A distanza ormai di quasi un anno e mezzo dalla chiusura ufficiale degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) che in base alla legge 81/2014 doveva realizzarsi il 1 aprile 2015, si può constatare che l’operazione di effettivo smantellamento di tutti gli OPG è alla portata. Infatti, al 31 luglio 2016 restano attivi 2 OPG, Aversa e Montelupo Fiorentino, con un totale di 58 persone e la loro chiusura dovrebbe avvenire nei prossimi mesi. Pur restando aperta la questione del completamento della rete delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS) e dell’ex OPG di Castiglione delle Stiviere, riconvertito in una rete di REMS, nel complesso si può dire che si sta realizzando una riforma epocale.
Se chiudere gli OPG, per quanto complesso, si sta rivelando possibile, ben più difficile è il tema dell’ordinario funzionamento del nuovo sistema. Questo richiede una serie di riflessioni e vi sono segnali non solo della persistenza di vecchie e consolidate prassi che non si sono modificate con la nuova legge ma anche l’insorgere di posizioni, quale quella recentemente espressa dalla Commissione Giustizia del Senato, che se dovessero affermarsi, proiettano un lungo cono d’ombra sull’intera riforma.
Come è noto la chiusura degli OPG è avvenuta a codice penale invariato per quanto attiene imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza e questo ha determinato una situazione per la quale non c’è più l’OPG ma persiste un articolo (il 222 del c.p.) che prevede il ricovero in OPG. Nel nuovo contesto operativo molte norme del regolamento penitenziario sono inapplicabili e anche di questo occorre tenere conto nella definizione delle nuove prassi che richiedono un più avanzato punto di incontro fra giustizia e psichiatria. In questo contributo tra i diversi punti cruciali per la realizzazione della riforma, proverò brevemente a delinearne alcuni di maggiore attualità.
Chi ha sostituito l’OPG?
Per molti magistrati, forze dell’ordine, operatori psichiatrici, politici, opinione pubblica la risposta è la REMS. Se nei codici alla parola OPG si sostituisce la parola REMS e tutto resta invariato non avremmo fatto passi avanti significativi. I 6 OPG in parte degradati, sostituiti da 24 (in prospettiva circa 30) REMS un po’migliori sotto il profilo ambientale: è questo il cambiamento?
Il dettato e lo spirito della legge 81/2014 è ben diverso: l’OPG è sostituito non dalla REMS ma dall’insieme dei servizi sanitari e sociale del territorio dei quali fa parte il Dipartimento di salute mentale e al suo interno opera come struttura specializzata, la REMS. Questo, senza entrare nei dettagli circa le differenze fra strutture “ospedaliere” e “residenziali”, richiede una nuova cultura e una forte innovazione di tutte le prassi.
Si tratta di due scenari alternativi e un’azione normativa dovrebbe fare chiarezza e dare riferimenti precisi superando ogni possibile ambiguità per poter affrontare con metodo i diversi problemi aperti: ad esempio quello delle misure di sicurezza non eseguite o delle persone con disturbi mentali detenute.
Il fatto che nel primo anno di attività vi siano misure di sicurezza detentive non eseguite (al 2 maggio 2016 erano 170, di cui 115 provvisorie, 55 definitive) fa riflettere. Questa situazione va sommariamente attribuita alla carenza di posti in REMS? Se sì viene da chiedere: Quanti se ne dovrebbero realizzare per andare a regime? O dipende dai dirigenti delle REMS ai quali è stata ventilata la sottile minaccia di inquisirli per omissioni di atti di ufficio
[1]?
L’applicazione di misure di sicurezza provvisorie non richiede alcun ripensamento? Sullo strumento in sé in quanto rischia di riportare in vita la pericolosità sociale presunta per (supposto) disturbo mentale. Le esperienze dicono che le misure di sicurezza detentive provvisorie spesso iniziano e procedono senza alcuna certezza e riferimento sicuro nei tempi percepiti dalle persone che ne sono oggetto e di chi si prende cura di loro. Quindi la misura di sicurezza è uno strumento con sufficienti garanzie? Per quanto attiene alla disponibilità di posti sono state adeguatamente favorite le dimissioni dalle REMS? Molte altre sarebbero le domande più specifiche.
