Il Convegno “Asfissia Intrapartum e Paralisi celebrale infantile”, tenutosi il 4 settembre presso l’Aula Magna della Clinica Mangiagalli in Milano, ha funto da cornice alla presentazione del
sistema Giapponese di Indennizzo in caso di nascita con neonato affetto da handicap illustrato – nei suoi passaggi salienti – nella relazione del prof.
Shin Ushiro.
Tale modello si basa –nei suoi tratti essenziali – sull’esigenza di ridurre i conflitti medico legali per una patologia così legata a fattori multipli che intervengono nel corso della gravidanza di cui il parto rappresenta al massimo una lieve aggravante, quando mal condotto, di patologie preesistenti.
Prova ne è che la stragrande maggioranza delle cause penali contro le equipe mediche, dopo lunghi anni di dibattimenti, vedono la totale assoluzione in assenza di prove di cause effetto tra il comportamento medico e lesioni di paralisi cerebrale osservate.
In estrema sintesi il modello prevede proprio per questa mancanza di responsabilità e invece di attuale presenza di un gravissimo problema di handicap, un comportamelo del sistema sanitario pubblico integrato ai fondi assicurativi che:
a) Mette subito disposizione della famiglia fondi rilevanti di solidarietà non inferiore i a quanto riceverebbe la famiglia in caso di colpa medica;
b) investe in procedure di rivalutazione dell’evento condotte da una commissione nazionale che diffonde poi i risultati a tutti i punti nascita qualora vi fosse da correggere procedure mediche sino ad allora seguite ma più frequentante associate a questa patologia;
c) consente al medico di un intero sistema sanitario di condividere le migliori pratiche;
d) consente al sistema sanitario un risparmio strategico complessivo, basti per questo pensare quante ore lavoro quanti soldi effettivi vengono impiegati per una causa che dura 8 10 anni.
L’idea di fondo è quella di evitare l’ossessiva ricerca di un colpevole o di un capro espiatorio (quale tasca dalla quale attingere chissà quali risarcimenti monetari) e di privilegiare invece la ricerca di soluzioni che garantiscano, al contempo, il giusto sostegno alle famiglie colpite dagli eventi avversi ed il recupero, negli operatori delle sale parto, di quella serenità necessaria ad assumere senza riserve e neppure timori, il loro sacro e delicato impegno professionale.
La ragione che giustifica, qui ancor più che in altri settori, il ripudio del giustizialismo accusatorio risiede in una considerazione fondamentale, condivisa da tutti i relatori che hanno preso parte al convegno, e in realtà in modo omogeneo dalla letteratura scientifica: nella grande maggioranza dei casi l’origine della paralisi infantile non si collega ad una causa certa e ben individuata, tantomeno alla responsabilità dei professionisti della sala parto o della struttura.
Se trasferiamo il ragionamento in termini giuridici ci troviamo, il più delle volte, innanzi ad una causa ignota: pretendere di porne le conseguenze dannose sistematicamente in capo agli operatori sanitari equivale a sancirne una specie di responsabilità oggettiva, lontana anni luce dai principi di fondo espressi, in Italia, dal nostro codice civile; codice che àncora invece la responsabilità del professionista all’accertamento in concreto di una colpa, per di più graduata in funzione della difficoltà tecnica sottesa al suo incarico ed al caso di specie (art. 2236 c.c.).
La paralisi cerebrale infantile è associata a esposizione a tossici ambientali in gravidanza, (cadmio, piombo, ad alcuni alchilici usati dall’industria) a infezioni silenti endouterine, all’uso di alcuni antibiotici, a problemi di coagulazione non diagnosticabili, Condizioni tutte che fanno si che il feto non risponda anche a stimoli ipossici minori con un normale ma con un danno imprevedibile.
Ecco dunque che il modello Giapponese, teso a tagliare in radice le enormi, e spesso insormontabili, difficoltà probatorie connesse all’individuazione di effettive responsabilità risarcitorie nei più critici eventi ostetrici, si dimostra di grandissimo interesse per gli osservatori, fornendo più di uno spunto per riflessioni tese a verificare se vi siano spazi utili per replicarne l’esperienza in Italia.
