“L’Ocse, nel suo rapporto annuale ha individuato nella riduzione delle barriere regolamentari e amministrative alla concorrenza, una delle principali priorità per l’Italia. Si tratta di un’indicazione importante che va però valutata settore per settore, tenendo conto di ciascuna specificità e, soprattutto, dei reali benefici che ne discendono per i cittadini”. Ad affermarlo è stato Massimo Dona, segretario generale dell’Unione nazionale consumatori, che proprio questa mattina ha presentato a Roma i risultati di uno studio realizzato per conto della stessa UNC, da un pool di ricercatori del RESc (Ricerce Economiche Società cooperativa), sulla liberalizzazione della vendita dei farmaci. Lo studio – a spiegarlo è stato Stefano Fantacone, presidente del RESc – ha analizzato, in particolare le conseguenze di una maggiore apertura della vendita dei farmaci rapportandola alla situazione delle farmacie rurali. Quelle cioè che assicurano il servizio e l’assistenza farmaceutica nei 6 mila Comuni italiani al di sotto dei 5000 abitanti e lo fanno con utili e fatturati sensibilmente più bassi rispetto a quelli delle farmacie urbane.
Come è stato osservato il principio su cui si basano i processi di liberalizzazione è sostanzialmente quello di allargare l’area della concorrenza favorendo l’ingresso di altri operatori in un determinato settore, allo scopo di incidere – al ribasso – sulle dinamiche dei prezzi di un bene, facendo sì che i cittadini possano godere di un maggiore “benessere sociale”.
Questo principio però, pur positivo, poco si adatta alla vendita del farmaco. Come ha ricordato Fantacone, il beneficio derivante da una diminuzione dei prezzi dei farmaci “sembra insussistente”: da un lato, infatti, il prezzo del farmaco è rigidamente regolamentato dallo Stato. E, anche in riferimento ai medicinali Otc, va comunque valutata la portata della domanda: difficile immaginare che si acquistino più farmaci se non ce n’è necessità.
Lo studio del RESc ha così cercato di definire i confini del problema, individuando tre “domande cruciali” alle quali rispondere: “la diffusione delle farmacie sul territorio è realmente capillare?”; “la fruibilità del servizio è adeguata?”; “l’occupazione del settore è limitata dalle norme che regolano l’apertura di servizi sul territorio?”. In particolare si è cercato di rispondere al primo quesito. Per il quale i numeri sembrano confortare i fautori dell’attuale sistema della pianta organica. In Italia, infatti, la diffusione delle farmacie sul territorio è “del tutto paragonabile alla media europea”, con una farmacia ogni 3374 abitanti, contro un valore medio europeo di 3323.
In alcune Regioni, inoltre, questa media viene ulteriormente superata: si tratta soprattutto delle zone caratterizzate da una configurazione orografica “difficile” e nelle quali le aree urbane sono in numero decisamente minore rispetto alle piccole comunità locali.
La pianta organica, dunque, sembra rispondere efficacemente alle necessità dei cittadini garantendo la distribuzione farmaceutica sull’intero territorio nazionale. Ma i ricercatori sono andati oltre, chiedendosi se “gli stessi risultati sarebbero stati ottenuti con un processo di liberalizzazione che avesse eliminato i criteri regolazione dell’inserimento delle farmacie sul territorio?”
Si arriva così ad esaminare la situazione delle farmacie rurali, quelle che, in sostanza, “soddisfano la domanda dei territori marginali con basso bacino d’utenza”. E la risposta che ne deriva non è certamente in linea con gli auspici dei fautori delle liberalizzazioni. La ricerca del RESc, infatti, ha preso in considerazione un campione geografico – il territorio della provincia di Chieti – confrontando la distribuzione delle farmacie con quella delle parafarmacie aperte grazie alla legge Bersani. Dal confronto è emerso che queste ultime sono tutte concentrate nella zona a più elevata densità di popolazione – nel caso in esame, la fascia costiera – dove sono certamente più elevate le condizioni di redditività. “Se le scelte insediative delle parafarmacie fossero in qualche modo rappresentative dei comportamenti che prevarrebbero in una condizione di libero mercato” concludono i ricercatori del RESc “la spinta prevalente appare essere quella alla concentrazione degli insediamenti, con relativo abbandono delle zone marginali”. Un esito “prevedibile” ma anche “largamente indesiderabile e in potenziale contrasto con l’articolo 32 della Costituzione sulla tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo”. E che, inoltre, potrebbe ulteriormente favorire lo “spopolamento” dei piccoli Comuni, come ha ricordato Franca Biglio, presidente dell’Anpci (l’Associazione dei piccoli Comuni italiani), determinato anche dalla progressiva scomparsa di altri servizi di utilità sociale come gli uffici postali, le scuole o gli esercizi commerciali”.
Per quanto riguarda invece la fruibilità del servizio e l’occupazione, lo studio del RESc si limita a qualche considerazione: il primo aspetto è direttamente collegato alla presenza delle farmaci sul territorio e, piuttosto che da una liberalizzazione “spinta” potrebbe magari essere affrontato rivedendo il sistema degli orari di apertura degli esercizi, così da venire incontro “alle mutate abitudini della popolazione”. L’occupazione, invece, meriterebbe una trattazione specifica: certo la regolamentazione delle aperture degli esercizi ha “presumibilmente” un effetto negativo e, al tempo stesso, il percorso formativo del farmacista non è “necessariamente finalizzato all’impiego nella distribuzione finale”. In questo caso sarebbero forse opportune – oltre che una liberalizzazione del mercato – scelte politiche capaci di “ridisegnare il ruolo della farmacia nella fornitura di servizi sul territorio, cogliendo così l’opportunità di rafforzare e rendere più efficiente il modello di offerta sanitaria”.