Giusto un anno fa a Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e della conferenza delle regioni, sollecitavo su questo giornale, spiegazioni su quello che lui definì “
la terza via del federalismo” chiedendogli semplicemente che cosa intendeva fare con più autonomia, correndo dietro al Veneto che per primo aveva preso l’iniziativa (
QS 24 luglio 2017).
Ora, dopo un anno,
a chiedere più autonomia sono praticamente tutte le regioni, di destra e di sinistra, con l’eccezione dell’Abruzzo e del Molise, il che fa pensare che l’uso dell’art 116, terzo comma, della Costituzione, chiave di volta di tutto il ragionamento, si configuri di fatto come la riproposizione di un Titolo V maggiorato a scala di sistema.
La cosa turba, perché essa è platealmente illogica e politicamente assurda: se il titolo V, che dava alle Regioni una autonomia praticamente illimitata, svuotando lo Stato centrale di poteri e competenze, è fallito, dando luogo a 21 sistemi sanitari diseguali, quindi ad una vera negazione dell’universalismo, perché ora dovremmo dare più autonomia alle regioni e, accentuare le diseguaglianze anziché risolverle?
Chiedo a
Marina Sereni, la nuova responsabile per la sanità del Pd, ma quale coerenza ha il “
regionalismo differenziato”, così viene chiamata la richiesta da parte delle Regioni di maggiori poteri, rispetto al referendum del 4 dicembre con il quale, in qualche modo, il Pd voleva, giustamente, correggere gli eccessi di autonomia del 2001 e riequilibrare i rapporti tra stato centrale e regioni? E poi: ma se tutte le regioni chiedono all’unisono più poteri che regionalismo differenziato è? Non sarebbe meglio chiamarlo super-regionalismo? Super titolo V?
E da ultimo siamo propri sicuri che la richiesta delle regioni, Bonaccini in testa, sia più “autonomia” e non più “arbitrarietà”? Vorrei ricordare che “arbitrario” vale come l’esercizio abusivo, ingiustificato delle proprie autonomie anche a scapito dei diritti degli altri, mentre “autonomo” vale come capacità e facoltà di amministrarsi da sé dentro delle regole condivise e senza ledere i diritti degli altri.
Onorevole Sereni, a me preme la riflessione politica che il Pd sta facendo sulla propria sconfitta elettorale, in particolare, che voi mettiate in discussione la strategia sbagliata e perdente che, fino ad ora, avete avuto in sanità, ma se dal referendum del 4 dicembre passate pure voi, ripeto Bonaccini in testa, come la Lega, al “
regionalismo differenziato”, dubito che il popolo della sanità che non vi ha votato torni a votarvi. Che si debba correggere il titolo v, grande errore della sinistra di governo, è fuori discussione, ma per fare questa correzione serve una nuova idea di governo della sanità e quindi un pensiero riformatore. Hai voglia a fare le riunioni di segreteria a Tor Bella Monaca!
Ma a parte la destra e la sinistra, che sul regionalismo differenziato sono indistinguibili, che ne dice il M5S quindi il ministro
Grillo, che, si dichiara né di destra e né di sinistra, e che, nel suo programma, ha sempre sostenuto che l’universalismo è un valore da difendere e da implementare dicendosi pronta a eliminare le diseguaglianze?
Veda ministro: la questione del “
regionalismo differenziato” la riguarda direttamente anche per un’altra ragione: se questa “pensata” nasce in prima istanza come necessità per le Regioni di arrangiarsi con i soldi che ricevono dal governo, quindi sulla base del presupposto che serve più “arbitrarietà” perché il de-finanziamento è ineluttabile, allora vuol dire che le sue assicurazioni sul rifinanziamento del sistema non bastano o non sono credibili. Per cui le chiedo: se, come lei ha dichiarato, grazie al programma di governo, in sanità non ci sarà più de-finanziamento, che bisogno c’è di riproporre un super titolo V, anziché mettere fine al suo fallimento?
Personalmente ritengo che il “
regionalismo differenziato” sia in flagrante contraddizione con il programma che il M5S ha varato in sanità, per cui le chiedo ministro, al fine di evitare la deriva delle diseguaglianze, perché non gioca di anticipo, e ci propone un piano per mettere in sicurezza l’universalismo sanitario in questo paese?
Cosa aspetta a mettere mano ad un a nuova idea di
governance e a una revisione dei criteri di allocazione delle risorse a scala nazionale che metta fine una volta per tutte al sotto-finanziamento del sud, alla tratta dei malati del sud a vantaggio delle regioni del nord, riponderando le quote capitarie con criteri più equi tarati su bisogni collettivi più realistici, su obiettivi e su risultati?
Veda ministro lei, appena nominata, ha dichiarato che si sarebbe occupata di “
ordinario” e non di “
straordinario”, e per chi ha scritto la “
quarta riforma” queste parole, non le nascondo, sono suonate come un rifiuto a priori, ma solo per limiti culturali, di un pensiero riformatore e quindi come il preferire il basso profilo e la teoria dei piedi per terra. Siccome credo che non è la realtà che deve adattarsi alla razionalità ma esattamente il contrario le chiedo di nuovo: rispetto alla minaccia del regionalismo differenziato cosa vuol dire “ordinario” e cosa vuol dire “stare con i piedi per terra”? Cioè quale riforma è necessaria?
