Nel generale processo di svalutazione del lavoro umano anche il lavoro sanitario ha subito un processo di deprezzamento. Nulla a che vedere, ovviamente, con il lavoro schiavizzato delle piane di Gioia Tauro o con le condizioni di sfruttamento dei giovani
riders delle aree metropolitane. E’ tuttavia innegabile che le condizioni di lavoro nei presidi ospedalieri e nelle strutture territoriali sono significativamente peggiorate nel corso degli anni, con punti di vera sofferenza e burnout nei servizi di emergenza/urgenza.
E’ l’intera civiltà del lavoro ad avere subito una regressione senza precedenti. Il lavoro ha perso valore e di questo dobbiamo trovare le cause profonde che, come vedremo, non sono legate soltanto alla crisi dell’ultimo decennio. Serve dunque un approfondimento di analisi (purtroppo assente nel dibattito) che vada oltre il fatto contingente per concentrarsi sulle cause remote di un fenomeno di tale portata. Una riflessione che va oltre l’interesse di studio e che diventa invece indispensabile se il comune obiettivo è impedire che l’intero sistema di welfare si sgretoli con le politiche del giorno per giorno
La svalorizzazione del lavoro medico come fatto compiuto
In meno di venti anni il capitale professionale non è più il
driver del sistema sanitario. Il medico ha cessato di essere una risorsa insostituibile per divenire uno delle componenti di un campo istituzionale il cui
core non è la salute intesa tradizionalmente come “la vita nel silenzio degli organi” per usare una espressione di Leriche, ma la sua capacità di generare discorsività sugli oggetti che ne fanno da riferimento e su tutto ciò che si configura come
bios.
Sono le profonde trasformazioni introdotte con l’economia de-materializzata ad avere determinato un radicale cambio di passo in cui la
componente professionale tradizionale non è più il
gate keeper del sistema e l’ordinatore di spesa legittimato, ma un ostacolo alla libera circolazione di pratiche discorsive, sempre più pervasive sulla salute e sulle sue possibili declinazioni, applicazioni e strategie manipolative.
Salute fisica nei suoi diversi apparati e nel corpo fisico come rappresentazione del sé verso l’esterno; salute mentale nei suoi possibili elementi di differenziazione (umore, irritabilità, vigore sessuale, deficit di attenzione e concentrazione dei bambini, scarso rendimento scolastico, socialità e disinibizione); strategie manipolative personalizzate e diversificate sotto forma di metodi per mantenersi in salute, fitness, alimentazione e dietetica alternativa, esercizi di meditazione e soprattutto farmacologizzazione della vita quotidiana con uso di integratori e farmaci “naturali” o di sintesi con cui curare tutto dalla svogliatezza e disattenzione dei bambini ai deficit erettili dell’adulto, dalla caduta dei capelli alla pancia gonfia e via dicendo
Una trasfigurazione, talvolta grottesca, dell’antico detto
mens sana in corpore sano e delle regole del
regime degli antichi romani fatto di dietetica bilanciata (il caldo, il freddo, l’umido e il secco), esercizio fisico, tecniche evacuative, termalismo, e pratiche sessuali improntati al rispetto della prudenza e soprattutto della massima aurea del tempio di Delfi
conosci te stesso.
I media e la medicina discorsiva
La riduzione della medicina a dispositivo discorsivo è testimoniata dall’attenzione che i media riservano ai suoi oggetti mostrando verso di essi un interesse quasi onnivoro. Tutto è oggetto di analisi e approfondimento con un isomorfismo piatto che mette sullo stesso piano stranezze anatomiche, curiosità cliniche specie se riferite alle celebrità, procedure diagnostiche d’avanguardia, pratiche esoteriche, guarigioni miracolose, sofisticate procedure chirurgiche e fallimenti terapeutici.
