Con chiarezza, Cesare Fassari ha aperto
sulle pagine di questo giornale, la possibilità di affrontare una discussione, a viso aperto, sulle sorti del Ssn, sia pur dentro il quadro di una crisi economico finanziaria internazionale senza precedenti che ha bussato alla nostra porta con una certa brutalità.
Va da se che ogni ragionamento non può prescindere da questa crisi a patto che si abbia una base comune di consapevolezze da cui partire.
La politica sanitaria è commisurata al grado di crescita di un paese. Non solo economico ma anche sociale, culturale, giuridico e politico. Il nostro diritto alla salute è costituzionalmente protetto, a base universale, basato sulla fiscalità generale, sui Lea garantiti dal livello decisorio centrale, in accordo con il sistema regionale di governo ch attraverso le sue strutture e l’istituto dell’accreditamento con il settore privato, eroga prestazioni e servizi ai cittadini. Dunque è evidente che la crescita o la mancata crescita del paese ha un’influenza diretta sulle scelte di politica sanitaria. Come è altrettanto evidente che una fiscalità generale come la nostra - caratterizzata da una base contributiva che negli ultimi anni si è assottigliata per effetto dell’alto indice di disoccupazione accompagnato da una notevole evasione fiscale - rappresenti una minaccia consistente al nostro Ssn.
La dimensione del fenomeno conta ed è senza confronti con gli altri paesi sviluppati. 120 miliardi di tasse evase pari a 8 punti di Pil non rappresentano poi solo un problema etico giuridico ma una rilevantissima questione economico-sociale. Perché foriera di concorrenza sleale, di vistose e inaccettabili ingiustizie tra chi non può evadere, come i lavoratori dipendenti e i pensionati, e quella massa di profittatori palesi ed occulti che godono comunque dei diritti del nostro ordinamento senza partecipare alla costruzione della massa di entrate necessarie affinché quei diritti siano effettivamente esigibili da tutti.
Inoltre in presenza di un Pil destinato a crescere molto meno del previsto (siamo attualmente allo 0,6% e si prevede uno 0,3% nel 2012) si palesa un nuovo buco di 10-15 miliardi da coprire che probabilmente, se continueremo a ballare con i cali di borsa e con lo spauracchio di quota 400 dello spread, aumenterà ancor di più.
Quello che è certo è che la manovra di luglio ci consegna 7 miliardi e 950 milioni in meno di finanziamenti al Ssn concentrati nel 2013-2014. Ma sappiamo che, se dovesse essere necessaria una probabile manovra ter, il Ssn potrebbe vedersi anticipare al 2012 la diagnosi di anoressia, eziologicamente fissata nella manovra di luglio, con tagli ulteriori al finanziamento (non è irrealistico pensare ormai ad oltre 10 miliardi di minor gettito per il Ssn).
Cresce la spesa privata, ma è sempre più out of pocket
Già ora la situazione convoglia il cittadino a recarsi laddove paga meno e riceve senza liste d’attesa analisi e prestazioni specialistiche, con buona pace di chi si scandalizza per le offerte di Groupon e di chi grida all’allarme sul cittadino che si rivolge alle strutture private.
I dati di scenario e la realtà sanitaria del paese, sia pur con luci ed ombre in alcune regioni, faticosamente impegnate nei necessari piani di rientro, non mi convincono tuttavia ad abiurare il Ssn per diversi motivi:
a) mediamente la nostra sanità è di buon livello, con punte di eccellenza, nonostante la bassa crescita, l’evasione e le distorsioni sull’uso della spesa pubblica;
b) la validità di sistema ci è riconosciuta a livello internazionale per i risultati raggiunti sul piano statistico epidemiologico e per il rapporto spesa pubblica/costo-qualità delle prestazioni per abitante, in ambito preventivo, curativo e riabilitativo in termini di salute globalmente intesa. Si pensi a cosa vuol dire per il nostro paese avere un Ssn che ci tutela per quanto riguarda la prevenzione e la tutela della salute animale e nel campo degli alimenti, della sicurezza nei luoghi di lavoro, nel campo della salute materno infantile, nel campo delle malattie ad alto rischio, nei trapianti. Basti pensare quanto costò all’Inghilterra la mancanza di veterinari pubblici capaci di fronteggiare “Mucca pazza” o a quanto recentemente è costata in Germania la vicenda dell’escherichia coli che ha costretto ad un repentino adeguamento del sistema tedesco di monitoraggio e sorveglianza delle produzioni e degli alimenti.
L’erba del vicino “non” è sempre più verde
Ma non mi convincono nemmeno le comparazioni con i sistemi europei in maniera meccanica. L’erba del vicino non è sempre più verde.
Basta studiare il rapporto dell’Economist Unit Europea sulla Sanità, che è stato alla base della relazione al Parlamento europeo, di Barroso, più noto come Europa 2020.