Come medico psichiatra dico che le persone vanno curate nel luogo appropriato per complessità e intensità di cura, in primis se possibile nel territorio e senza ritorni a culture manicomiali o di natura custodiale. Non solo ma il protrarsi improprio di degenze in istituzioni, ospedali e residenze può avere un effetto iatrogeno.
Un altro segnale che ha allarmato gli operatori della salute mentale è l’approvazione da parte della Commissione giustizia del Senato “di un emendamento
[2] al Disegno di Legge 2067 (su garanzie difensive, durata dei processi, finalità della pena ecc), che rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. L’emendamento in questione ripristina la vecchia normativa (quindi ante: legge 81/2014, Dpcm 1.4.2008 allegato C, Accordo Conferenza Unificata 13.11.2011), disponendo il ricovero nelle REMS esattamente come se fossero i vecchi OPG. Se non si rimedia, saranno inviati nelle strutture regionali, già sature, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e addirittura quelli in osservazione psichiatrica".
[3]
L’emendamento propone una soluzione per lo meno semplicistica, l’invio in REMS come se fosse l’unico sostituto dell’OPG, ma al contempo evidenzia l’urgente necessità di una profonda riforma della sanità negli istituti penitenziari per assicurare cure adeguate alle persone detenute visto che è proprio l’inidoneitàa garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi negli Istituti penitenziari che può giustificare il trasferimento in REMS.
Per rispondere ai bisogni e alla domanda di salute delle persone private della libertà occorre un‘analisi approfondita sullo stato degli istituti penitenziari, sulle condizioni delle persone con disturbi mentali detenute per le quali occorre pensare a percorsi personalizzati e ad una rete di servizi visto anche che stiamo parlando di una quota rilevante di soggetti.
[4]
L’individuazione “ope legis” delle REMS come unica struttura atta a svolgere il compito di accogliere i soggetti con sopravvenuta infermità mentale ed anche i soggetti in osservazione induce a chiedersi se il legislatore si sia reso conto delle possibili conseguenze non solo rispetto al senso e ai valori della legge 81/2014 ma anche di tipo programmatorio, economico ed operativo.
[5]
Senza questa consapevolezza e senza prevedere una serie di percorsi che affrontino le condizioni sociali (come ad esempio la presa in carico della persona detenuta da parte dei competenti servizi sociali e sanitari del territorio, la cittadinanza ecc.) l’attività di recupero, rieducazione ma anche quelle di cura rischiano di non potersi realizzare e di non portare a risultati positivi.
La recente apprezzabile proposta di Daniele Piccione
[6], per quanto tenda certamente ad attenuare la portata dell’infelice emendamento approvato in Senato, richiede alcune precisazioni almeno rispetto alla formulazione proposta all’attenzione del legislatore.
Destinare alle REMS
“le sole persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale e il conseguente bisogno di cure psichiatriche” significa limitare gli accessi alle REMS alle persone con misura di sicurezza definitiva ma andrebbe riaffermato in modo esplicito e forte che si tratta di un percorso il quale, ai sensi della legge 81/2014, deve essere assolutamente residuale. In primis andrebbe applicata la misura di sicurezza non detentiva (libertà vigilata) e dovrebbe essere accuratamente documentato come e cosa si è fatto per questo in collaborazione con i Dipartimenti di salute mentale di competenti. Se si dovesse definire il percorso come esplicitato da Piccione vi è un alto rischio di non avere alcuno sforzo per applicare le misure non detentive.
Il riconoscimento del bisogno di cure psichiatriche non necessariamente deriva dalla presenza della pericolosità sociale; infatti si tratta di due costrutti diversi tanto che la 180/1978 nemmeno cita la pericolosità sociale assumendo invece come proprio il mandato di cura. Non solo ma andrebbe precisato che i riferimenti per l’attuazione dei percorsi sono i servizi sociali e sanitari del territorio, e in primis i Dipartimenti di salute mentale.
