Al di là del calo di degenze e giornate in ospedale, come stanno andando i ricoveri, le Schede di dimissione ospedaliera lo dicono in alcuni dati, quelli sull’appropriatezza nelle strutture di ricovero.
Ma per capire se davvero in questi ambiti si sta muovendo qualcosa bisogna guardare “lontano”. Cercare cioè il confronto tra i risultati 2015 e quelli di una decina di anni fa, quando, intorno al 2007, è scattata l’avventura dei piani di rientro – sottoscritti in gran parte quell’anno - e dei controlli su Lea e servizi.
I dati 2015 sono nel rapporto Sdo da
poco pubblicato dal ministero. Il raffronto tra gli indicatori che questo riporta e gli stessi indicatori 2007 lo ha fatto
Quotidiano Sanità per capire quanto è migliorata (o no) l’assistenza e l’appropriatezza.
Proprio su questa, sull’appropriatezza, le Sdo si dividono in due gruppi: quella organizzativa e quella clinica.
E a distanza di quasi dieci anni di passi da gigante in generale davvero non ne sono stati fatti.
Per quanto riguarda l’appropriatezza organizzativa, infatti, le Sdo analizzando una serie di dati come le dimissioni chirurgiche con Drg medico (che devono diminuire) o i ricoveri diurni di tipo diagnostico sul totale di quelli con Drg medico (che sarebbe meglio aumentassero), o ancora l’aumento dei ricoveri bervi sia di uno che due o tre giorni con Drg medico e quelli oltre soglia sempre con Drg medico ma negli ultrasessantracinquenni, tutti dati che avrebbero dovuto calare.
In realtà i risultati ci sono stati. Ma ad esempio di dimissioni da reparti chirurgici di Drg medici in dieci anni se ne sono perse solo il 3,05% a livello nazionale, con Bolzano dove sono anche aumentati dello 0,56 per cento, Va meglio per i ricoveri diagnostici, aumentati in media nazionale non di molto ma se non altro del 5,86% con punte tuttavia del 10,10% in Umbria, ma anche con un calo del -1,35% in Valle d’Aosta.
I ricoveri brevi, siano essi da uno o due o tre giorni e quelli per over 65, sono invece tutti in calo, ma quelli oltre soglia dei più anziani registrano un calo davvero frenato visto che a livello medio nazionale in dieci anni si riducono del -0,36 per cento.
Nell’appropriatezza clinica invece – quella spesso nel mirino anche di organismi internazionali per il forte impatto che ha sulla salute dei cittadini – le cose vanno sicuramente meglio, ma con alcune “bestie nere”.
La prima di queste sono i parti cesarei. Si sono ridotti in dieci anni i media nazionale solo del 3,05% e mantengono una percentuale del 35,35%, ancora altissima rispetto ai parametri Oms.
In realtà però le cose in questo caso sono davvero enormemente diverse da Regione a Regione. E non si può nemmeno dire che l’Italia sia spaccata tra Nord e Sud, visto che dal 2007 a oggi a calare di più è stata la Basilicata (-9,32%) seguita dalla Sicilia (-8,82%) e dalla Calabria (-8,03%). Certo, sono tutte Regioni che scendono da percentuali elevate (la Basilicata dal 46,90%, la Sicilia dal 52,36% e la Calabria dal 44,38%, quando in Italia la media era 38,39%, con il Nord mai sopra il 35% e, anzi, quasi sempre al di sotto del 30%) e, quindi, ancora c’è da fare.
Poi però ci sono i record. Quello della Campania prima di tutti che in dieci anni ha ridotto i cesarei del -0,27%. Era al 61,41% nel 2007 ed è nel 2015 al 61,14 per cento. In sostanza quasi i due terzi delle nascite avvengono con un cesareo, mentre gli standard Oms hanno indicato ormai da anni una percentuale ottimale intorno al 10-15%, a cui nel 2015 le più vicine sono le Regioni del Nord (tranne la Liguria col 34,29%) e l’Umbria e la Toscana al Centro.
Esaminando infatti le medie per aree geografiche, il Nord nel 2015 era a quota 26.66%, il Centro a 31,76% e il Sud, rispetto al 35,35% dell’Italia, al 42,67 per cento.
Dal 1985 l’Oms ha stabilito che il tasso ideale di cesarei è tra il 10 e 15 per cento. Anche perché quando si raggiunge il 10% il numero di morti materne e neonatali cala mentre quando si supera non ci sono prove che migliori il tasso di rischio.
I dati Oms sull'uso del cesareo già nel 2008 mostrano che è stato eseguito in media nel 3,8% dei casi in Africa, nell'8,8% nel Sud-est asiatico, nel 15,7% nel Mediterraneo orientale, nel 23% dei casi in Europa, nel 24,1% nel Pacifico occidentale, e nel 35,6% nelle Americhe, con una media globale del 15,6 per cento, mentre in Italia nel 2015 la percentuale è ferma al 35,35 per cento.
La classifica delle Regioni non lascia dubbi circa la presenza maggiore di cesarei dove più scarsa è l’organizzazione dei servizi – anche per colpa dei piani di rientro. Sono al di sopra della media nazionale tutte le Regioni del Sud e il Lazio, con la Campania in testa col 61,4% seguita al secondo posto dalla Puglia col 43,61% e dalla Sicilia col 43,54%, ma tra quelle maggiormente in calo quest’ultima negli ultimi dieci anni.
Al di sotto della media tutte le altre Regioni, con le Marche più vicine allo standard nazionale con il 34,66% di cesarei nel 2015 e il Friuli Venezia Giulia la più lontana con il 22,93 per cento.
Per quanto riguarda gli altri indicatori di appropriatezza clinica, invece, tutti quelli che dovevano calare per ottenere un risultato positivo lo fanno. In media nazionale scende dal 2007 al 2015 del -29,02% l’ospedalizzazione per 100mila abitanti per tonsillectomia, del -22,93% quella per appendicectomia e del -75,77% l’ospedalizzazione per isterectomia. Sale invece, in positivo, del 5,86% l’utilizzo di colecistectomia laparoscopica che aumenta fino al 10,10% in Umbria.