Dispositivi discorsivi anonimi e onnipresenti che rendono familiari i campi della medicina ma che modificano anche il
mood del paziente e che spesso fanno si che il medico sia costantemente in
ritardo rispetto alle aspettative/necessità/decisioni del paziente. Il suo interpello ha sempre più il passo dell’
ex-post e non più dell’
ex ante non cercandosi più in lui il parere tecnico sul che fare in un campo scarsamente accessibile e riservato fino a ieri a una cultura sapienziale, ma una conferma a un’idea che è maturata, spesso altrove, sul web, alla televisione o attraverso la trasmissione orale dei tanti apprendisti stregoni che amano cimentarsi con la medicina volgarizzata.
Nella medicina discorsiva, sempre più centrale è il momento dell’enunciato e delle tecniche che ne consentono la diffusione. Un enunciato che, attraverso una accurata strategia comunicativa, acquista valore per sé, indipendentemente e spesso aldilà dei suoi contenuti di verità. Le diete
gluten-free, gli alimenti a basso contenuto di nichel, le intolleranze alimentari, le medicine alternative, il rischio connesso alle vaccinazioni e all’uso di antibiotici, sono tutti topics su cui ognuno fa affermazioni asseverative senza averne mai approfondito i contenuti.
Argomenti complessi su cui non c’è ancora chiarezza anche in campo scientifico e che pure vengono semplificati e offerti al pubblico dibattito senza alcun riguardo alla solidità scientifica di quanto affermato, all’autorevolezza delle fonti citate e alla robustezza delle evidenze riportate.
Non si vuole con questo celebrare la medicina paternalistica e il regime di segregazione in cui veniva confinato il paziente rispetto al sapere medico! Si vuole solo segnalare come uno dei tanti paradossi questa semplificazione della medicina, che avviene proprio ora che la biologia ha spinto le sue conoscenze fin dentro il campo dell’ultrasottile dimostrando un livello di complessità di difficilissima gestione anche per gli esperti del settore.
I numeri del declino
Il declino della professione medica e sanitaria non è solo nella sua volgarizzazione ma è anche nel riflesso dei numeri che la riguardano. Il calo degli organici del servizio sanitario nazionale, andato di pari passo con la perdita di
status, si è progressivamente accentuato col tempo. Gli ultimi dieci anni di crisi, poi, hanno fatto il resto, desertificando il campo sanitario e ponendo le basi per una estrema difficoltà nel ripopolarlo.
I dati del Conto annuale della ragioneria dello Stato evidenziano che nel periodo 2009-2016 la riduzione dell’organico del SSN è stata pari a 45.000 unità. Nel 2016 (ultima rilevazione) le perdite sono state pari a 4.131 di cui oltre 1.700 infermieri. Gli unici ad aumentare (ironia della sorte) sono stati i manager, mentre le retribuzioni hanno registrato una ulteriore contrazione con i medici che perdono 183 euro e gli infermieri 50 euro l’anno. Il mancato ricambio generazionale è testimoniato dal sensibile aumento dell’età media del personale che passa da 43,5 anni a 50,6 anni.
Ancora peggiori le prospettive del futuro prossimo. Entro 5 anni, causa i pensionamenti per raggiunti limiti di età, mancheranno all’appello 45mila medici, tra specialisti e medici di famiglia e 14 milioni di italiani rischieranno di restare senza medico. Una carenza che si accentuerà ulteriormente nel periodo successivo per toccare il top nel 2028 quando a mancare saranno 80.676 unità, per il pensionamento di 33.392 medici di base e 47.284 medici ospedalieri.
Una catastrofe con la certezza di non riuscire a garantire più un livello minimo di assistenza a cui il decisore politico sembra totalmente disinteressato anche quando si cimenta con la retorica del tribuno ma senza trarne le dovute conseguenze nella difesa del SSN.
Il de-finanziamento del sistema
Non è solo il capitale culturale e professionale ad essere stato decimato. E’ anche il capitale finanziario investito in sanità ad avere raggiunto un livello di grave insufficienza. Non c’è rapporto di Istituto di ricerca accreditato che non attesti la grave crisi di de-finanziamento del SSN.
