Nel racconto
Diario di un corpo di
Daniel Pennac, il padre del protagonista, rivolgendosi al figlio, dice: “la natura ha orrore della simmetria […] non commette mai un simile errore di stile. Ti stupirebbe vedere com’è inespressivo un viso simmetrico, se ne incontrassi uno!”. Un’affermazione che ricorda molto da vicino quanto sosteneva
François Dagognet, riguardo al pensiero del medico e filosofo francese
Georges Canguilhem: “in fondo, la vita preferisce l’asimmetria. Essa tenta così di scampare alla morte, o di giocare almeno diversi ruoli, a seconda delle circostanze”.
È innegabile che il desiderio di rendere simmetrico ogni aspetto della nostra esistenza, compreso il rapporto tra salute e malattia, condizionando quindi in maniera decisiva la relazione medico-paziente, sia una delle prerogative principali dell’epoca in cui viviamo, al di là dei modi differenti di intendere la natura e la vita. Volerle simmetriche non significa altro se non ambire concretamente all’equivalenza tra realtà e razionalità che, da sempre agognata in Occidente, oggi ci sembra a portata di mano in virtù degli importanti progressi tecnologici, scientifici e medici avvenuti nel mondo contemporaneo.
In altri termini, si ritiene che sia possibile rapportarsi ai problemi quotidiani della realtà allo stesso modo in cui il regista e lo sceneggiatore di un film si rapportano alla trama che stanno liberamente scrivendo. Si separa, secondo criteri soggettivi che rasentano l’arbitrarietà, il problema X dall’ambiente naturale in cui è sorto, per posizionarlo in uno artificiale. In tal modo, si creano le condizioni per una situazione ideale in cui sia facile cogliere con sicurezza nel problema X l’effetto Y della causa Z e, dunque, trovare l’immediata soluzione al summenzionato problema.
Leggere la realtà nei termini di una sceneggiatura, in cui ogni evento è concatenato con gli altri attraverso il meccanismo rigido di causa-effetto, non può che corrispondere a un atteggiamento conservatore: ci si limita, infatti, a rivestire il reale di razionale, portando avanti indagini formali ignare del fatto che la nostra esistenza è inserita all’interno di sistemi instabili, dai confini labili e mobili e le cui relazioni mai sono lineari.
Questo tipo di
forma mentis, oggi ampiamente diffuso da un punto di vista sociale e culturale in Occidente, se applicato all’interno della duplice relazione salute-malattia e medico-paziente determina conseguenze problematiche e pericolose. Come osserva il medico inglese
Iona Heath, nel suo libro
Modi di morire, l’applicazione della simmetria alla vita e della razionalità alla realtà, tramite l’idea della sceneggiatura, non può che favorire il monopolio dei protocolli nell’ambito della qualità dell’assistenza sanitaria, con la loro ossessione per l’evidenza e per l’appropriatezza.
I pazienti diventano così “unità standardizzate di malattia”, poiché i protocolli non hanno tra le loro caratteristiche la capacità – umana, quindi relazionale – di comprendere l’unicità delle storie individuali e la complessità esistenziale alla base dei valori, delle aspirazioni, dei comportamenti, degli stati d’animo e dei modi di vivere che definiscono ogni persona nella sua singolarità irripetibile.
I parametri della perfomance e della perfezione razionale mutano, di conseguenza, il senso proprio del“dominio” della malattia attribuito alla scienza medica. Un dominio che indica sempre meno la semplice conoscenza del decorso della malattia, in vista di una sua possibile regolamentazione all’interno di una relazione attiva tra curante e curato, e sempre più l’acquisizione radicale di una padronanza arbitraria della vita che, nell’attribuire erroneamente un significato “morale” alla patologia, vede nella descrizione del sintomo e nella prescrizione del farmaco correlato la panacea di tutti i mali.
Parlare di valore morale della malattia significa scambiare la naturale precarietà delle strutture organiche con l’attacco dall’esterno di un nemico, quindi di un male, che vuole – in stile Risiko – conquistare l’organismo di cui si è interessato. Da cui segue l’assegnazione al medico di un ruolo eroico e militaresco: egli deve sconfiggere il nemico in modo lineare e impersonale, a prescindere dal singolo caso e dalla complessità all’interno di cui si collocano le sue azioni e le sue relazioni con il paziente. “Sul piano teorico naturalmente – ammette il medico e chirurgo
Atul Gawande nel suo libro
Essere mortale – sapevo bene che i miei pazienti potevano morire, ma ogni reale evenienza di decesso mi appariva una trasgressione, come se le regole con cui pensavo si stesse giocando non fossero state rispettate. Non saprei dire che gioco avessi in mente, ma in ogni caso era uno al quale noi vincevamo sempre”.
A tali risultati porta l’idea della vita simmetrica e della realtà razionale. Ma, come detto, non è possibile incontrare un volto simmetrico e, anche nel caso in cui lo si possa incontrare, questo non potrà che essere inespressivo. Fuor di metafora, pensare la relazione medico-paziente e salute-malattia nei termini di una sceneggiatura significa causare un lacerante spaesamento tanto nel medico curante quanto nel paziente bisognoso di cura.
Ma quali sono le alternative? E, soprattutto, quale può essere l’ausilio di un filosofo all’attività terapeutica di un medico? A mio modo di vedere, occorre superare la sindrome della perfezione e della linearità oggettiva dei fatti, che è molto spesso frutto di una visione antropomorfica della vita, la cui deriva è l’esatto opposto dell’obiettivo a cui tende: vale a dire, l’interferenza del pregiudizio nella relazione medico-paziente. Tale sindrome trasforma, cioè, la relazione medico-paziente in un inefficace monologo del primo nei confronti del secondo. L’alternativa è, invece, la valorizzazione di questa relazione, la quale va vista come un gioco con due giocatori, per cui il primo deve indovinare il comportamento del secondo, il quale non dice mai ciò che vuole sentirsi dire a priori il primo. Come, d’altronde, sostengono diffusamente gli scienziati della complessità.
Il malato, in altre parole, è un sistema aperto, mai lineare, in grado di elaborare gli input che riceve dall’esterno a seconda delle sue particolarissime inclinazioni, dei suoi trascorsi di vita, dei suoi modi di sentire e di interpretare. Esserne consapevoli, significa porre il rapporto di cura su binari relazionali che, lungi dal cadere in un vago relativismo delle metodologie terapeutiche, coniugano in sé la complessità asimmetrica del vivere con la verità scientifica acquisita. Una verità mai solipsistica, mai autocentrata. Semmai, una verità che mira alla soddisfazione del singolo paziente, quindi che deve essere veicolata con quella delicata prudenza che traduce i bisogni del malato.
Costui non va visto come lo statico specchio di un sintomo nei confronti di cui intervenire in modo asettico e impersonale; egli è, piuttosto, il complice del processo terapeutico, colui che stipula un tacito accordo con il medico in vista del miglior risultato possibile da raggiungere, risultato che non è detto debba essere uguale per tutti. Non è detto che la mia serenità coincida con quella del vicino di letto.
Il punto di partenza per una medicina anti-dogmatica e inserita nel cuore della vita è la radicale negazione della simmetria impersonale e di tutto ciò che essa porta seco, il cui unico effetto è un automatismo nel metodo di cura tanto robotico quanto inefficace e doloroso, sia per il malato che per il medico.
Davide Sisto
Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione, Università di Torino