“
Le Regioni e le nuove sfide del regionalismo” è il titolo di un documento approvato, immagino all’unanimità, dalla conferenza delle regioni e delle province autonome (
QS 23 ottobre 2018). La “
nuova sfida” a cui si allude è il
“regionalismo differenziato”. Una delle idee più inadeguate, quindi più manifestamente insufficiente, che si potesse tirar fuori nei confronti dei problemi acuti della sanità.
Il Veneto rinuncia alla sua idea folle di uscire dal Ssn?
Sapevamo che, in questi giorni, il ministro degli Affari regionali,
Stefani avrebbe dovuto presentare, in consiglio dei ministri, una proposta di legge per la fuoriuscita della regione Veneto dal sistema sanitario nazionale.
Leggendo il documento della conferenza sembrerebbe che ciò non sia possibile, cioè detto con il nostro linguaggio, sembrerebbe che, anche per la conferenza delle regioni, la sanità alla fine sia indevolvibile.
Se fosse così il primo ad esserne soddisfatto sarei proprio io perché l’argomento dell’indevolvibilità della sanità è stato, come ricorderete, l’idea base dell’allarme da me lanciato su questo giornale (
QS 19 settembre 2018) e della mia battaglia. (QS
24/
27 settembre,
1/
4 ottobre 2018)
Ma è così? Francamente non lo so. Non riesco a comprendere se il documento approvato sia in grado di disciplinare il negoziato che ogni regione dovrà fare con il governo per avere più autonomia. Oppure no.
Dubbi
Premetto che nel documento della conferenza non compare mai la parola “sanità” cioè il suo discorso riguarda genericamente le materie costituzionalmente trasferibili. In esso tuttavia sono esplicitati i principi costituzionali che, il regionalismo differenziato, non dovrebbe violare quali la solidarietà, l’universalità l’uguaglianza che, ricordo, sono i principi vincolanti che valgono in particolare per la sanità.
Quindi, pur con le cautele necessarie, se fosse vera la validità di certi principi costituzionali, allora la regione Veneto dovrebbe rinunciare al suo progetto di fuoriuscita dal Ssn.
La eventuale maggiore autonomia, in questo modo, resterebbe dentro un sistema nazionale universale e solidale, il che, per me, rispetto a come si era partiti, non sarebbe un risultato politico disprezzabile.
E i cittadini? E gli operatori?
Ciò non di meno il documento delle regioni resta inaccettabile a partire da un postulato inaccettabile: l’esclusione, dalla discussione sul governo della sanità, di cittadini e di operatori.
Dopo 30 anni circa che discutiamo in un modo o nell’altro di
“questione istituzionale” le regioni continuano ottusamente:
- a intendere il concetto di
“istituzione pubblica” come separato e sopra alle persone,
- a presumere che i cittadini e gli operatori siano solo amministrabili cioè per definizione inadeguati a partecipare ad un eventuale funzione di governo.
In realtà, per tanti motivi, particolarmente oggi, la sanità non è più semplicemente amministrabile e gli operatori e i cittadini, ormai per ragioni di complessità non possono non partecipare, alla funzione di governo.
Ma quale regione ci servirebbe?
Nonostante siano diversi decenni che le regioni hanno la titolarità della sanità nel loro documento non si fa né un bilancio della loro esperienza di governo e meno che mai si accenna ad una critica al loro operato. Possibile mai che le regioni non abbiano nulla da rimproverarsi?
Il loro documento:
- si da arie da federalismo avanzato ma senza essere in nessun modo federalista (neanche per sbaglio),
- è convinto che il potere amministrativo basti a risolvere i problemi complessi della sanità,
- ci propone una potestà istituzionale alla fine drammaticamente imperita,
- ci chiede più poteri amministrativi senza garantirci nuove capacità di governo,
- si ispira ad un concetto di “
regionalismo” che però si riduce a quello di
“regionismo” cioè alla sua brutta copia.
Il documento, anche se la questione di fondo è “
quale regione ci servirebbe” ci propone una idea di regione che è:
- sia “
meno di quello che dovrebbe essere”,
- sia “
meno di ciò che servirebbe che essa fosse”.
E questo per la sanità è un guaio.
Regionalismo, regionismo e federalismo
Accordiamoci intanto sulle definizioni:
- per
regionalismo si intende una teoria politica il cui scopo è accrescere l’autonomia della regione,
- per
regionismo si intende la riduzione della funzione di governo a gestione,
- per
federalismo invece, si intendeuna diversa distribuzione dei poteri tra istituzioni centrali e periferiche e tra queste e la loro comunità di riferimento.