Collegamenti diretti tra Istituti penitenziari e REMS a mio avviso non dovrebbero essere stabiliti sia perché hanno mandati diversi sia per evitare che si creino vasi comunicanti e “automatici” fra ”contenitori” magari a senso unico (dal carcere verso la REMS) a scapito della personalizzazione degli interventi di cura. Il centro della riforma è il sistema di welfare territoriale e non il carcere. Ne deriva anche il ruolo che viene ad assumere il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria il quale non può gestire gli ingressi in REMS alla stregua di quelli in carcere.
Trovo del tutto coerente e condivisibile escludere dall’accesso alle REMS le persone imputate con misure di sicurezza provvisorie, i soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena e di tutti coloro per i quali ancora occorra accertare le condizioni psichiche. Ma una soluzione per queste situazioni va assolutamente trovata e se, come da più parti viene segnalato, gli Istituti penitenziari per come sono, non risultano in grado di assicurare i trattamenti terapeutici e riabilitativiandrebbe formulato da un piano operativo di sperimentazione (regionale) al fine di promuovere (anche tramite la riconversione di risorse) innovativi modelli terapeutici e assistenziali all’interno e all’esterno degli Istituti di pena (ad esempio Servizi di diagnosi e cura specifici, sezioni negli istituti di pena, reparti a custodia attenuata, reparti di osservazione psichiatrica ecc.).
La valorizzazione del piano terapeutico individuale per ciascun individuo sottoposto a misura di sicurezza dovrebbe prevedere la sua validazione unitaria e complessiva senza che i sanitari debbano molto frequentemente rivolgersi alla magistratura per singoli permessi ed altre attività gestionali quasi quotidiane, prassi che da un lato rallenta e talora ostacola anche per la tempistica i programmi sanitari e dall’altro aggrava del tutto inutilmente il lavoro dei magistrati. Validare il piano terapeutico significa rinforzare il mandato di cura ma non deve portare a confusione tra misura di sicurezza e obbligatorietà delle cure creando di fatto forme improprie di TSO protratto.
Come già detto, in assenza di variazioni del codice, il sistema delle garanzie andrebbe molto rafforzato in quanto le misure di sicurezza provvisorie appaiono assai discutibili sotto questo profilo. Complessivamente le misure di sicurezza restano nella loro natura intrinseca strumenti deboli e ambigui.
Per le persone, anche quelle con disturbi mentali, sarebbe meglio avere una pena chiara ed esplicita. Le disposizioni che legano la durata della misura di sicurezza al tipo di reato (come per altro previsto dalla legge e anche dalla 81/2014 al fine di evitare il ripetersi dei c.d. “ergastoli bianchi”) nella strutturazione degli interventi rischiano di creare un parallelismo fra pena e misura di sicurezza e di vedere questa come prioritaria mentre per come il sistema è stato configurato, cioè a gestione sanitaria, la priorità deve essere quella della cura. Disporre con una misura di sicurezza che un soggetto deve restare 5-10 anni in REMS che impatto ha sui programmi di cura e abilitazione? Questi potrebbero prevedere ben altri tempi e richiedere alternative come per altro è previsto dalla normativa. Un’ambiguità che va risolta con una ridefinizione degli equilibri anche di potere, tramite una forte intesa e comunanza di intenti, tra giustizia e psichiatria ma anche con chiara e puntuale azione legislativa. Questo è il tema centrale della riforma.
Quando si parla di misure coercitive dell’infermo di mente non imputabile, sotto il profilo operativo occorre precisare le sedi, le competenze e le modalità di applicazione delle misure “coercitive” non essendo queste di norma strumenti di tipo sanitario. Anche questo riapre il tema del ruolo del sistema penitenziario per i soggetti con disturbi mentali nei quali il bisogno di custodia sia decisamente prevalente o quando vi siano ripetute e gravi violazioni e reiterazioni di reati, anche per poter formulare programmi graduali e responsabilizzanti.