Per quanto riguarda il finanziamento pubblico la curva della spesa pubblica si è appiattita dopo il 2008: a un incremento percentuale del 47,7% nel periodo 2000-2008 ha fatto seguito un miserrimo 7,9% nel periodo 2009-2016. Di fatto dal 2010 ad oggi il finanziamento del SSN è cresciuto meno del tasso di inflazione (1% versus 1,19%), ma non solo, perché lo Stato oltre ad essere avaro, spesso usa anche l’astuzia del baro che con una mano leva quanto ha dato con l’altra.
Fatto senza precedenti accaduto con la Legge di Stabilità 2016 che a fronte di un finanziamento del SSN per il 2016 di € 111 miliardi (comprensivi di € 800 milioni da destinare ai nuovi LEA) ha stabilito che «Le Regioni e le Province autonome [...] assicurano un contributo alla finanza pubblica pari a 3.980 milioni di euro per l’anno 2017 e a 5.480 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018 e 2019, in ambiti di spesa e per importi proposti, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza».
Ambiti di spesa che le regioni hanno identificato, guarda caso, quasi esclusivamente a carico del capitolo sanità. A questo ha fatto seguito il DM 5 giugno 2017 con cui il finanziamento pubblico del SSN è stato ridotto di € 423 milioni per l’anno 2017 e di € 604 milioni per l’anno 2018 e successivi e, dulcis in fundo, il DEF 2018 che ha confermato la progressiva riduzione del rapporto spesa sanitaria/PIL, estendendo al 2021 il 6,3% già stimato per il 2020 nella precedente nota di aggiornamento.
Al de-finanziamento pubblico si è inevitabilmente aggiunta l’esplosione della spesa privata. Un macroaggregato di 40 miliardi che ricomprende al suo interno un po’ di tutto: tickets, intramoenia, visite private, fondi integrativi etc. e di cui nessuno può giudicare il rapporto costi/benefici e che viene utilizzata per dimostrare tutto e il contrario di tutto
Comunicazione umana e profitti
Il medico ha perso dunque la sua centralità. Questo tuttavia non è conseguenza dell’emergere di altri saperi, o dell’affermarsi di altre discipline che ne contendono il campo. Il medico e tutti gli altri operatori del settore sono stati stritolati dal diverso modo in cui oggi si estrae valore e che rende inessenziale il contributo del lavoro umano.
La creazione del profitto non è più legata in modo prevalente alla produzione materiale di beni (la vecchia fabbrica fordista che produceva lavatrici e automobili destinate a durare) ormai soffocata da una perpetua crisi di iperproduzione ma ad altre forme di accumulazione: da un lato alla speculazione finanziaria in cui il danaro genera danaro attraverso il complesso gioco dei movimenti dei capitali apolidi; dall’altro alla fornitura di servizi che hanno per oggetto la vita nella sua espressione plurale: la salute, il benessere, i desideri, le aspettative e le ansie dell’uomo.
Questi nuovi bisogni sono ora divenuti mezzo per estrarre valore e per questo essi vengono investiti da pratiche discorsive che ne accentuino il significato di urgenza e necessità. Si creano e si amplificano bisogni perché qualcuno possa alfine soddisfarli e trasformarli in profitti.
Un modello produttivo in cui il ruolo del lavoro è diventato progressivamente più inessenziale per il semplice motivo che è lo stesso fruitore del servizio ad essere l’agente della produzione.
Facebook, Google, Istagram sono le nuove
corporations che estraggono valore dalla comunicazione umana e dalle pratiche discorsive che ne riempiono i contenuti. Queste grandi aziende, con fatturati superiori a quelle delle multinazionali dell’auto, riescono ad accumulare profitti non trasformando materia prima in manufatti, ma mettendo in contatto gli uomini tra loro, consentendo loro di raccontare e raccontarsi.