La differenza principale, tra queste definizioni, riguarda quindi il rapporto con le persone:
- nel regionalismo le regioni governano senza le persone,
- nel gestionismo le regioni amministrano le persone come cose,
- nel federalismo invece le regioni governano con le persone cioè le persone non sono semplicemente amministrabili.
Il documento della conferenza dice chiaramente che:
- la sua teoria di riferimento è quella del regionalismo/regionismo,
- il suo scopo dichiarato è più autonomia per amministrare meglio la sanità.
Orientamenti e appartenenze politiche
Vediamo i rapporti tra le diverse teorie istituzionali con le appartenenze politiche:
- Il
regionalismo appartiene alla visione istituzionale classica della sinistra (regioni “rosse”) che a sua volta rientra in quella classica del decentramento amministrativo iniziato nel 1970 e approdato alla riforma del titolo V nel 2001 e che vede negli anni un trasferimento crescente, alle regioni a statuto ordinario, delle funzioni amministrative costituzionalmente attribuibili.
- Il
regionismo appartiene alla pratica amministrativista delle regioni che inseguono un ideale di amministrazione totale quindi centralizzato della realtà in ragione del quale tutto soprattutto la medicina, le professioni, i bisogni dei cittadini, le varie complessità, andrebbe amministrato. La “
medicina amministrata” è un tipico sotto-prodotto del
regionismo, cioè l’uso da parte delle regioni, per scopi di risparmio, soprattutto di strumenti procedurali e di standard, per imporre ciò che conviene economicamente allo stato in barba a ciò che converrebbe medicalmente al cittadino.
- Il
federalismo appartiene nel nostro paese idealmente alla Lega che però almeno in sanità, a tutt’oggi, non è riuscita a distinguerlo e ad emanciparlo dalla teoria del decentramento amministrativo. Il grande equivoco, un vero bluff, è stato quando nel 2001 si è fatta la riforma del titolo v per rispondere alle istanze federaliste della Lega ma restando fortemente ancorati alla logica del decentramento amministrativo.
Deja vu
Il titolo V riformato nel 2001 quindi resta dentro la teoria del decentramento amministrativo e l’attuale proposta della conferenza sul regionalismo differenziato, non fa niente altro che svilupparlo nonostante esso, abbia fatto, negli anni, più danni della grandine.
Siamo purtroppo al
deja vu. A nessuno dei tanti ambiziosi governatori regionali, alcuni dei quali si candidano a dirigere partiti morenti, altri a continuare le loro carriere in parlamento, altri ancora a ricoprire cariche prestigiose, viene in mente che, siccome, in sanità esiste un crescente problema di sostenibilità la questione dei poteri delle regioni, non può essere disgiunta da quella del genere di governo che serve a garantire la sostenibilità del sistema.
Ormai la gestione, con il crescere dei problemi di sostenibilità, si sta rivelando quale teoria di governo, inadeguata. Oggi dare più autonomia di gestione, in assenza di un vero pensiero riformatore, al massimo serve ad autorizzare delle contro-riforme cioè a fare delle mutue parastatali.
Bisogna ricordare che “amministrare” e “governare” non sono la stessa cosa. Nel primo caso il valore di base è la migliore gestione possibile di un sistema strutturalmente invariante, nel secondo caso è il suo cambiamento più efficace cioè più conveniente ai cittadini e allo Stato.
L’invarianza sta alla gestione come il cambiamento sta al governo.
La questione politica vera quindi è quale forma di governo è più adatta ad una strategia di cambiamento. Senza una strategia di cambiamento non resta che la strada della controriforma. Le regioni senza neanche una parvenza di una idea riformata di governo, vogliono più autonomia ma per fare danni.
Sostenibilità
La conferenza delle Regioni dice che il regionalismo differenziato:
“costituisce un’ulteriore tappa nell’ambito del processo di decentramento che, dopo aver registrato un rallentamento per effetto della crisi iniziata nel 2008 e della conseguente legislazione di emergenza, sta vivendo una nuova stagione che vede la centralità ed il ruolo propulsivo delle Regioni nel processo di definizione dei nuovi assetti istituzionali”.
Il documento considera il processo di decentramento come un continuum che però, a causa della crisi economica, si è interrotto e che ora può essere ripreso perché la crisi è considerata in via di risoluzione.
Personalmente, limitandomi ai problemi finanziari della sanità, non credo che essi siano in via di risoluzione per cui sarebbe possibile continuare come prima cioè senza aggiustare la rotta. Al contrario delle regioni credo che il problema della sostenibilità diventerà sempre più una costante strutturale del sistema sanitario anzi un suo modo di essere.
Sostenibilità e finanziamento
Vorrei chiarire la differenza tra il concetto di sostenibilità e quello di finanziamento.