Le suggestioni e gli stimoli offerti dall’esperienza Giapponese sono molteplici, e si calano perfettamente negli attuali contesti evolutivi della disciplina del rischio clinico e della relativa responsabilità. La legge 24/2017 (così detta legge “Gelli”) segna un momento fondamentale, sottendendo la medesima esigenza di passare dalle logiche inquisitorie della “responsabilità sanitaria” a quelle evolutive di una “sanità responsabile”: esigenza che vuol riportare gli operatori della sanità al centro della loro vocazione professionale, nel segno di un’assunzione di impegno (e di rischio, anche e soprattutto nei casi più difficili) che è la prima regola di tutela e garanzia del paziente. Sicurezza delle cure e governo del rischio sono oggi la priorità, laddove invece la responsabilità ed il risarcimento costituiscono una - pur doverosa – tutela di secondo livello.
Ora, un tale approccio normativo, volto ad arginare le tendenze sanzionatorie di una giurisprudenza che ha poco per volta ribaltato la concezione codicistica di partenza, comincia ad infiltrarsi nella coscienza di tutti gli stakeholders ed anche negli approcci della casistica conflittuale davanti alle Corti.
Ciò vale anche e soprattutto - proprio - per le conseguenze delle cause ignote, rispetto alle quali la Giurisprudenza sta riconsiderando il proprio orientamento passato, volto prevalentemente a porne il peso risarcitorio, in termini di “quasi” responsabilità oggettiva, in capo alla struttura ed agli esercenti.
Se il rischio della causa ignota oggi dovesse davvero tornare a gravare sul paziente, il carico delle potenziali responsabilità delle “sale parto” tornerebbe ad esser più governabile, con conseguente potenziale diminuzione di un contenzioso che, a questo punto, proprio per effetto dell’incertezza del nesso causale, potrebbe trasformarsi per il danneggiato in autentico azzardo.
Ma anche in questo contesto evolutivo, la drammaticità di certi eventi ostetrici avversi rimane, in tutta la sua esplosiva urgenza. Ecco dunque che l’idea di un sistema di compensazione “senza colpa” torna ad affacciarsi con l’intera sua carica di positive potenzialità previdenziali, assistenziali e , dopo tutto, sociali.
Non si tratta, ovviamente, di replicare “tout court” l’esperienza giapponese, ma di trarne adeguato spunto per intervenire in un settore in un cui l’idea di una sistemazione di “secondo pilastro” indennitario/assistenziale sembrerebbe davvero da preferirsi a soluzioni contenziose che, negli scenari prospettici sopra disegnati, parrebbe potersi definire come “lose lose” per tutte le parti coinvolte.
Occorre dunque comprendere come imbastire un’ipotesi di questo tipo, muovendo dal presupposto che in Italia esiste un pur debole sistema di sostegno pubblico alle più gravi invalidità ed alle non autosufficienze; sistema che, mancante (secondo quanto riferito) in Giappone, è da noi talmente frastagliato (nella ripartizione tra Stato, regioni, comuni) da non risultare noto ai più.
Non solo: il nuovo sistema dovrebbe allinearsi alle più moderne esigenze di prevenzione e governo del rischio, prevedendo, a carico delle strutture e degli operatori, precisi obblighi di reportistica, analisi, studio, esplorazione e confronto utili a fornire un decisivo contributo nella difficile rivelazione di fattori causali oggi ancora troppo criptati.
Il tutto trasformando i rischi endemici in esperienza utile e progresso scientifico.
Comitato scientifico (Enrico Ferrazzi, Fabio Mosca, David Mozzanica, Antonio Ragusa, Riccardo Tartaglia)
Con il contributo specifico per gli aspetti tecnici legali dell’avvocato Maurizio Hazan (Associazione Risarcimento&Etica)