Le tendenze di medio e lungo periodo in rapporto all’invecchiamento della popolazione, con il conseguente aumento delle malattie croniche degenerative, la rapida innovazione tecnologica in sanità ed il costo delle nuove terapie farmacologiche e da Dna ricombinante, pongono ineludibili interrogativi di sostenibilità ai diversi sistemi di protezione della salute.
Tutti, indipendentemente dalle loro caratteristiche, devono fare i conti con la scarsità di risorse e con il contenimento della spesa pubblica e con l’aumento della domanda e dei costi dei fattori di produzione del sistema salute. Diversi i correttivi, diversi gli strumenti, diverse le basi di finanziamento, le storie sociali e politiche, tuttavia tutti coinvolti dentro una crisi senza precedenti, con un Pil europeo sceso al di sotto del 4%, con la produzione industriale che è tornata a livello degli anni ’90 e con 23 milioni di persone, pari al 10% della popolazione attiva, attualmente disoccupate.
E in più con le finanze pubbliche in forte deterioramento e con la popolazione attiva dell’Ue che inizierà diminuire dal 2013/14 per effetto del pensionamento dei babyboomers, che provocherà anche la crescita di ultra sessantacinquenni a una velocità doppia rispetto a prima del 2007 ( circa 2milioni in più ogni anno, rispetto al milione in precedenza).
In Olanda, di cui parla Mingardi come modello di riferimento possibile, in presenza della crisi la concorrenza tra le assicurazioni, a premi convenienti per i cittadini olandesi, è messa ora a dura prova e i pacchetti di prestazioni tendono a ridursi poiché i premi dovrebbero per forza di cose aumentare. E il dibattito sulla bontà del sistema si è riaperto.
Del resto mi sembra inutile quanto inefficace continuare a recitare la stanca litania sul fatto che spendiamo meno degli altri paesi europei con i nostri fondamentali dell’economia che sono peggiori degli altri paesi europei. La nostra vera condanna è la bassa crescita che anche quest’ultima manovra non affronta, anzi deprime. E per la sanità la vera differenza è che, a fronte di un 9,5% di incidenza sul Pil tra
componente pubblica e privata, siamo il paese europeo che ha la più alta componente di spesa privata out of pocket, direttamente sostenuta dalle famiglie in sanità. Su circa 30 miliardi di spesa sanitaria privata, circa il 3,7% è coperto dal mercato assicurativo, che da noi è ancora molto embrionale, il 13,3% da fondi sanitari integrativi, casse e mutue, tutto il resto è spesa che esce direttamente dalle tasche dei cittadini, quasi tutta rivolta a coprire malattie croniche degenerative, non autosufficienza, cure del cavo orale, specialistica e ticket.
La sanità integrativa: una riforma mancata che non può più essere rinviata
Qui dovremmo sul serio interrogarci: come mai nel nostro paese non siamo mai riusciti a riorientare questa ingente mole di danaro privato con forme di intermediazione finanziaria che potessero fargli giocare un ruolo davvero integrativo rispetto al servizio sanitario nazionale? Non mancavano e non mancano i presupposti giuridici.
La riforma ter del 1999, meglio nota come riforma Bindi, che aveva previsto all’art. 9 la costruzione del 2° e 3° pilastro a sostegno ed integrazione del Ssn, è rimasta lettera morta per 10 anni. Poi c’è stato anche il decreto legislativo n. 56 del 2000 che aveva previsto le possibili agevolazioni fiscali per lo sviluppo dei fondi sanitari integrativi negoziali e per la mutualità integrativa, dentro una cornice che avrebbe dovuto presupporre la revisione del sistema delle detrazioni e deduzioni fiscali in materia, e verso una riforma fiscale più equa e più giusta. E ancora la revisione del Titolo quinto della Costituzione che ha dato ampi poteri alle regioni ed al sistema delle autonomie sul terreno sanitario così, come quel federalismo istituzionale e fiscale tanto voluto ed enfatizzato, avrebbe potuto, dentro una cornice regolatoria comune, costruire efficaci esperienze di welfare socio-sanitario locale per rispondere meglio alla domanda di salute dei territori, chiamando tutti gli attori sociali e tutte le risorse disponibili a socializzare in modo integrato la copertura dei rischi da non autosufficienza o per l’odontoiatria.
Ma un insieme di visioni politiche ideologiche, statalismo palese ed occulto, paure, a volte motivate da posizioni e dibattiti sul rischio di privatizzazione della sanità in chiave mercantilistica, hanno portato alla staticità delle volontà politiche e del sistema. E così fondi negoziali, società di mutuo soccorso e sistema assicurativo hanno iniziato a fornire coperture spesso duplicative o sostitutive, di quelle del Ssn, venendo meno all’auspicata funzione integrativa.
