. La soluzione che era stata proposta e che condividiamo è nella realizzazione di strutture sanitarie all’interno delle case circondariali.
3 - L’assistenza psichiatrica
Il documento del CNB sottolinea che la tutela della salute mentale non è sinonimo di assistenza psichiatrica: siamo assolutamente d’accordo sul concetto, purché sia chiarito che – essendo i cosiddetti fattori psicosociali (es. condizioni socio-economiche svantaggiate, disoccupazione, traumi e condizioni avverse infantili e violenze intra-familiari, uso di sostanze, ecc.) fondamentali per la genesi di gran parte dei disturbi mentali – la prevenzione non possa essere delegata alla sola psichiatria (e neppure alla psicologia) ma alla Società tutta nella sue articolazioni (politiche sociali dei governi, delle famiglie, della scuola ecc.). Ciò è tanto più importante perché si sottolinea come la gran parte delle persone che entrano in carcere hanno già precedenti problematiche psicopatologiche e sono socialmente svantaggiate.
La nostra società scientifica (SIP) da sempre sostiene che sia indispensabile migliorare la qualità di vita delle persone detenute anche migliorando l’assistenza sanitaria in carcere e fornendo quella psichiatrica in collegamento con la rete dei servizi esterni (DSM). La malattia mentale dovrebbe essere posta alla stessa stregua di quella fisica e concordiamo con il CNB sulla necessità di una revisione dell’art. 147 che non consente la sospensione della pena per i “rei folli”, quando necessitano di trattamento in una struttura esterna al carcere. In questi casi l’inserimento dovrebbe avvenire inm strutture sanitarie esterne in regime di sospensione della pena come avviene per le malattie fisiche.
4 - I servizi di salute mentale
Altro tema importante del documento del CNB è quello della possibilità di
“rafforzare i Servizi di Salute Mentale in carcere superando la storica separatezza ereditata dalla sanità penitenziaria”: tale affermazione è totalmente condivisibile ed è necessario richiedere le risorse per poter realizzare nelle ASL le unità di psichiatria forense comprensive della parte penitenziaria nelle ASL dove insistono gli istituti di pena.
Le Unità Forensi e Penitenziarie del DSM
“funzionino come parte integrante di forti Dipartimenti di Salute Mentale capaci di individuare le risorse di rete territoriale per la cura delle patologie gravi”. Un obiettivo che deve essere raggiunto, con una crescita di consapevolezza e competenza alla cura degli operatori dei DSM, rifiutando il concetto che la psichiatria sia stata e/o possa essere solo contenitiva.
E, per quanto riguarda
“le patologie gravi” non devono necessariamente essere curate solo – come sostiene il documento del CNB –
“al di fuori dal carcere” ma integrando al meglio i diversi Servizi a disposizione - intra ed extra-murari - con un’accurata valutazione di compatibilità delle caratteristiche del detenuto malato e delle potenzialità di cura fruibili nelle strutture che caratterizzano il sistema dei servizi nei DSM.
Al contempo risulta necessaria la collaborazione costante con la Magistratura di cognizione e di sorveglianza per un più incisivo e preciso ricorso alle misure di sicurezza in
“coerenza con la finalità terapeutica delle REMS”, limitando il ricovero in queste ultime
“ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva”. Per gli imputati in fase di cognizione e le persone che hanno delle necessità transitorie di trattamento psichiatrico (rei folli) si utilizzino le sezioni di osservazione psichiatrica, dentro le case circondariali. Non è più rinviabile la realizzazione di Sezioni Cliniche di psichiatria in carcere a esclusiva gestione sanitaria.
5 - L’assistenza psichiatrica in carcere
Rimane a nostro parere riduttiva l’affermazione del documento del CNB che in carcere
“per sua natura, la salute mentale sia insidiata dalla sofferenza legata allo stato di costrizione e di dipendenza totale del detenuto per qualsiasi necessità della vita quotidiana”: esiste un’ampia letteratura che indica come - prescindendo dalla limitazione della libertà, elemento questo negativo per qualsiasi essere umano - il carcere sia, da sempre e lo sia soprattutto negli ultimi anni, un concentrato di psicopatologia in sé. È necessario sottolineare, come la concentrazione di psicopatologia in carcere sia l’effetto, nella società avanzata, di fenomeni abbastanza convergenti quali:
- l’assenza d dei vecchi “contenitori” in grado di esercitare le più svariate forme di controllo sociale sulla devianza che la società attuale inevitabilmente richiede (un tempo, ex manicomi, ospedali psichiatrici giudiziari)
- l’incremento delle nuove forme di patologia mentale quali quelle legate all’uso di sostanze e ai disturbi gravi di personalità
L’affermazione relativa del documento alla “
’incompatibilità fra il carcere e la salute mentale discende l’indicazione che la presa in carico delle persone con disturbo psichiatrico debba avvenire di regola al di fuori del carcere, nel territorio. La cura psichiatrica in carcere dovrebbe essere limitata alle persone con disturbi minori, oppure al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico” non è per la SIP del tutto condivisibile. Sostenere che l’assistenza psichiatrica in carcere debba essere riservata alle forme minori, “deviando” verso l’esterno – nelle diverse strutture del DSM – tutti i casi gravi significa non considerare che sono proprio questi ultimi ad esprimere, spesso, le forme più rilevanti di impulsività, discontrollo, mancata aderenza ai trattamenti che comportano ingenti difficoltà per i Servizi Psichiatrici ad assisterle.