Ben vengano disposizioni volte a garantire la continuità delle cure e dei processi di riabilitazione da parte delle REMS e dei servizi territoriali dei Dipartimenti di salute mentale sapendo che per operare secondo lo spirito della riforma, oltre alle indispensabili risorse (in molte casi ancora insufficienti) e strumenti innovativi (ad esempio il budget di salute) occorrono pre-requisiti (avere una residenza, un territorio, un sistema sociale e sanitario di riferimento funzionanti, una casa, un lavoro, un reddito minimo garantito ecc.) senza i quali le azioni auspicate rischiano di restare solo delle buone intenzioni.
Quale mandato è prioritario?
Dopo avere visto che il sostituto dell’OPG non è la REMS (e questa non è una nuova struttura di natura giudiziaria che possa essere considerata un’appendice del carcere) ma al posto dell’OPG vi è (o dovrebbe esserci) un sistema di welfare, sanitario e sociale, che gestisce percorsi di cura in raccordo con la giustizia, avvalendosi tra l’altro anche di una struttura socio-sanitaria specializzata, la REMS. Chiarire e condividere questo punto è essenziale anche per definire quale sia il mandato prioritario e di conseguenza come debbano avvenire accessi, gestione, dimissioni ecc.. superando ogni ambiguità e disfunzionalità.
La priorità del mandato di custodia rispetto a quello di cura è ancora nella mente e nelle prassi di molti come se nulla fosse cambiato rispetto all’OPG. Se questo doveva o deve essere le REMS non sono idonee. Diciamolo perché psichiatri, infermieri, assistenti sociali, psicologi, tecnici della riabilitazione ecc. non sono formati per la custodia, né le strutture sono adatte. Non solo ma il clima custodialistico è in larga misura in contrasto con quello necessario per un adeguato e moderno programma di cura. Le modalità di accesso attraverso le assegnazioni del DAP probabilmente sono in linea con le procedure carcerarie ma sono del tutto inadeguate per le ammissioni in una struttura sanitaria dove il percorso va costruito, preparato adeguatamente al fine di avere la collaborazione e la partecipazione della persona ospite. Tra l’altro vi è differenza tra il fare una terapia e sviluppare un programma di cura e abilitazione. Infatti se la psichiatria in carcere può aiutare con terapie (farmacologiche o psicologiche) le persone con disturbi mentali detenute, è solo nel contesto aperto possibilmente territoriale, in una prospettiva di libertà, di evoluzione-cambiamento che si possono realizzare quell’insieme di interventi (compresi quelli psico-sociali) del programma di cura quale parte di un più ampio progetto di vita di cui la persona diviene protagonista, responsabile verso sé e gli altri. Uno scenario fragile che va sostenuto con tutti gli strumenti disponibili. A partire da un rinnovato atteggiamento fondato su umanità ed empatia.
Se l’unica preoccupazione è trovare “contenitori”, posti letto per persone sconosciute a se stesse ma anche a chi dovrebbe prendersi cura di loro, persone a due dimensioni, quelle dei certificati, delle perizie, delle carte giudiziarie, delle pratiche, dei bolli e dei riti, delle attese e di un potere burocratico distante dalla vita reale, dalle speranze e dalle sofferenze, da quei movimenti fragili, quei cambiamenti desiderati e temuti, da inconsce paure e voglia di ricominciare, quale riabilitazione si può realizzare? Come decidere magari senza vedere, senza sentire l’odore, avvertire il calore, sopportare lo sguardo, senza ascoltare i silenzi e le spesso sofferte comunicazioni di persone talora clamorosamente presenti e a volte quasi invisibili? Come la limitazione della libertà non deve diventare perdita delle capacità, della dignità e delle opportunità? Come evitare la deriva assistenzialistica e regressiva, il tempo vuoto e inutile a favore della responsabilità e della riparazione, di un tempo ricco e produttivo?
Come non unire silenzio, inutilità e dolore ad altre incomprensioni, insignificanze e ad altro dolore? Povertà ad altre molteplici povertà? Quella umana prima di tutto, priva della curiosità e della capacità ed ambizione di incontrare l’altro pensando che ogni incontro può cambiare l’altro e noi stessi? Solo creando un senso condiviso, una cultura della presenza si può (ri)cominciare un cammino insieme per ritrovare persone scomparse a se stesse, incontrare e affrontare storie drammatiche e maledette o banali e quasi insignificanti, ridare voce e dignità alle persone e riscoprire solidarietà, accoglienza e cultura in contesti indifferenti e insensibili o ostili.