Il grado di sostenibilità della sanità dipende soprattutto:
- dalla natura incrementale della spesa sanitaria,
- dalla disponibilità del sistema a ridiscutersi andando oltre la propria semplice amministrazione,
- dal suo grado di adeguatezza nei confronti dei bisogni da soddisfare.
Il finanziamento dipende dalla legge di bilancio e quindi da una scelta di politica economica che empiricamente è sempre più dipendente da variabili macroeconomiche come il pil e il disavanzo pubblico. Quindi molto sparagnino.
Sia dato il finanziamento del FSN ebbene il suo grado di sostenibilità dipende dal grado di invarianza e/o cambiamento del sistema inteso nel suo complesso sapendo che l’invarianza:
- rende ancora più dipendente il settore dalle variabili macroeconomiche,
- accentua la natura incrementale della spesa perché aggiunge spesa a spesa senza mai compensare niente,
- accentua i problemi di inadeguatezza dell’offerta, più resti fermo mentre tutto cambia e più diventi inadeguato nei confronti di ciò che cambia. Più diventi inadeguato e più costi.
E’ per governare la spesa che ci serve una nuova idea di governo della sanità
Detto in altre parole io sono convinto:
- che la spesa sanitaria tenderà fisiologicamente a crescere e che la crescita potrebbe essere ostacolata da variabili macro-economiche come l’andamento del pil,
- che la tensione tra finanziamento e definanziamento in sanità diventerà una costante non un fatto contingente per governare il quale ci vogliono delle discontinuità riformatrici.
Vorrei ricordare l’articolo davvero prezioso di
Giovanni Rodriquez (
QS 24 ottobre 2018) che ci spiega che, in mancanza della crescita economica auspicata con la manovra di bilancio, il governo prevede misure di compensazione sotto forma di tagli automatici. Anche supponendo che questi tagli non riguarderanno la sanità non sarebbe esagerato ritenere che per la sanità, se non ci saranno tagli, comunque non ci saranno finanziamenti. Per cui la tarantella del de-finanziamento potrebbe continuare.
In sostanza sono le grandi questioni della spesa insieme a quelle che riguardano l’evoluzione della domanda sociale, che, soprattutto oggi, rendono necessario un cambiamento di rotta nelle soluzioni di governo della sanità.
La nostra sanità è come un motore che va raffreddato perché se continua a riscaldarsi finirà per ingripparsi. Per raffreddarlo non basta amministrarlo cioè dare più poteri ai meccanici ma dobbiamo riprogettarlo per farlo scaldare di meno perché quello che c’è anche con i più bravi meccanici scalda comunque troppo.
Emanciparsi dallo spending power
Il documento delle regioni a parte riferirsi a “
sistemi territoriali” senza mai citare i Comuni (un’altra prova della sua spiccata vocazione antifederalista) si illude che “
la distribuzione delle competenze amministrative e legislative dell’amministrazione statale decentrata a favore di quella territoriale” sia fondamentale a “
far cessare “le politiche dei tagli”.
La riforma del titolo V cioè il ricorso al decentramento ammnistrativo dei poteri, in questi anni non ha impedito né i tagli e né il de-finanziamento della sanità. Le regioni sono state le prima vittime dello
spending power del governo, cioè del fallimento dello strumento dell’intesa finanziaria tra stato centrale e regioni (patti per la salute).
Le regioni a causa dello
spending power hanno perso solo gradi di autonomia. In cambio dei soldi aumentava la loro dipendenza dal governo centrale. Perché oggi il regionalismo differenziato quale super titolo V dovrebbe impedire la politica dei tagli, quando i tagli sono stati fatti soprattutto in un regime di decentramento amministrativo?
Abbiamo bisogno di un’altra forma di governo
Abbiamo quindi bisogno di un’altra forma di governo che:
- vada oltre la logica della compatibilità cioè del mero adattamento dei diritti ai limiti economici perché i diritti rischiano di essere sacrificati alla compatibilità,
- non si riduca ad amministrare l’insufficienza ma che rimuova con il cambiamento le tante contraddizioni che esistono tra limiti e diritti per creare con una maggiore adeguatezza condizioni di maggiore sufficienza (compossibilità),
- renda più adeguato il sistema alle necessità di salute di questa società anche per farlo costare di meno,
- partecipata perché per i cambiamenti che servono abbiamo bisogno anche di conoscenze non ammnistrative che sono quelle dei cittadini e degli operatori cioè quelle senza le quali le complessità di vario tipo non si governano,
- faccia del cambiamento la chiave di volta per superare l’invarianza vale a dire quella condizione di fondo che a scala di sistema crea inadeguatezza tanto finanziaria che sociale.