La mancanza di risorse per un esercizio efficace della terapia e del controllo di questi soggetti, l’aumento esponenziale delle responsabilità nel raggiungimento di tali obiettivi e l’incremento conseguente delle richieste di “pericolosità sociale” da parte dei Servizi vedono, a questo punto, anche la Magistratura in difficoltà, con la conseguenza di una crescita ed un uso spesso improprio degli SPDC e delle REMS per l’esercizio primario del controllo prima ancora che della terapia.
L’uso degli SPDC, in questi casi, porta soggetti non idonei a tali “percorsi” a sottrarre posti-letto ai pazienti psichiatrici che ne necessitano per le situazioni di acuzie e di emergenza psicopatologica, non di rado per lunghi periodi in attesa della disponibilità di posti in REMS. Dall’altro versante, queste nuove strutture rischiano di essere saturate dai soggetti pericolosi socialmente in relazione ad una necessità di controllo piuttosto che di cura.
Le problematiche derivanti dalla presenza in carcere di soggetti autori di reato nell’area delle tossicodipendenze - a loro volta spesso portatori di disturbi mentali gravi e “cronicizzati” per lunghi periodi di abuso/dipendenza - richiede un’attenta revisione nell’organizzazione dei “percorsi” che potrebbero essere duplicati in due tipologie differenti:
- per i reati che comportano pene brevi, l’avvio a percorsi di Comunità Terapeutica “esterna” con coazione alla terapia – altro tabù nell’area delle tossicodipendenze in Italia,
- per i reati che comportano pene lunghe, l’avvio a percorsi intra-carcerari in appositi Reparti ad “alta intensità” di cura (esistono in Italia, come altrove, valide esperienze di questo tipo).
In conclusione, l’esistenza di apposite sezioni di Psichiatria Penitenziaria gestite dai DSM nell’ambito delle Unità di Psichiatria Forense strutturate nei DSM e dotate di risorse specialistiche potrebbe avvantaggiare la condizione della salute mentale nelle carceri, nelle REMS e nei percorsi territoriali attraverso i seguenti elementi:
6 - Attualità delle fonti
Un’ultima criticità del Documento del CNB è da porre in relazione alle indicazioni bibliografiche ed alla terminologia su cui si basa il documento stesso: da un lato, esiste un’imponente letteratura internazionale sull’epidemiologia dei disturbi mentali nelle carceri che non è stata citata e che dimostra, invece, come oggi le condizioni psicopatologiche in carcere sfiorino un terzo dei detenuti (i dati italiani a questo livello sono abbastanza carenti ma esistono e vanno citati).
Esiste pure una imponente letteratura sui fattori di rischio che si collegano alla rilevanza di tali disturbi negli autori di reato: vulnerabilità psicopatologica, traumi subiti e, in particolare, percorsi di vittimizzazione nell’infanzia, crescita nell’utilizzo delle sostanze nella popolazione generale (“doppia diagnosi”), nonché diversificazione delle condizioni oggetto di attenzione psicopatologica in relazione a profonde differenze temporali nelle caratteristiche dei disturbi rilevati in carcere
Nel documento del CNB a pag. 16 si richiamano le indicazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, laddove raccomanda che “
gli accertamenti relativi all’eventuale disturbo o disagio psichico correlati al reato siano affidati al servizio psichiatrico territoriale di riferimento”.
A questo proposito giova ribadire che la SIP ritiene indispensabile esonerare il Servizio territoriale che ha in cura o potrebbe prendere in cura un paziente ad essere chiamato a valutare la sua capacità di intendere o di volere e/o la sua “pericolosità sociale”, in qualunque fase del giudizio. A tal proposito abbiamo da tempo proposto la realizzazione delle Unità di Psichiatra Forense nell’ambito del DSM come strutture di raccordo.
Eviteremmo inoltre di utilizzare il termine “disagio psichico” che aumenta la confusione e la disinformazione sul tema, anche da parte della stessa magistratura. Vi sono state recentemente delle sentenze che hanno considerato gli stati emotivi e passionali sufficienti all’applicazione della semiinfermità mentale per autori di violenza su donne che riteniamo tecnicamente inaccettabili.
Il Documento del CNB a pag.18, dopo aver più volte ribadito il concetto che di norma la cura delle persone affette da disturbo mentale dovrebbe essere “nel territorio”, sostiene che “nel caso dei disturbi più gravi, la priorità della cura al di fuori del carcere richiede un adeguamento normativo”, tra cui viene citato l’”ampliare l’affidamento terapeutico ai servizi territoriali o strutture residenziali o semiresidenziali facenti parte del DSM”.
Qui ribadiamo che non si tratta di un semplice “adeguamento normativo” ma della necessità di una sostanziale revisione dell’investimento economico-finanziario sul sistema della salute mentale, partendo dalle enormi carenze di organico, alle ingenti risorse investite sulle strutture residenziali per far fronte al problema dei pazienti autori di reato che non entrano in REMS.
Enrico Zanalda, presidente SIP
Direttore del DSM ASL Torino 3
Massimo Clerici, presidente SIP-Dip
Ordinario di psichiatria – Univ. Bicocca (Milano)
Liliana Lorettu, presidente SIPF
Ordinario di psichiatria – Univ. di Sassari
Bernado Carpiniello, past president SIP e direttivo SPF
Ordinario di psichiatria-Univ. Di Cagliari