La qualità della cura comincia con il primo incontro. E a volte ancora prima come insieme di speranze e aspettative che precedono ogni accesso. La freddezza e anomia della burocrazia rischiano di diventare un fattore antiterapeutico, di alimentare la sfiducia di persone spesso sole, povere, poco istruite, abbandonate e talora mal difese e poco tutelate anche dai loro legali.
Un cambio di fondo che prenda atto tra l’altro che la limitazione della libertà si può imporre mentre la cura si può fare in modo obbligatorio solo per brevi periodi. Ma non va mai dimenticato che non c’è riabilitazione in medicina senza il consenso e la partecipazione attiva della persona e non c’è inclusione senza una comunità che accoglie ma rifiuta l’altro, il diverso diventando sempre più alienata anche a se stessa.
C’è da augurarsi che venga al più presto recuperato lo spirito che ha portato all’approvazione della legge 81/2014 e l’intera riforma esca dal cono d’ombra e non sprofondi nel buio delle carte e dei cavilli o ancora peggio nelle inadempienze e nei rimpalli tra istituzioni o delle soluzioni semplicistiche che non vanno al cuore dei problemi. Vi è una grande occasione per accendere i riflettori su un tema altamente sensibile: come occuparci delle persone che violano le leggi e sono private della libertà.
Pietro Pellegrini
Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche, Ausl di Parma
[1] Luigi Ferrarella nell’articolo "I malati psichiatrici che sono pericolosi ma restano in libertà. Le nuove strutture senza posti, pm in difficoltà" Corriere della Sera, 20 aprile 2016 pag. 16.
[2]“T
enuto conto dell’effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e dell’assetto delle nuove REMS, previsione della destinazione alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) prioritariamente delle persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico – riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell’articolo 32 della Costituzione“.
[3]Lettera del comitato StopOpg inviata al ministro della Giustizia.(Quotidiano Sanità, 5 agosto 2016)
[4] Si stima che il 15-20% dell’intera popolazione carceraria abbia disturbi mentali e/o da sostanze. Circa Il 30 % dei detenuti è straniero. Spesso si hanno pluripatologie e situazioni multiproblematiche.
[5] Un calcolo molto approssimativo dice che se solo il 5% delle persone detenute con disturbi mentali e/o da sostanze dovesse essere trasferito in REMS occorrerebbero almeno altri 500 posti a livello nazionale.
[6]Daniele Piccione “REMS. Per superare l’infelice emendamento: antidoti per il legislatore Per mantenere coerente il percorso di umanizzazione del trattamento del reo che soffre di disturbo mentale.” SOSSanità n. 35/2016
SOS Sanitàhttp://www.sossanita.it/doc/2016_09_stop_emendamento-REMS-Piccione.pdf
“Nella prospettiva dell’effettivo e definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, introduzione di disposizioni volte a destinare alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) le sole persone per le quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale e il conseguente bisogno di cure psichiatriche; esclusione dell’accesso alle REMS dei soggetti per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali ancora occorra accertare le relative condizioni psichiche; sviluppo ed implementazione delle sezioni degli istituti penitenziari garantendone l’effettiva idoneità a garantire i trattamenti terapeutici e riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze individuali di ciascun soggetto e nel pieno rispetto degli articoli 27 e 32 della Costituzione;valorizzazione dell’istituto del piano terapeutico individuale per ciascun individuo sottoposto a misura di sicurezza anche non detentiva; sviluppo del principio di eccezionalità nella comminazione delle misure di sicurezza di carattere maggiormente afflittivo della libertà personale, con particolare riferimento alla previsione di un novero di fattispecie criminose di rilevante gravità per le quali sole ammettere le misure coercitive dell’infermo di mente non imputabile; introduzione di apposite disposizioni volte a garantire la continuità delle cure e dei processi di riabilitazione in chiave integrata da parte delle REMS e dei servizi territoriali che fanno capo ai Dipartimenti di salute mentale”.