Solo sotto il ministero Turco si è deciso di affrontare un vuoto legislativo ormai non più sostenibile con il decreto del marzo 2008 che ha iniziato a regolare la materia. Il ministero Sacconi nel 2009 ha predisposto il decreto per l’operatività dei fondi secondo le linee del decreto Turco e sancito l’istituzione dell’Anagrafe dei fondi anch’essa delineata nel dicastero Turco. Il resto dei successivi strumenti sono tutt’ora lettera morta, nonostante che nel paese siano andati avanti oltre 50 rinnovi contrattuali in cui si costituiscono fondi sanitari integrativi e che la mutualità di territorio si espanda e copra bisogni sociosanitari inevasi dal sistema di protezione sociale pubblico.
Il fallimento del libro bianco/verde di Sacconi
Il libro bianco/verde del ministro Sacconi voleva essere uno strumento che doveva acquisire idee, proposte, suggerimenti, aprire un dibattito pubblico nel paese, per costruire linee condivise di un nuovo Welfare. Ma a parte qualche articoli su riviste e siti internet specializzati, di quel dibattito si sono perse le tracce. Il Governo esprime più voci sulla materia o in occasioni pubbliche ne parla ma non dice a che punto siamo con la costruzione del secondo pilastro. Ognuno fa individualmente attività di lobby ed il risultato sono tagli, tickets, una delega in materia assistenziale e fiscale che è una vera trappola per recuperare 20 miliardi, non solo razionalizzando e mettendo ordine, ma approdando a una visione residuale, ancorché inefficace, di un nuovo Welfare che aumenta le ineguaglianze e nel contempo vanifica i diritti di cittadinanza.
Altro che scelte condivise, dibattito pubblico: di necessità (la crisi) non virtù ma miopia e assenza di una visione riformatrice di un moderno sistema di protezione sociale capace, proprio nella crisi, di gettare le basi per il superamento delle disuguaglianze. Innanzi tutto ampliando le basi di finanziamento del sistema con una imposta sui patrimoni come esiste in tutti i paesi europei, destinando una quota dell’azione di recupero dell’evasione al rilancio dell’economia e del sistema di protezione sociale, definire una volta per tutte i Lea e i Liveas che possiamo permetterci e chiamare gli altri soggetti, dal terzo settore ai fondi e alla mutualità, a costruire con le autonomie locali un più efficace ed efficiente sistema integrato di protezione della salute perché solo così la funzione pubblica regolatoria si esalta, fa sistema, include, non lascia soli e diventa motore di sviluppo sociale, economico e solidale di una società, che non si voglia condannata alla sopravvivenza.
L’efficienza da sola non basta
Non mancano esperienze regionali di buon governo, le ha citate De Vincenti, efficienza ed efficacia possono essere raggiunte. La Toscana, da economista sanitaria la considero il miglior esempio. Tuttavia attenzione. Sono convinta che si possono trovare ancora risparmi di gestione, da efficientamento, da buone pratiche… ma non facciamoci illusioni. Le sfide che sono di fronte a noi sono tali, che non basta raggiungere una platea un po’ più vasta di fragilità da assistere domiciliarmente, piuttosto che nelle Rsa, non basta rimodulare il tcket in base al reddito, che è già tanto, perché meno iniquo, ci vuole una inversione di rotta che parli il linguaggio della verità ed affronti il tema complesso dell’invecchiamento come qualcosa che cambia il paradigma delle nostre scelte.
Tutto ciò implica la capacità di mettere a sistema tutti gli strumenti e le esperienze che abbiamo a disposizione per coniare una nuova modalità della socializzazione di questo rischio. Perché, per quanto danaro si possa avere in termini individuali e per quante badanti in regola possiamo formare, non riusciremo mai ad onorare gli impegni di rientro dal debito pubblico e soprattutto quelli con le generazioni future, senza un sistema integrato sociale e sanitario, pubblico e privato, di risorse pubbliche, collettive ed individuali. Senza questo sforzo comune il nostro Welfare non potrà reggere l’impatto. E non sto parlando di un futuro lontano, ma molto prossimo.
Ma sono fiduciosa: ci sono tante energie intellettuali, nel corpo sociale, nei territori che agiscono al di la delle diatribe delle attuali classi dirigenti. Proprio in questi giorni le Pa di Trento e Bolzano hanno approvato la costituzione di un Fondo regionale integrativo, per i servizi sociosanitari e la non autosufficienza, in accordo con le organizzazioni sociali, le confederazioni sindacali, i fondi negoziali esistenti, la mutualità di territorio e la cooperazione sociale. Un equilibrio tra domanda ed offerta all’altezza dei bisogni della popolazione di quel territorio, in cui l’istituzione si fa garante di regole qualità e standard delle prestazioni.
Qualcosa si muove. Un serio e propositivo dibattito pubblico qui e adesso ci può far uscire dalla logica del cerino e dalla mancanza di assunzione di responsabilità e coraggio per l’oggi e per il futuro. Se non ora quando?
Grazia Labate