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QS Edizioni - domenica 30 giugno 2024

Studi e Analisi

Real world evidence: cosa è una prova e qual è la realtà?

di Antonio Addis e Luca De Fiore
immagine 18 novembre - La RWE ripropone ancora una volta la ben nota contrapposizione tra RCT e studi osservazionali senza però che i nuovi scenari offrano soluzioni credibili ai limiti ben conosciuti dei diversi approcci. La discussione sulla RWE, sulla necessità di assumerla come elemento chiave delle decisioni regolatorie suggerisce una domanda: i servizi sanitari hanno ancora interesse a pretendere una rigorosa attività di ricerca sperimentale per informare le proprie decisioni? 
Con la pubblicazione delle linee-guida della Food and Drug Administration (FDA) sull’uso della cosiddetta real world evidence (RWE) per prendere decisioni regolatorie il confronto sull’uso dei dati provenienti “dal mondo reale” ha assunto un’importanza ancora maggiore: non è più soltanto argomento di discussione accademica, ma è diventata una questione rilevante per scelte che potrebbero avere un impatto diretto sulla salute dei cittadini.
 
Non che la “discussione accademica” sia terminata: proprio nelle ultime settimane sono state dedicate a questo argomento non poche sessioni di congressi di importanti società scientifiche, da quello dell’Associazione italiana di epidemiologia alla Società di farmacologia, dall’Associazione di oncologia medica alla Società di farmacologia clinica e terapia. In un editoriale su Recenti progressi in medicina abbiamo ripreso alcuni degli spunti di discussione offerti dai relatori in questi convegni, sottolineando la molteplicità degli sguardi e la complessità del problema.

Perché si ritiene che vada ricercata e che serva la real world evidence? Una delle risposte più frequenti indica la ragione nella necessità di ovviare ai limiti delle sperimentazioni controllate randomizzate. Limiti che non sono una novità, dal momento che sono anni che si discute di validità interna e validità esterna, delle difficoltà di considerare trasferibili i risultati dei trial a setting clinici in cui l’aderenza del paziente alle prescrizioni è molto minore o in cui la popolazione soffre di comorbilità complesse. L’attenzione crescente alle malattie rare è un altro driver della domanda di dati osservazionali, per la difficoltà – e talvolta l’impossibilità – di reclutare popolazioni di pazienti adeguate per lo svolgimento di studi clinici su patologie di riscontro infrequente. Ma non pochi dei problemi conosciuti degli RCT possono essere in buona misura risolti disegnando studi pragmatici o, più in generale, metodologicamente rigorosi, su problemi clinici significativi e valutati in base a esiti rilevanti per il malato.

Allo stesso tempo, però, diviene sempre più frequente sentire che la RWE potrebbe rivelarsi lo strumento migliore anche per monitorare efficacia e sicurezza di nuovi trattamenti successivamente alla loro approvazione accelerata o condizionata, appunto, alla verifica delle prove raccolte nella fase post marketing. Quali certezze abbiamo, però, della qualità dei dati raccolti attraverso le cartelle cliniche elettroniche o i registri di patologia o di prodotto? Le linee-guida della FDA dedicano non poca attenzione a questi aspetti, raccomandando strategie puntuali sia per la raccolta dei dati sia per la minimizzazione degli errori che possono essere commessi nel loro trattamento. Un rapporto della Duke university pubblicato il 13 settembre scorso ha suscitato non pochi commenti perché ha ricordato che plausibilità e robustezza del disegno di studio sono problemi essenziali anche della raccolta dei dati di RWE e la randomizzazione non è una prerogativa degli studi sperimentali.

Ma stiamo parlando di dati maggiormente “reali” rispetto a quelli che otteniamo con gli studi sperimentali? Forse converrebbe tornare a chiedersi il significato delle parole.

Una prima parola sulla quale conviene interrogarsi è incertezza. Infatti, uno dei rischi di inseguire la real world evidence potrebbe essere quello di rimandare alle fasi post-marketing i dubbi sull’efficacia comparativa rimasti inevasi prima dell’approvazione delle nuove terapie. Ancor peggio, potremmo aver l’illusione di rimediare con i molti dati raccolti nella pratica clinica alle mancanze informative dell’esperimento effettuato con standard di non-inferiorità o di confronto col placebo. Insomma, la RWE ripropone ancora una volta la ben nota contrapposizione tra RCT e studi osservazionali senza però che i nuovi scenari offrano soluzioni credibili ai limiti ben conosciuti dei diversi approcci.

La seconda parola è coerenza. L’idea di essere ormai parte di un mondo super controllato in cui ogni dato possa essere catturato e interpretato da computer la cui intelligenza si sostituisce alla nostra sta costruendo una nuova narrativa dove le evidenze non sono più necessariamente quelle derivanti dall’esperimento randomizzato ma soprattutto dalla semplice osservazione. Facciamo finta sia vero. Ma perché allora si mettono in discussione i dati che mostrano come nella pratica clinica coorti di pazienti trattate con farmaci simili hanno esiti sovrapponibili? Perché, per esempio, non ci si rassegna all’evidenza di equivalenza tra originator e biosimilari? Le prove che otteniamo dall’osservazione del mondo reale non hanno dunque lo stesso valore?

La terza parola è ricerca. La discussione sulla RWE, sulla necessità di assumerla come elemento chiave se non esclusivo delle decisioni regolatorie suggerisce una domanda più generale: i servizi sanitari hanno ancora interesse a pretendere una rigorosa attività di ricerca sperimentale per informare le proprie decisioni? Quanto promettono i nuovi farmaci in termini di concreto aumento della sopravvivenza dei malati è sufficiente per basare le decisioni regolatorie solo su dati che riguardano la sicurezza, rimandando la verifica dell’efficacia a una fase successiva l’approvazione?
 
Antonio Addis
Dipartimento di epidemiologia del SSR del Lazio – ASL Roma 1

 
Luca De Fiore
Associazione Alessandro Liberati Network Italiano Cochrane
 
18 novembre 2017
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