Utenti di comunità virtuali in cui si sono arruolati volontariamente per soddisfare il loro bisogno di esprimere la propria soggettività e libertà e che invece attraverso il loro linguaggio si ritrovano a produrre valore.
Grande illusione della partecipazione! Si è convinti di essere attori che nuotano in una rete senza confini e ci si ritrova a essere lavoratori non pagati in un mondo artificiale creato a tavolino per estrarne profitto.
La medicina e l’economia dal bios
Nell’economia del
bios gli oggetti della salute rappresentano il campo privilegiato per la valorizzazione del capitale. Un capitale che per crescere ha bisogno di creare nuovi mercati e che quindi richiede che il discorso sulla medicina sia libero, pervasivo e privo di vincoli.
Questa libertà che oggi richiede il mercato è tuttavia profondamente diversa da quella di cui si discuteva agli albori del processo di aziendalizzazione in sanità. Allora, la libertà era intesa come la scelta dell’utente/cliente nei confronti dell’erogatore di prestazioni di cui si chiedeva la parità indipendentemente dalla sua natura pubblica e privata.
Oggi la libertà ha una declinazione diversa e invade campi che prima erano preclusi.
1. E’ la libertà del complesso farmaco-sanitario-industriale privato di interagire direttamente con il cittadino/cliente offrendo soluzioni all’insieme delle problematiche/ aspettative/ desideri che solo marginalmente hanno a che fare con la salute. Un processo di farmacologizzazione in cui si affida alla molecola il potere magico di modificare le nostre caratteristiche psicofisiche e quelle dei nostri figli saltando qualsiasi idea di
cura di sé stesso o di lavoro su sé stessi.
2. E’ la libertà di rompere il tradizionale rapporto di dipendenza dal medico disintermediando quanto più possibile l’accesso a servizi, prestazioni e cure per permettere che il mercato sanitario si espanda come qualsiasi altro settore produttivo senza alcuna considerazione su appropriatezza ed efficacia clinica.
3. E’ la libertà del cittadino di scegliersi il proprio fondo assicurativo anche se questo va ad erodere, attraverso la decontribuzione, le già misere risorse dedicate alla sanità.
4. E’ la libertà del cittadino di potersi non vaccinare togliendo allo Stato l’esercizio di prelazione sulle scelte del singolo anche quando si tratta di interesse pubblico perché la sanità deve diventare un sistema aperto autoregolato solo ed esclusivamente sul principio dell’incontro di domanda e offerta.
Conclusioni
L’indebolimento del nostro sistema di welfare non è soltanto il segno del ritiro dello Stato sotto i colpi della crisi che per anni ha attraversato l’Europa.
Se questo fosse, basterebbe attendere la ripresa del ciclo economico, da tutti ormai quasi data per certa anche se inferiore alle attese, per ricominciare. Nell’eterno rincorrersi di carestia e prosperità, il tirare la cinghia non sarebbe allora una scelta deliberata, ma una condizione transitoria imposta dalla penuria, di cibo o risorse poco importa.
La crisi del nostro welfare state è invece qualcosa di diverso, una sorta di immagine chirale del mutato rapporto di forza tra capitale e lavoro e sul meccanismo di valorizzazione del capitale. Un rapporto ora profondamente diverso da quello che ha caratterizzato il lungo periodo fordista in cui l’accumulazione era il frutto del plusvalore, della differenza cioè tra i costi della merce-lavoro e dei materiali necessari alla produzione e il prezzo di vendita del prodotto finito.
Oggi ha prevalere è l’economia del
bios al cui sviluppo sono di ostacolo i professionisti e lo Stato nelle sue funzioni di regolatore, perché nulla deve opporsi all’incontro tra domanda e offerta.
Una domanda veicolata essenzialmente dal linguaggio a cui deve rispondere un’offerta complementare in un gioco libero senza intermediazione in cui a fronteggiarsi siano solo il produttore e il consumatore.
Roberto Polillo