Se per sostenibilità intendiamo un equilibrio tra risorse, servizi, bisogni, da assicurare nel tempo, si comprende come la nozione di equilibrio sia primariamente una nozione di complessità e che tale nozione non possa essere solo un problema di gestione.
Ecco perché personalmente il documento delle regioni non mi convince. Il regionalismo differenziato è una falsa soluzione. Per governare il conflitto epocale che riguarda la sanità che è quello che contrappone le risorse ai diritti oggi è necessario abbandonare la teoria del decentramento amministrativo per assumere quella di un vero federalismo intelligente.
Per fare questo ci vuole una legge, per fare questa legge ci vuole un pensiero, per avere questo pensiero, ci vuole a parte le conoscenze, le idee, le intuizioni, onestà e libertà intellettuale. Bisogna inventare qualcosa che non faccia solo i comodi delle regioni e dei loro governatori, ma che pensi al bene pubblico del nostro paese. La libertà intellettuale che serve è quella che pensa il bene pubblico.
Autonomia e limiti
Da ultimo vorrei riflettere sul rapporto tra autonomia e limiti. Le regioni non vogliono meno limiti ma vogliono più autonomia.
Autonomia e limite sono concetti antitetici per cui:
- o a limiti invarianti cresce l’autonomia,
- o a autonomia invariante diminuiscono i limiti.
Personalmente sento il bisogno di spostare l’attenzione dall’autonomia ai limiti. Che senso ha dare autonomia alle regioni per poi toglierla loro con tanti limiti e tante obbligazioni? Più nello specifico che senso ha dare alle regioni secondo il titolo V più autonomia organizzativa e poi sottoporle al DM 70 cioè a un regolamento sugli ospedali che le inchioda a rispettare parametri decisi dal governo e che spesso non hanno nessuna pertinenza con i loro problemi locali? (
QS 15 ottobre 2018).
La risposta è ovvia: in un sistema basato sul decentramento ammnistrativo le autonomie delle regioni sono funzioni delle politiche nazionali. Cioè la decisione dello Stato centrale per essere attuata deve essere decentrata alle istituzioni locali.
Questo meccanismo lineare non funziona più perché ormai è norma che tra la regola centrale e il problema da risolvere in periferia vi sia uno scarto.
L’autonomia di governo serve a risolvere lo scarto tra un valore generale e un valore particolare.
In sostanza il problema è quello che altrove ho definito la questione dell’equità (
QS 1 ottobre 2018). Rispetto a tale problema la teoria del decentramento amministrativo, anche nella formula del regionalismo differenziato non solo è poco equa ma rischia di fare delle iniquità una strategia.
La formula di governo più adatta a governare i problemi di equità è proprio quella federalista intendendo per federalismo non quello fasullo fatto sino ad ora, ma quello che ancora non abbiamo fatto.
Insomma, a me pare, che se le regioni volessero effettivamente più autonomia e meno limiti dovrebbero abbandonare il decentramento ammnistrativo. Questa è la ragione per la quale non mi trovo d’accordo con il documento. Le regioni nel loro insieme come un cavallo tutt’altro che ardimentoso si rifiutano di saltare l’ostacolo.
“Malati e governatori”
Dodici anni fa pubblicai “
Malati e governatori” (2006) con il quale sostenevo la tesi che le regioni avrebbero dovuto imparare più che ad “essere” regioni a “diventare” regioni. Più che a gestire a governare.
Come dimostra il documento che qui ho cercato di esaminare, le regioni, mi dispiace dirlo, ancora oggi vogliono
essere regioni chiedendo sempre più poteri amministrativi ma senza
diventare regioni cioè senza garantirci nuove capacità di governo.
Vista la situazione toccherebbe o al parlamento o al governo avanzare una proposta di legge perché avere delle regioni imperite per la sanità non è un guaio da poco. Con queste regioni, in sanità, non si va lontano. Con queste regioni la sfida della sostenibilità è persa in partenza. Con queste regioni il rischio di privatizzazione del sistema pubblico cresce.
Le regioni oggi chiedono maggiore autonomia perché vogliono contro riformare certe regole ma solo perché non sanno come riformarle.
Deregolamentare la sanità con la scusa dell’autonomia è già seccante, ma deregolamentare perché chi governa è incapace di riformare è francamente insopportabile.
Caro presidente Bonaccini, mi spieghi se crede, ma per quale dannata ragione tutti noi dovremmo accettare che le vostre ostinate incapacità culturali, (prima di tutto), mettano in pericolo l’esigibilità dei nostri diritti fondamentali? Non vi è bastata la lezione dell’ultimo voto elettorale?
Ivan Cavicchi