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JAMA online del 12 marzo scorso è apparso un articolo di
Daniel P. Sulmasy, Ph.D. del Kennedy Institute of Ethics, Georgetown University, dal titolo
"Italy New Advance Directive Low". Una lettura interessante che costringe a riflettere sulle nostre faccende attraverso lenti qualificate ma distanti dal nostro costume.
L'articolo vuol spiegare agli americani, a quanto sembra sorpresi da questa legge, perché il Parlamento italiano sia intervenuto su materie così personali e affidate all'incontro tra la libertà del cittadino e la sapienza del medico.
L'articolista parte dalla constatazione che la scienza medica è unica ma si pratica diversamente a seconda dei costumi locali, adeguandosi al contesto politico, religioso, culturale e linguistico per cui i medici "quando sono a Roma praticano da romani, a Washington da americani".
Rinviando al testo per l'interessante analisi di queste variabili, i punti nodali, secondo il pensiero dell'autore, sono la presa d'atto che in Italia è più facile iniziare una cura intensiva che desistervi, che la locuzione "mezzi straordinari" è usata dalla Chiesa Cattolica fin da Pio XII e che l'opposizione di molti cattolici alla legge, che ha tanto influenzato il dibattito, rappresenta una "strategia politica" per timore dello scivolamento verso il suicidio assistito in tal modo, tuttavia, "discordando dalla teologia" che non prevede l'obbligo di sopravvivenza.
Anche il nostro linguaggio colpisce l'autore che nota come l'insistere "sull'accanimento terapeutico" rispetto alla "futilità" o "ostinazione" è coerente con un livello alto di cure e con uno standard morale elevato nella rinuncia al mantenimento in vita. Tutto ciò in un quadro politico che Sulmasy definisce "molto irritabile".
L'autore conclude sostenendo che questa legge insegna almeno quattro lezioni. La prima, che la medicina praticata dai medici è certamente migliore di quella indotta dai politici o dai giornalisti. La seconda è che ovunque i buoni medici si adoperano per attenuare le sofferenze e per accompagnare il paziente a una buona morte. Le cure palliative sono assai considerate in Italia che è tra le poche nazioni a prevederne la specializzazione. La terza lezione è che il contesto locale impone ai medici determinati comportamenti. Infine i buoni medici si assumono le opportune responsabilità e tendono a non farsi influenzare dalle leggi.
Queste osservazioni, nate al di là dell'Oceano, stimolano qualche riflessione. Per quel che mi riguarda ho sempre sostenuto i principi ispiratori della l. 219/18 e ho scritto, proprio per QS,
un articolo dedicato, una sorta di quadro sinottico tra le norme della legge e quelle del codice deontologico. Questa, in complesso, è una buona legge, necessaria in questo paese anche per proteggere i medici e i pazienti da fondamentalismi sempre in agguato. Un prezzo da pagare per garantire un diritto che già esiste ma che, di fatto, poteva mostrarsi difficilmente esigibile.
Il senso globale, in sintesi, è di codificare sia il consenso del paziente, fondato sulla comunicazione, sia l'autodeterminazione del cittadino rispetto a scelte personalissime quali quelle sulla vita e sulla morte. Una dimensione secolare della medicina che ormai esiste nel costume oltre che nel diritto.
Quindi il giudizio politico è che di questa legge ci fosse bisogno, quello professionale è più cauto. A partire dal primo articolo che trasforma in legge la prassi del consenso informato, di fatto lo "giuridicizza". In un paese come il nostro, dotato di una legislazione esuberante e ingarbugliata, passibile di molteplici interpretazioni, si è ormai formata, intorno alla medicina, una vasta prateria in cui operano magistrati, avvocati, giornalisti, bioeticisti, religiosi, associazioni le più varie, insomma l'intimità del rapporto è assai violata. Non so quanto può giovare allo stesso cittadino l'estensione di questa sorta di law belt, per dirla all'americana, finendo col danneggiare ciò che in buona fede si vorrebbe rafforzare.
Anche il superamento per legge del paternalismo non può che riscuotere unanime favore. Attenti però a difendere bene l'alleanza terapeutica, che non slitti verso la cosiddetta stewardship, e l'uso smodato del cosiddetto dottor google non promette nulla di buono. Il cambiamento è della società e deve essere assecondato ma con qualche "caveat".
Inoltre il legislatore ha scritto che la comunicazione è tempo di cura. Un'affermazione tautologica perché senza relazione non c'è cura. Il senso di questa frase, ripresa dal codice deontologico, è quello di mettere in guardia contro il prevalere della tecnologia che oggi, mediante l'ICT, minaccia perfino la raccolta dell'anamnesi. Però l'attuazione concreta di questa norma porterà a valutare i medici sui risultati e non sulla produzione, cambiando i contratti. La medicina oltre che curare le malattie produce salute. Occorre cambiare paradigma nell'organizzare il servizio, e sarebbe l'ora, però non sarà facile.
Infine l'articolo 5 introduce la programmazione anticipata delle cure, che si potrà realizzare nella misura in cui il servizio si doterà di concreti strumenti di palliazione a domicilio. Allora la consueta previsione di "legge a costo zero" si infrange contro la realtà e scade nella proclamazione di fronte ai bisogni della gente. Come al solito spetterà ai medici e a tutti i professionisti della sanità colmare col loro impegno le carenze del servizio sanitario.
Forse le perplessità del collega di oltre Oceano sono realistiche. Ma viviamo qui e ora e non ci resta che fare del nostro meglio perché le persone che soffrono siano assistite nel modo più scientificamente corretto, umanamente accogliente e economicamente sostenibile.
Antonio Panti