Mauro Gugliucciello, concludendo
la sua lettera del 14 aprile scorso, chiede a me e ad altri di intervenire sulla sua proposta conclusiva di adottare la locuzione “persona assistita“ in luogo del sostantivo “paziente“. Raccolgo l'invito ed esprimo le mie riflessioni su questa proposta, che rilancia il dibattito, relativo alla denominazione del destinatario della prestazione sanitaria, dibattito che si è animato in Italia negli ultimi due decenni del secolo scorso per poi spegnersi.
La nostra Costituzione cita più volte il termine “persona“. Esso figura anche nell’articolo che concerne la tutela della salute, il 32, per la precisione nel secondo comma, mentre nel primo comma è citato l’"individuo". Ricordo il testo completo: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’
individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana.“
Nella stesura dell'art. 32, la scelta ora di "individuo" ora di "persona" non fu casuale; è ragionevole ritenere che, nel contesto del secondo comma, che tratta la peculiare materia dell’autodeterminazione in tema di salute, i Padri costituenti volessero conferire a “persona” il significato proprio. Gugliucciello propone dunque di riprendere un termine, che, nello specifico contesto (la tutela della salute), è adottato dalla Costituzione.
Ma qual è il significato
proprio cui poco sopra ho fatto cenno e che occorre tener presente in merito alla proposta di rivitalizzare il sostantivo "persona"? Esso deriva dalla identica forme latina "persona", che indica la maschera dell’attore e il “personaggio“ che con questa si intende rappresentare. Il termine fu largamente accolto nei testi filosofici e, nei millenni, progressivamente arricchito di contenuti.
Lo stoico Panezio (185-109 a. C.) usa, con il significato di "identità", l’equivalente greco "pròsopon", che fu ripreso in latino con "persona", da Cicerone (106-43 a.C.), il cui pensiero sul punto può essere così sintetizzato: esiste un carattere comune a tutti ed uno proprio della singola persona. Dall’enunciato del Tertulliano (160-220 d.C.) “una substantia, tres personae“ emerge la nozione di persona come "relazione", all’interno di Dio, tra Padre, Figlio e Spirito santo). Per Boezio (480-524 d.C.) “ogni nome attinente alle persone significa una relazione". Tommaso d'Aquino (1225-1274 d.C.) individua nel termine il duplice significato di distinzione e relazione rispetto all’individuo, che di per sé è indistinto.
Sull'approfondimento degli aspetti relazionali insistono filosofi più prossimi a noi nel tempo. Locke fa corrispondere la persona alla propria identità, cioè alla relazione che l'essere umano ha con sé stesso, vale a dire alla "coscienza". Analogo è il pensiero di Leibniz, che aggiunge la identità fisica quale componente della persona. Inoltre Kant: "gli esseri ragionevoli sono chiamati persone perché la loro natura li indica già come fini in sé stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come mezzo". E poi altri filosofi ancora che sarebbe noioso citare.
Quanto esposto pare sufficiente per dimostrare che il termine "persona" qualifica l’individuo secondo peculiarità: richiama non solo la distinzione individuale, ma evidenzia anche componenti quali la relazione, la auto-relazione e la coscienza di sé, nonché – riprendendo Kant – la dignità.
Il sostantivo "persona" risulta dunque perfetto per fondare un lessico nuovo, in realtà apparentemente nuovo, perché l’art. 32, secondo comma, della Costituzione afferma lo
status di persona.
La proposta di Mauro Gugliucciello pare dunque pienamente giustificata.
Tuttavia occorre considerare:
1) il sostantivo "paziente", che si propone di abolire, caratterizza una condizione dell’individuo: la sofferenza; questa caratteristica manca o comunque non è immediatamente percepibile come contenuta nella parola "persona";
2) l'aggettivo “assistito“, che si propone di aggiungere sistematicamente a “persona“, esclude la dimensione
personale della sofferenza, per sottolineare quella passiva di essere assistito, di essere oggetto di assistenza da parte del medico. La "persona" sarebbe forse recuperata se assistenza fosse abitualmente intesa nel senso etimologico di «stare accanto» dal latino
assistĕre, composto di
ad- e
sistĕre, come relazione di solidarietà. Ma proprio perché "assistenza" riguarda solo una parte della relazione, quella del medico verso il paziente, pare impossibile far rientrare nel concetto di assistito quello di paziente.
Concordo, di fondo,
con le tesi di Luca Benci, il primo ad aver raccolto l'invito a dibattere il tema, che si domanda se l'introduzione dell'espressione “persona assistita”, che tuttavia egli ritiene non abbia possibilità di affermarsi, sia sufficiente per determinare il cambiamento di atteggiamento.
Ritengo comunque che, volendo fondare un nuovo lessico, il sostantivo "persona" sia adeguato, perché è formidabile espressione di corretta identificazione delle qualità da considerare nel destinatario delle prestazioni sanitarie. Ma le perplessità sull'aggettivo "assistito" restano.
Quali spunti, dunque? La sintesi del mio ragionamento, che ha valorizzato sia "persona", sia "paziente", porta alla idea di unire i due termini ed adottare “persona paziente“. In questa ostica ed inconsueta locuzione: a) "persona" esprime le peculiarità di identità, di relazione, di coscienza e di dignità; b) "paziente", che ha natura di sostantivo e non di aggettivo, sottolinea la dimensione di sofferenza di questa persona.
Ho espresso questa idea conclusiva perché coerente con il ragionamento precedente, anche se sono consapevole che essa non ha alcuna possibilità di affermarsi.
Daniele Rodriguez
Medico legale in Padova