Nella mia “
quarta riforma”, per riassumere la pessima prova di governo sulla sanità delle Regioni, e in particolare gli effetti nefasti del titolo V, ho introdotto la parola
“regionismo”. Il mio scopo era di sottolineare una sorta di degenerazione del concetto corretto di
“regionalismo”.
Il titolo V ha causato il regionismo ed è a causa del “
regionismo” che, in questi anni, abbiamo sofferto della deformazione dei rapporti tra Regioni e Stato Centrale, tra regioni e aziende tra regioni e enti locali assistendo inermi a quelle operazioni di “contro riforma” definite eufemisticamente di “riordino”, per le quali, sempre per motivi economicistici, si sono attuati accorpamenti scriteriati di aziende con lo scopo di ridurne il numero, risparmiare sugli stipendi dei direttori generali, facendo saltare il criterio base del nostro ordinamento sanitario che è la territorialità del sistema , la prossimità dei servizi in rapporto al luogo di vita, l’integrazione, la distrettualizzazione, ecc.
Per quello che mi riguarda, mia cara ministro Grillo, il “
regionalismo differenziato” è puro “
regionismo” cioè esso è, in mancanza di un pensiero riformatore più avanzato:
- semplicemente la riproposizione del titolo v con un grado di arbitrarietà in più,
- una mediazione discutibile tra risorse limitate e governo della sanità.
Il senso è: le regioni accettano di avere meno soldi ma chiedono mani libere cioè meno vincoli nazionali quindi più possibilità di interpretazioni locali delle norme e quindi meno universalità.
In questi anni, ministro Grillo e, come ricorderà, da ultimo, nella “quarta riforma”, ho sempre sostenuto la tesi che per difendere il valore dell’universalismo sarebbe stato necessario riformarne il presupposto originario che è stato quello di intendere l’universalismo come uniformità.
Ho sempre pensato, al di là delle cose fondamentali che devono essere uguali per tutti (per esempio i diritti) che credere di fare eguaglianza in un mondo di differenze dando le stesse cose a tutti e nello stesso modo (stesse organizzazioni, stessi modelli, stessi volumi, stessi standard, stessi obiettivi, ecc.) come se le differenze non esistessero, fosse sbagliato. La tragedia della Campania nasce da questo presupposto.
Seguendo l’insegnamento di Aristotele, a proposito di equità, mi sono anche convinto che un buon universalismo, per essere declinato come tale, quindi come valore generale, ha bisogno di interpretare le differenze per usarle a fini di ottenere una eguaglianza effettiva. Quindi differenze contro diseguaglianze. Lei signor ministro le diseguaglianze non le combatterà mai se non farà i conti con le differenze. Ripeto Campania docet.
E infine, sulle orme di Rawls, ho sempre creduto che la “
teoria della giustizia” come equità, potesse, in ogni caso, salvare sempre e comunque, i più deboli dal momento che il suo principio di fondo resta:prima delle utilità (utilitarismo) viene sempre la giustizia (egualitarismo), le utilità non giustificano mai le ingiustizie.
Una politica, direbbe Rawls, che pensasse ad esempio con il “regionalismo differenziato” di poter controbilanciare il de-finanziamento imposto alle regioni con una maggiore “arbitrarietà” delle regioni forti a spese delle regioni deboli, sarebbe da rifiutare.
Perché è del tutto ovvio che, anche dando a tutte le regioni maggiori “arbitrarietà”, gli squilibri resterebbero tutti con il rischio di aggravarsi. Gli squilibri in sanità, signor ministro, per essere recuperati hanno bisogno non “dell’ordinario” ma dello “straordinario” cioè di riforme. Insisto non è la realtà che deve adattarsi alla politica ma il contrario.
A questo pensiero riformatore ho dato il nome di “
universalismo discreto” che è cosa ben diversa dal “
regionalismo differenziato”.
Nel primo si tratta di riformare:
- l’ idea di governance quindi i rapporti tra stato centrale, Regioni, aziende, servizi professioni e cittadini,
- il sistema dei criteri di allocazione delle risorse,
- i modelli dei servizi,
- il ruolo delle professioni.
Nel secondo lo status quo istituzionale del titolo V, resta invariante, i criteri di allocazione restano invarianti, ma aumenta il grado di “arbitrarietà” della regione, con il rischio di mettere in crisi i grandi parametri nazionali come i profili professionali, i ruoli degli operatori, la formazione uguale per tutti , la contrattazione nazionale, ecc.
Temo che dare più “arbitrarietà” a delle regioni fondamentalmente incapaci di essere regioni fino in fondo, del tutto chiuse ad un pensiero riformatore, apra spazi a delle reinterpretazioni deteriori dei valori generali validi per tutti. In sanità chi non sa come andare avanti (riforme) fatalmente torna indietro (controriforme).
Mi auguro che il ministro Grillo sul “regionalismo differenziato” ci dica presto non solo una parola che ci rassicuri, ma che metta in campo, preventivamente, quel pensiero riformatore, senza il quale, il suo concetto di “cambiamento” rischierebbe di apparire un vuoto esercizio retorico.
Ivan Cavicchi